Il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo
Di Giovanni Moschetti
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Abstract
Il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, individua una prima fase di delibazione del giudice tributario in ordine al corretto adempimento da parte dell’Ufficio dell’onere della prova, altresì indirizzando verso una maggiore responsabilizzazione della parte amministrativa e verso una prova più rigorosa dell’atto impositivo. Si è così limitato alla pars destruens dell’annullamento dell’atto impositivo insufficientemente provato; ciò peraltro non si pone in antitesi (e può anzi essere adeguatamente completato) con la giurisprudenza più recente che ammette ed anzi richiede l’intervento del giudice in funzione di tutela del contraddittorio e della parità, una volta che «l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria». Permane la necessità di un completamento della disciplina istruttoria per garantire maggiore certezza nell’esercizio del potere-dovere acquisitivo del giudice. Tale ulteriore passo richiede prima ancora individuazione del fine del processo tributario.
Art. 7, paragraph 5-bis, legislative decree 546/1992: an only drafted painting, between confirmed disposable principle and acquisitive jurisprudence. – Art. 7, paragraph 5-bis, legislative decree 546/1992 identifies a first step of rough judgment of the tax judge regarding the right fulfillment by the tax administration of the onus probandi, also addressing towards making more responsible the administrative part and towards a more rigorous proof of the tax deed. It has thus limited to the pars destruens of the overruling of the meagerly proved tax deed; however this is not in contrast (and may rather be suitably completed) with the more recent jurisprudence which allows, and rather requires the intervention of the judge in order to ward the cross-examination and the parties’ equality, as far as «the tax administration has provided enough circumstancial evidences in order to state the existence of the tax duty». Remains the necessity of a completion of the investigation rules in order to guarantee more certainty in the exercise of the judge’s acquisitive power-duty. This further step requires, even previously, the identification of the tax trial purpose.
Sommario:1. L’esclusione del potere suppletivo del giudice, riaffermata nel comma 5-bis dell’art. 7, non esclude ex se la “funzione di riequilibrio” del giudice tributario affermata da recente giurisprudenza di Cassazione. – 2. Il comma 5-bis introduce un dovere di delibazione sugli “elementi di prova”, responsabilizzando la parte pubblica nella raccolta del materiale probatorio, prevedendo annullamento in limine litis in ipotesi di insufficienza probatoria. – 3. Il comma in esame, non è in contrasto con il principio di “vicinanza alla prova” quale criterio ragionevole di distribuzione dell’onus probandi, e innalza la “misura della prova” a carico della parte pubblica. – 4. Rischio di eccessiva discrezionalità del giudice in mancanza di un fine che regoli l’attività istruttoria. Il nuovo comma 5-bis fornisce alcuni criteri guida per una sentenza di annullamento “ragionevolmente motivata”, ma rimane da disciplinare la pars construens. – 5. La posizione della Corte costituzionale in merito all’esercizio dei poteri istruttori nel processo tributario: il dovere di chiarimento dei risultati probatori. – 6. Scostamento dall’istruttoria del processo amministrativo? In tale processo la Consulta valorizza l’iniziativa istruttoria del giudice al fine della “verifica della veridicità dei fatti” posti a fondamento dell’atto amministrativo. – 7. Conclusioni: un quadro abbozzato, ma suscettibile di coerente completamento.
1. L’incipit della seconda frase del comma 5-bis del novellato art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, ad opera della L. n. 231/2022, prevede che «il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale … le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni» (sul comma 5-bis dell’art. 7 si veda, in dottrina, Della Valle E., La nuova disciplina dell’onere della prova nel diritto tributario, in il fisco, 2022, 40, 3807 ss.; Glendi C., L’istruttoria nel processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Dir. prat. trib., 2022, 6, 2192 ss., 2194; Zagà S., La “nuova” prova testimoniale scritta nel riformato processo tributario, in Dir. prat. trib., 2022, 6, 2142 ss.).
In via del tutto generale il comma 5-bis non compie alcun cenno a possibili iniziative istruttorie del giudice, essendo una norma che mira a porre l’onere della prova dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria (ma, secondo l’opinione di Glendi C., ibidem, anche dei fatti modificativi, impeditivi od estintivi), raccolti nella fase istruttoria procedimentale, in capo alla parte pubblica.
Inoltre la novella per la prima volta interviene con disposizioni espresse riguardanti non solo l’onere della prova, ma anche i doveri (non più e non solo facoltà e poteri) del giudice tributario in caso di prova mancante, insufficiente o contraddittoria (“il giudice…annulla l’atto impositivo…”).
Ne deriva la necessità di esaminare come tali disposizioni, in quanto vere e proprie “novelle”, si inquadrino-interagiscano con il diritto vivente della Suprema Corte.
L’attuale orientamento giurisprudenziale sul tipo di giurisdizione è noto: il processo tributario è un processo di impugnazione-merito (si veda, per tutti, in dottrina, Tesauro F., Manuale del processo tributario, V ed., Torino, 2020, 216 s.; Turchi A., Motivazione della sentenza e oggetto del processo tributario, in Riv. dir. trib., 2021, 3, 184).
In base a tale impostazione di sistema, il giudizio tributario è introdotto dall’impugnazione di un atto, ma non si deve limitare all’esame della legittimità del medesimo; il giudizio tributario implica infatti anche un giudizio sul rapporto per cui il giudice tributario deve procedere a rimodulare la pretesa tributaria in considerazione delle risultanze processuali, senza annullare l’atto che non sia palesemente affetto da vizi procedimentali (ad esempio decadenza o nullità di notifica dell’avviso di accertamento). Il giudice ha un potere-dovere di conoscere i fatti posti a fondamento dell’atto impugnato; si parla infatti anche di giudizio “impugnatorio-cognitorio”.
È significativa una recente sentenza della Suprema Corte (Cass., sez. trib., n. 34393/2019, ancora non adeguatamente valorizzata in dottrina) che, pur riconoscendo a) che il giudice tributario non possa supplire all’inattività delle parti nella produzione di documenti ritenuti necessari e che sono nella disponibilità delle stesse (sulla scia dunque dell’abrogazione del comma terzo dell’art. 7), afferma b) un ruolo di riequilibrio delle disparità probatorie comportanti un “dovere di soccorso” del giudice, c) laddove, in assenza di intervento, sarebbero violati i principi costituzionali della parità e del contraddittorio.
In tale “arresto”, oggetto del giudizio era se fosse stato corretto il comportamento del giudice di merito che aveva ritenuto «necessario ai fini del decidere l’esame del processo verbale di constatazione e dei relativi allegati con le tabelle di ricostruzione induttiva del reddito e, preso atto della loro mancanza agli atti, non ne» aveva «ordinata la produzione, secondo il potere/dovere attribuito dalla legge al giudice tributario in simili casi». In mancanza della produzione del processo verbale di constatazione su cui l’atto impositivo si fondava, non aveva «reso una quantificazione dell’obbligazione tributaria in sostituzione di quella operata dall’Ufficio, in ossequio alla giurisdizione sul rapporto e non (solo) sull’atto che caratterizza il processo tributario» (così il par. 2 della sentenza).
La suddetta pronuncia ha ritenuto che non fosse sindacabile in sede di legittimità la motivazione di merito della Commissione territoriale, la quale, rilevato che le parti non avevano prodotto i documenti necessari al fine del decidere (così non assolvendo «ad un onere dispositivo che sulle parti sostanziali e processuali grava»), aveva «giudicato iuxta alligata et probata». Ha altresì ritenuto che non potesse «trovare accoglimento la censura di mancato esercizio di un suo potere di cui [aveva] motivatamente ritenuto non dover fare esercizio» (par. 4).
Pertanto, la Suprema Corte – sulla scorta dell’abrogazione del comma terzo dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 – ha ritenuto che, ancorchè i documenti fossero necessari al fine di decidere, il giudice tributario deve valutare in primis (e, diremmo, preliminarmente) se la parte che ne ha la disponibilità abbia prodotto in giudizio detti documenti ed ha semplicemente (in tale fase) un dovere di motivare in relazione all’acquisizione o meno dei documenti.
Alcuni passaggi di tale sentenza sono di particolare interesse poiché svolgono ulteriori riflessioni sul ruolo del giudice quale garante della parità. Ne risulta un quadro che, pur riaffermando il principio dispositivo nel caso di inattività della parte che ha la disponibilità della prova, dà poi spazio al principio acquisitivo.
Si legge al par. 3.1. che, data la diversità della posizione delle parti processuali, vi sarebbe la necessità di un «riequilibrio della parità delle parti». Detta funzione, «anche dopo la soppressione dell’art. 7, comma 3», e «in un’ottica di avvicinamento al processo civile ordinario – è logicamente e fisiologicamente affidata al giudice che, proprio in ragione della peculiarità delle parti, è chiamato ad adottare provvedimenti per riequilibrare il rapporto processuale, avendo come assi cartesiani in quest’operazione la posizione di partenza di ciascuna parte…e l’oggetto del giudizio espresso nei limiti della domanda».
«La funzione di riequilibrio a garanzia del contraddittoriosi esplica principalmente intervenendo nella fase istruttoria» potendo chiedere alla parte privata «non la produzione della prova, allorquando esuli dalla propria disponibilità, ma solo il principio di prova, cioè l’indicazione del mezzo» (così al par. 3.2.).
Detta acquisizione del mezzo di prova, tuttavia, non è doverosa, ma «rimessa alla valutazione del giudice secondo un sistema che è detto, appunto, misto dispositivo-acquisitivo» (nella dottrina tributaria, Muleo S., Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 3, 603 ss.; dello stesso Autore, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in Pistolesi F. – Carinci A., a cura di, La riforma della giustizia e del processo tributario, Commento alla legge 31 agosto 2022, n. 130, Milano, 2022, 83 ss.; nella dottrina amministrativistica, sull’onere della prova in capo alla parte più vicina ai fatti da provare e che dunque ne ha la disponibilità, vedi Travi A., Lezioni di giustizia amministrativa, XIII ed., Torino, 2019, 267; Giani L., La fase istruttoria, in Scoca F.G., a cura di, Giustizia amministrativa, VII ed., Torino, 2017, 392-393; Saitta F., Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 3, 914-915, 923-924; Galli R., Nuovo corso di diritto amministrativo, vol. II, VI ed., Padova, 2019, 1540 ss.; Veltri G., Gli ordini istruttori del giudice amministrativo e le conseguenze del loro inadempimento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2013, par. 2).
Pertanto il giudice tributario avrebbe solo un dovere di «svolgere una delibazione sull’esercizio del potere acquisitivo in deroga al principio dispositivo», un «intervento in soccorso istruttorio a garanzia del contraddittorio».
L’esercizio o meno dei poteri istruttori richiede, dunque, proprio in quanto «incide sull’elemento essenziale del processo qual è il contraddittorio», una motivazione che manifesti la «ponderazione delle diverse ragioni che hanno condotto a disporre o a non disporre l’acquisizione documentale tenendo presente che in ogni caso il potere officioso è sempre deroga al principio generale dispositivo» (par. 3.3. della citata sentenza n. 34393/2019) (in termini, Cass. n. 29856/2021).
La sintesi tra dovere della prova dell’Ufficio (in coerenza col principio dispositivo) e potere di acquisizione giudiziale dei documenti necessari per la decisione, viene poi così (equilibratamente) delineata: l’esercizio di tale potere «non può sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova, che grava sull’amministrazione finanziaria quale attrice in senso sostanziale, trasferendosi a carico del contribuente soltanto quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria. Tuttavia, quandola situazione probatoria [sia] tale da impedire la pronuncia ragionevolmente motivata senza l’acquisizione d’ufficio di un documento», «l’esercizio di tale potere [di acquisizione d’ufficio di documenti ritenuti necessari per la decisione] si configura come undovere» che, in caso di «mancato assolvimento, dev’essere compiutamente motivato» (par. 3.4.) (in termini, sul potere meramente integrativo, e non sostitutivo, del giudice tributario, anche alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 Cost., cfr. Cass. civ., 11 maggio 2021, n. 12383; si veda altresì Cass. civ., 31 luglio 2020, n. 16476, la quale peraltro ha ritenuto legittimo l’ordine del giudice all’Ufficio di produrre il processo verbale di constatazione in una fattispecie in cui questo era già noto al contribuente).
È appena il caso di rammentare che i principi guida dell’esercizio dei poteri del giudice, richiamati in alcune di queste sentenze, sono il principio di terzietà del giudice e del giusto processo, nonché il principio dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 12383/2021; Cass. n. 16476/2020; Cass. n. 955/2016; in dottrina, per un richiamo al principio di terzietà del giudice, si veda per tutti Tesauro F., Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 1, 11 ss., ed ora in Fichera F. – Fregni M.C. – Sartori N., a cura di, Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Il processo, Torino, 2022, 65 ss.). Principi attenti più a garantire la parità delle parti nei doveri probatori che non l’esercizio di poteri istruttori con finalità di chiarimento dei fatti (intesi infatti come “deroga al principio generale dispositivo”).
Il comma 5-bis ci sembra in linea con questa giurisprudenza laddove: a) prevede un dovere del giudice; b) in una fase preliminare del processo; c) arricchendo le ipotesi di delibazione preliminare (di cui all’art. 27, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, che si riferisce ad ipotesi di inammissibilità del ricorso “nei casi espressamente previsti”).
Ma in un quadro di principio acquisitivo o dispositivo?
Sta di fatto che ritiene sufficiente una prima delibazione del giudice circa il minimo di produzione probatoria da parte dell’Ufficio, in tal modo rafforzando l’idea di un processo di impronta dispositiva. Peraltro, alla luce della significativa pronuncia n. 34393/2019 ci sembra si possa affermare che non esiste contrasto tra il dovere di annullamento del giudice per difetto di prova (mancante, contraddittoria o insufficiente) del provvedimento impositivo (quale previsto nel comma 5-bis citato) ed il dovere di riequilibrio del giudice per assicurare il “giusto processo”, una volta che “l’ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussitenza dell’obbligazione tributaria”.
Il comma 5-bis, non è l’alfa e l’omega dell’attività istruttoria del giudice: è un primo tratto di un disegno complessivo ancora non interamente compiuto dal legislatore.
2. Il comma 5-bis introduce dunque un dovere in capo al giudice, non espressamente previsto nella precedente disposizione normativa dell’art. 7, di compiere una prima delibazione circa l’esistenza di “elementi di prova” atti a dimostrare “in modocircostanziato e puntuale” le “ragioni oggettive” poste a fondamento dell’avviso o dell’atto di contestazione. Un primo esame, insomma, relativo all’esistenza di adeguati “elementi di prova”.
Una novella, quindi, che responsabilizza altresì la parte pubblica nella fase procedimentale, nel senso a) di valutare, prima di emettere l’avviso di accertamento, la portata degli elementi probatori raccolti (cfr. Manzoni I., Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’Iva, Milano, 1993, 14 ss.) e dunque b) circa la possibilità giuridica di notificare con successo l’avviso di accertamento (se ed in quanto sussistano dette ragioni oggettive a fondamento della pretesa), e che sembrerebbe rivolta a migliorare l’azione amministrativa ed a ridurre il contenzioso (è stato osservato che la norma ha «per così dire, una funzione ‘monitoria’ nei confronti dell’Amministrazione finanziaria», al fine di prevenire «l’emissione di atti di dubbia solidità probatoria»; così, Caumont Caimi C. – Pardini N., Nuova disciplina dell’onere della prova: la riscoperta del passato per un futuro più giusto, in Corr. trib., 2023, 1, 70). Ma diremmo – e ancor prima – ad un principio, per così dire, “democratico”, di rispetto del cittadino che non può essere investito di un’accusa di “violazione” se non causa cognita (e causa cognita comprende necessariamente il quadro probatorio adeguato e coerente con il dispositivo finale). Conferma di queste linee ispiratrici ci viene dalla “Relazione interministeriale” che, nell’all. XII relativo al “contraddittorio nel procedimento”, afferma che il contribuente ha un diritto «di anticipare la sua difesa rispetto alla eventuale fase contenziosa», consentendo così «all’autorità fiscale di conoscere elementi di fatto e/o diritto che assicurano un più fondato esercizio del potere impositivo»; in tal senso, prosegue la Relazione, «il contraddittorio può avere un significativo effetto deflattivo sul contenzioso tributario, oltrechè essere naturalmente espressione di civiltà giuridica».
In mancanza di tali “ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa” evidenziate negli “elementi di prova”, infatti, l’avviso dev’essere annullato, senza entrare nel merito.
Una sorta di fase preliminare, senza alcun cenno alla necessità di una completa istruttoria.
Solo qualora solo sussistano elementi probatori che giustifichino l’esistenza di ragioni oggettive (elementi almeno “sufficienti”), si dovrebbe procedere con l’istruttoria processuale (in tal senso anche Russo P., L’istruzione probatoria, in Diritto processuale tributario, Milano, 2022, 158; Caumont Caimi C. – Pardini N., cit., 71), “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”, avvalendosi altresì delle ulteriori possibilità introdotte dal novellato comma 4 per quanto attiene la prova testimoniale scritta.
È da chiedersi se questa responsabilizzazione della pubblica Amministrazione possa produrre effetto anche sul contenuto della motivazione del provvedimento impositivo.
È noto che, in mancanza di una disciplina generale, solo in materia IVA (art. 56 D.P.R. n. 633/1972) ed in materia di irrogazione di sanzioni (art. 16 D.Lgs. n. 472/1997) è espressamente previsto che la motivazione indichi le fonti probatorie.
Il comma 5-bis non interviene sul punto (che è di diritto procedimentale e non processuale), ma non può non avere un effetto indiretto sul medesimo.
Se l’Ufficio deve dare a se stesso la prova prima della notifica dell’atto, non si vede perché questa prova già acquisita non debba essere altresì indicata nell’atto stesso, in una cornice di rispetto del destinatario dell’atto (si veda per tutti sul punto, Gallo F., Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione del pensiero della Corte, in Rass. trib., 2001, 4, 1095; sulla stessa linea Salvini L., La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, 404 ss.; Russo P., op cit., 156 ss.; Zagà S., op. cit., 2145, ove ulteriori richiami dottrinali).
Si potrebbe dire che la nuova disposizione, nei limiti in cui è improntata ad una preliminare rigorosa applicazione del principio dispositivo, rappresenta un messaggio all’Ufficio sui rigorosi requisiti di un provvedimento impositivo.
3. Sia consentito un accenno all’apparente radicale contrasto di disciplina tra la ripartizione dell’onere probatorio in tema di obbligazione tributaria, quale risulta dall’art. 7, comma 5-bis, prima frase, e in tema di adempimento dell’obbligazione contrattuale quale risulta dalla pronuncia delle SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533.
Le SS.UU. hanno ritenuto conforme ad una regola di ragionevolezza stabilire che il creditore civilistico non sia tenuto a provare l’inadempimento del debitore (punto 2.2.2.) come pure l’inesatto adempimento (punto 4.1.); e ciò sia che intenda far valere l’inadempimento, o la risoluzione contrattuale o il risarcimento del danno. Le SS.UU. insegnano che in ambito probatorio, in un processo di chiaro stampo dispositivo, la ripartizione dell’onere della prova dev’essere risolta in base ad un esame in concreto, statuendo una regola ragionevole, e senza pretendere comportamenti (la prova di un fatto negativo) che vanno oltre le possibilità probatorie di una parte; in altre parole un comportamento non proporzionato. Pertanto le SS.UU. rilevano «conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore … fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento» (punto 2.2.3.).
Nell’ottica di non rendere eccessivamente difficile la prova dei fatti che non sono nella sfera d’azione del creditore, la sentenza sposa una soluzione ragionevole e non lontana dall’onere di fornire un “principio di prova” di matrice amministrativistica. Si legge infatti (al punto 2.2.4.) che «il creditore…deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto … mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento».
Tutt’altra la disciplina del comma 5-bis, che attribuisce al creditore tributario l’onere della prova e “sanziona” il difetto di prova con una pronuncia di annullamento.
Guardando però più a fondo, questa severità nei confronti del creditore tributario può essere coerente con il principio di “vicinanza alla prova”, poiché l’Amministrazione finanziaria è fornita di poteri invasivi che certo non ha il creditore privato, poteri finalizzati ad acquisire la prova dell’accusa. Ed è dunque proprio in coerenza con i poteri che la legge attribuisce all’Amministrazione finanziaria, e con la prova che questa deve avere (grazie ad essi) acquisito, che la legge tributaria impone alla stessa l’onere di provare in giudizio, a pena di annullamento, la fondatezza dell’atto impositivo.
Tanto più che l’atto impositivo costituisce normalmente accusa di violazioni commesse ed è altresì di regola accompagnato da sanzioni addirittura di stampo penalistico.
Le differenze sono dunque all’apparenza vistose, ma in entrambi i casi è applicato, nella ripartizione dell’onere della prova, il principio (ragionevole) di vicinanza alla prova (per tutti sul punto Muleo S., Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, cit.).
In coerenza con quanto sopra detto (l’esistenza cioè di adeguati poteri di acquisizione della prova ed il carattere accusatorio del provvedimento impositivo, altresì dotato di effetti ablatori), il comma 5-bis sembra voler altresì innalzare la “misura della prova” richiesta alla parte pubblica prima di passare ad una ponderazione dei diversi “elementi di prova” che emergono nel giudizio.
Il richiamo ad una prova che deve essere “circostanziata e puntale”, il richiamo alle “ragioni oggettive” su cui devono fondarsi la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni, sembra indicare una perseguita inversione di tendenza nel senso di un innalzamento della misura della prova da parte dell’Ufficio (rispetto ad un mero “principio di prova”).
Non più dunque ricostruzioni “soggettivistiche”, opinabili, creative, cautelative, bensì “oggettive” in quanto “circostanziate e puntuali”.
C’è dunque da chiedersi se la copiosa giurisprudenza in materia di operazioni inesistenti che prevede un trasferimento della prova in capo al contribuente quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussitenza della violazione tributaria, possa essere mantenuta a fronte dei sopravvenuti requisiti restrittivi, da assumersi non solo nella loro letteralità, ma altresì nella loro ratio di “oggettivo” rigore.
E lo stesso dicasi per tutti i casi in cui la prova presuntiva è stata ritenuta sufficiente (non già se altamente probabile, ma) se semplicemente “verosimile” o addirittura “non inverosimile”.
4. Una volta rilevato che il nuovo comma 5-bis interviene solo sulla fase preliminare di doveroso annullamento del provvedimento impositivo non fornito di adeguato supporto probatorio, lasciando inalterata l’attuale disciplina della successiva eventuale fase istruttoria (oggi affidata al diritto pretorio), si pone il problema di capire quale sia il grado di sufficienza probatoria tale per cui il giudice sia tenuto ad integrare le prove emerse in giudizio.
Anche in mancanza di una chiara indicazione del fine del processo in termini di ricerca della verità, ci sembra che la “stella polare” di tale scelta debba comunque essere quella della certezza dei fatti posti a fondamento dell’atto impugnato. La sentenza di Cassazione n. 12383/2021 (cit.) ha chiaramente rilevato che il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova può essere utilizzato «solo in situazioni di oggettiva incertezza in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti” “già forniti dalle parti» (parimenti Cass., 25 ottobre 2021, n. 29856; Cass. n. 16476/2020; Cass., 20 gennaio 2016, n. 955) «e sempre che la parte su cui ricade l’onere della prova non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita ma questa risulti piuttosto ostacolata dall’essere i documenti in possesso dell’altra parte o di terzi». Tale pronuncia ribadisce che è illegittima l’attivazione del potere di soccorso istruttorio, «in assenza di compiuta motivazione da parte del giudice circa la presenza di elementi di giudizio in merito ai fatti da provare tali da non essere ritenuti sufficienti per addivenire ad una statuizione ragionevolmente motivata».
È stato invece ritenuto legittimo (“possibile”) l’ordine di integrazione probatoria da parte del giudice di merito «qualora nel giudizio siano già presenti indizi sugli stessi fatti che una parte intende provare…, a maggior ragione se il processo verbale sia già conosciuto dal contribuente, perché in tal caso l’ordine del giudice non introduce nel processo alcune elemento nuovo», ma, come leggesi nella sentenza, «avrebbe semplicemente integrato un principio di prova già in atti» (così Cass. n. 16476/2020).
Come già sopra accennato, ci sembra che tali arresti siano più attenti al rispetto del principio di terzietà del giudice che non alla tutela di altri principi parimenti meritevoli di tutela, come ad esempio il “diritto alla prova” (contenuto essenziale del diritto alla tutela giurisdizionale garantito dagli artt. 24 e 113 Cost., su cui per tutti Russo P., op. cit., 149), il diritto al chiarimento dei fatti in contraddittorio, il diritto all’accertamento della verità dei fatti.
Si constata, ad oggi, in mancanza della previsione di un fine cui ricondurre l’intero processo, il rischio di una eccessiva discrezionalità delle Corti di giustizia tributarie nella scelta sull’esercizio o meno dei poteri istruttori.
Ciò emerge chiaramente nella parte motiva della sentenza n. 12383/2021, la quale analizza tre ipotesi di possibile acquisizione del processo verbale di constatazione.
La prima in cui il processo verbale di constatazione non è allegato, ma richiamato dal provvedimento impositivo e «che ne riporta alcuni elementi»; in tal caso il giudice «con onere motivazionale in merito, deve verificare se i detti elementi, considerati di\ per sé ovvero in uno con altri elementi agli atti, integrino indizi ma non tali da condurre ad una decisione ragionata»; nel caso invece in cui «non siano riportati parti» del processo verbale di constatazione, «il giudice, sempre con onere motivazionale in merito, dovrà verificare se il semplice richiamo abbia integrato, di per sé o in uno con altri elementi agli atti, un indizio nei termini di cui innanzi». In terzo luogo, in ipotesi di processo verbale di constatazione allegato al provvedimento impositivo (agli atti) ma non prodotto in giudizio, «la Commissione potrà disporre l’acquisizione … senza che ciò implichi esercizio dei poteri di integrazione probatoria di cui al citato art. 7, comma 1, trattandosi di attività preordinata alla completezza di un atto (quello impositivo) già agli atti processuali nonché funzionale all’integrazione del contraddittorio su esso e compatibile con la natura di impugnazione-merito propria del processo tributario».
Ci sembra che la novella di cui al comma 5-bis abbia indicato alcune linee di maggior certezza circa il rigore probatorio che deve essere assicurato per evitare una pronuncia di annullamento, ma rimane da disciplinare la pars construens nelle sue finalità e nelle sue regole.
5. La giurisprudenza della Corte costituzionale sembra orientata ad un dovere di chiarimento dei risultati probatori emersi in giudizio. La sentenza n. 109/2007 (che aveva dichiarato non illegittima l’abrogazione del terzo comma dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992) da un lato rileva la «indeterminatezza dei presupposti di esercizio dei poteri istruttori» collegati all’inciso “«necessari ai fini della decisione» (espressione utilizzata nuovamente in relazione alla possibile assunzione della prova testimoniale scritta di cui al novellato comma 4 dell’art. 7), dall’altro avverte che il giudice tributario ha il potere di chiedere «informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione che è necessario acquisire al processo” (ex art. 213 c.p.c.) “in funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono servite le parti».
Trattasi, come è agevole notare, di un esercizio dei poteri che trascende la mera tutela della terzietà del giudice rispetto agli oneri probatori delle parti. Inoltre, laddove il fine sia quello di chiarire i fatti posti a fondamento dell’atto impugnato, il potere tende a trasformarsi in un dovere.
Ancorchè, infatti, sia adempiuto l’onere di allegazione e l’onere probatorio, il giudice – alla luce di tale sentenza – avrebbe un dovere, fisiologicamente collegato al libero convincimento, di accertare che i fatti a fondamento dell’atto siano fondati.
È appena il caso di segnalare che la “Relazione finale” della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria del 30 giugno 2021, al punto 13, rilevava che «il giudice deve avere pieno accesso ai fatti, per poter rendere giustizia convenientemente»; e Franco Gallo, nello studio che accompagna la Relazione, sottolinea (al punto 5 – “Il divieto di prova testimoniale”) che «l’attuazione di una vera giustizia non può prescindere da una ricostruzione diretta dei fatti da parte del giudice con tutti i mezzi possibili»).
6. La Novella del 2022 – malgrado la situazione di «indeterminatezza dei presupposti di esercizio dei poteri istruttori» (Corte cost., n. 109/2007) – non affronta (in una pars construens) l’esercizio di tali poteri in relazione al potere-dovere del giudice di chiarimento dei risultati probatori; rafforzando di conseguenza solo il versante dispositivo del processo tributario.
In tal modo la Novella non valorizza quella «funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono serviti le parti», indicata dalla ora citata sentenza n. 109/2007 del giudice delle leggi. Di conseguenza (allo stato della incompiuta disciplina) l’istruttoria del processo tributario sembra allontanarsi dall’istruttoria del processo amministrativo così come delineata dalla sentenza della Consulta n. 251/1989, la quale aveva messo in luce:
a) che il giudice del processo amministrativo ha certo un sindacato «sull’esercizio del potere amministrativo», ma
b) che fine dell’esercizio dei poteri istruttori è quello di «pervenire alla migliore conoscenza dei fatti».
E ancora, in un passaggio di tale sentenza si legge che «se, ai fini della decisione occorre verificarelaveridicità di fatti posti a fondamento dell’atto amministrativo impugnato, è l’organo amministrativo che lo ha emanato a subire il relativo onere probatorio e le conseguenze del mancato assolvimento di questo».
In tal modo la Consulta fa derivare l’onere della prova in capo alla parte pubblica non già, o non solo, dal fatto di essere la protagonista dell’emanazione dell’atto e della previa attività istruttoria (e pertanto il soggetto che ha la migliore conoscenza dei presupposti dell’azione amministrativa), bensì dalla circostanza che l’accertamento in giudizio della veridicità dei fatti posti a fondamento dell’atto impugnato rappresenta un interesse pubblico.
E invero, subito dopo il giudice delle leggi non si limita a prevedere un mero annullamento dell’atto in ipotesi di prova insufficiente o contraddittoria o mancante (come nel comma 5-bis dell’art. 7), ma coinvolgeil giudice nell’acquisizione della prova ai fini del convincimento, prevedendo che «spetta al giudice che abbia disposto l’acquisizione della prova individuando la parte all’uopo onerata, di trarre il proprio convincimento dal comportamento dell’amministrazione che non sia stata in grado di dimostrare quanto affermato».
Insiste poi la sentenza con ulteriori riflessioni circa il coinvolgimento delle parti in una sorta di doverosa collaborazione probatoria al fine del chiarimento dei fatti.
«Il convincimento del giudice – conclude la sentenza al par. 4.1. – deve formarsi non sulla base di ciò che le parti prima del processo (come, ad esempio, l’amministrazione in sede di emanazione dell’atto amministrativo da cui trae occasione il processo) o durante esso abbiano affermato, bensi su ciò che ciascuna di esse, in base alle proprie disponibilità, sia stata in grado di provare». In tal modo lasciando intendere che il processo sia il luogo per consentire alle parti di esporre i fatti e i mezzi di prova di cui abbiano la disponibilità. E, di conseguenza, riconoscendo l’esercizio di un “diritto alla prova”.
Le argomentazioni della Consulta per una conoscenza esauriente (ovvero completa) e migliore, non sono conciliabili con un giudice mero spettatore. Se il giudice deve in primis sindacare le modalità con cui è stato esercitato il potere amministrativo e «muovere in primo luogo dall’esame del complesso degli elementi che l’amministrazione ha posto a fondamento delle proprie valutazioni», ciò poi «non esclude le opportune integrazioni che il giudice amministrativo, nell’esercizio dei suoi poteri ordinatori, può prescrivere onde pervenire nel modo più esauriente all’accertamento dei fatti su cui si fondano le rispettive pretese delle parti». In questo quadro spetta altresì al giudice «che abbia disposto l’acquisizione della prova individuando la parte all’uopo onerata, di trarre il proprio convincimento dal comportamento dell’amministrazione che non sia stata in grado di dimostrare quanto affermato».
Pertanto la scelta della Consulta in un processo – qual è quello amministrativo – con sistema dispositivo e metodo acquisitivo, sembra essere nel senso di un coinvolgimento del giudice e delle parti verso un fine comune: il massimo chiarimento dei fatti posti a fondamento dell’atto impugnato.
La previsione sic et simpliciter dell’onere della prova in capo alla parte pubblica e del dovere di annullamento in caso di prova insufficiente, di cui al novellato art. 7, comma 5-bis, appare invero riduttiva rispetto a tale quadro di insieme, trovando giustificazione (probabilmente) nell’assenza ad oggi di un chiarimento di fondo sul fine del processo tributario.
7. Il nuovo art. 7, per un verso amplia la possibilità probatoria (introducendo nel comma 4 la prova testimoniale scritta), avvicinandosi (per tale aspetto) al processo amministrativo, per altro verso se ne allontana non affrontando il tema di un doveroso coinvolgimento del giudice nella fase istruttoria laddove ciò sia richiesto dal fine di “verifica della veridicità dei fatti” posti a fondamento dell’atto amministrativo.
L’annullamento in limine litis in caso di una prova insufficiente è coerente con il principio di responsabilizzazione e di vicinanza alla prova, ma è ancora solo una parte del tema (per così dire la pars destruens) che dovrà essere più compiutamente affrontato nella cornice di un processo teso a ricercare la verità dei fatti “in giudizio”.
La ricerca della verità dei fatti è procedimento graduale e progressivo che necessita di un contraddittorio nella formazione della prova, ove le parti hanno modo di esporre i fatti nella loro disponibilità ed il giudice chiede chiarimenti, eventualmente interrogando le parti (ed ammettendo la prova testimoniale anche orale); insomma un processo con una effettiva fase istruttoria – ad oggi ancora estranea al processo tributario – rifugge da un semplice automatismo tra insufficienze probatorie ed annullamento dell’atto impugnato.
Detto automatismo svilirebbe altresì il ruolo del giudice e la sua capacità di adattare (con saggezza) la normativa al caso concreto (sul punto Moschetti G., Il principio di proporzionalità, Padova, 2017, 134), confliggendo altresì con l’avvenuta professionalizzazione dell’organo giudicante attuata dalla riforma.
Per comprendere al meglio la portata del tema, forse bisognerebbe ripartire dalla natura del processo tributario che adotta sì ai fini istruttori il principio dispositivo come principio base, ma non può e non deve dimenticare che «ha una funzione eminentemente pubblicistica, in quanto in esso prevalgono sempre elementi di interesse obbiettivo» (Pugliese M., La prova nel processo tributario, Padova, 1935, 18). Esso deve dunque assicurare garanzie costituzionali alla pari della fase procedimentale: il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, il diritto alla prova, il diritto all’accertamento della verità dei fatti dovrebbero caratterizzare entrambe le fasi.
Ancorchè la fase istruttoria non sia stata ancora disciplinata nella sua complessità che si estende ai compiti dei giudici e delle parti, ci sembra che comunque la novella del 2022 abbia posto i primi essenziali elementi che potranno essere completati anche alla luce dell’attuale giurisprudenza ispirata al “giusto processo”.
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