Sull’onere della prova dell’inerenza dei costi anche alla luce della recente novella

Di Livio Gucciardo -

(commento a/notes to Cass., sez. trib., 15 novembre 2022, n. 33568)

Abstract

L’ordinanza n. 33568/2022 della Corte di cassazione ribadisce che il principio di inerenza dei costi esprime una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, che si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, a prescindere da valutazioni di natura quantitativa. L’antieconomicità di un costo, tuttavia, può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza. In tale caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione è tenuta a dimostrare gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, evidenziando l’inattendibilità della condotta del contribuente.

On the burden of proof of the inherence of costs also in the light of the recent news. – The order no 33568/2022 of the Corte di Cassazione reaffirms that the principle of inherence of costs deals with a concrete correlation between costs and business activities, which results in a qualitative judgement, excluding quantitative assessments. The uneconomical aspect of a cost, however, can act as a symptomatic element of the lack of inherence. In such a case, if the taxpayer explains the facts that enable the cost to be traced back to the business activity, the Administration is supposed to demonstrate the further arguments put forward to the contrary, highlighting the unreliability of the taxpayer’s behaviour.

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’autonomia delle scelte gestorie dell’imprenditore nell’ambito della libertà di iniziativa economia. – 3. (Segue). Il sindacato di congruità dei corrispettivi, dei proventi, delle spese e degli oneri in base al valore normale dei beni e dei servizi. – 4. Il tema dell’onere della prova in ordine all’inerenza dei costi sostenuti dall’impresa. – 5. L’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546: una possibile soluzione. – 6. Osservazioni conclusive.

1. La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 33568/2022, è tornata a pronunciarsi sul principio di inerenza, affermando che questo esprime una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, che si traduce in un giudizio di carattere qualitativo che prescinde da valutazioni di natura quantitativa (Della Valle E., Attività produttiva delocalizzata: inerenza e strumentalità dei beni in caso di comodato a terzisti esteri, in Corr. trib., 2011, 13, 1046; Fransoni G., La Finanziaria 2008 e i concetti di inerenza e congruità, in Fransoni G., a cura di, Finanziaria 2008. Saggi e commenti, Milano, 2008, 148; Lupi R., Redditi illeciti, costi illeciti, inerenza ai ricavi e inerenza all’attività, Rass. trib., 2004, 6, 1935; Nocerino O., Il principio di inerenza nel reddito d’impresa. Dalla teoria generale al diritto positivo, Milano, 2020; Pedrotti F., Note in merito al requisito di inerenza dei componenti del reddito d’impresa, al presupposto oggettivo irpef e irap e al presupposto soggettivo iva in un caso “patologico” di conferimento aziendale, in Dir. prat. trib., 2018, 3, 1263; Procopio M., Il principio di inerenza ed il suo stretto collegamento con quello della capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2018, 4, 1674; Tinelli G., Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, 5, 437; Vicini Ronchetti A., La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa, Milano, 2016; Vignoli A., La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari, Roma, 2012; Zizzo G., La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in Falsitta G., a cura di, Manuale di diritto tributario. Parte speciale: il sistema delle imposte in Italia, Milano, 2018, 462).

La pronuncia, che si innesta nel filone giurisprudenziale inaugurato dalle ordinanze della Suprema Corte n. 450 e n. 3170 del 2018, con cui si è inteso superare il pregresso orientamento che riteneva di potere ritrarre il principio di inerenza dall’art. 109, comma 5, TUIR, risulta tuttavia interessante per la posizione assunta in ordine al tema dell’antieconomicità dei costi.

La controversia alla base dell’ordinanza, infatti, sorge da un avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2012 con cui l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione un importo corrispondente a costi non deducibili per provvigioni di ammontare significativo in rapporto a quello dei ricavi. Tali costi, in particolare, venivano giudicati dall’Amministrazione finanziaria sproporzionati poiché eccessivi rispetto «alla consuetudine e agli usi», oltre che non adeguatamente documentati da contratti.

Il principio di inerenza, che si identifica nel vincolo tra la spesa sostenuta e l’attività d’impresa esercitata, indirettamente, potenzialmente o in proiezione futura, da un lato, definisce e, dall’altro, delimita l’area dei costi che concorrono al reddito imponibile, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa (Corte cost., 4 dicembre 2020, n. 262).

Una questione particolarmente rilevante relativa al principio di inerenza è però rappresentata dal potere dell’Amministrazione finanziaria di sindacare la deducibilità di un costo sopportato dall’impresa in virtù dell’utilità o del vantaggio recato, nonché della congruità o dell’antieconomicità del medesimo.

L’idea che nel principio di inerenza sia implicita anche una relazione di congruità con l’attività cui si riferisce il costo è sostenuta da un certo orientamento giurisprudenziale (Cass., sez. V, 17 gennaio 2020, n. 924; Cass., sez. V, 19 ottobre 2018, n. 26456; Cass., sez. V, 15 giugno 2018, n. 15860; Cass., sez. V, 15 giugno 2018, n. 15856; Cass., sez. V, 30 maggio 2018, n. 13601; Cass., sez. V, 24 luglio 2002, n. 10802; Cass., sez. V, 27 settembre 2000, n. 12813), corroborato da prassi ministeriale e dell’Agenzia delle Entrate (nella ris. 31 dicembre 2012, n. 113/E, si afferma la sindacabilità dei compensi dall’amministratore ritenuti «insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi»; cfr. anche circ. 7 aprile 2016, n. 11/E; circ. 16 marzo 2016, n. 5/E; circ. min. 16 giugno 1984, n. 20/9/613; Nota min. 8 aprile 1980, n. 9/121), che legittima il sindacato delle scelte imprenditoriali da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Ciononostante, più recenti pronunce hanno tratteggiato una nozione dell’inerenza fondata su di un «giudizio qualitativo oggettivo» (Cass., sez. V, 22 maggio 2019, n. 13764).

L’ordinanza della Corte di cassazione n. 6368/2021, di recente, ha affermato che «non assume rilevanza, in quanto tale, la congruità o l’utilità del costo rispetto ai ricavi, dovendosi dare un giudizio di inerenza di carattere qualitativo e non quantitativo», precisando, d’altra parte, che l’antieconomicità del costo (rispetto al ricavo atteso) può costituire un elemento sintomatico della carenza di inerenza (in conformità Cass., sez. V, 29 agosto 2022, n. 25471; Cass., sez. VI, 29 agosto 2022, n. 25427; Cass., sez. V, 18 agosto 2022, n. 24880; Cass., sez. V, 1 luglio 2022, n. 20962; Cass., sez. V, 5 aprile 2022, n. 10874; Cass., sez. VI, 17 marzo 2022, n. 8706; Cass., sez. V, 22 febbraio 2022, n. 5707; Cass., sez. VI, 3 febbraio 2022, n. 3358; Cass., sez. V, 28 gennaio 2022, n. 2606; Cass., sez. V, 28 gennaio 2022, n. 2599; Cass., sez. V, 28 gennaio 2022, n. 2598; Cass., sez. 28 gennaio 2022, n. 2597; Cass., sez. V, 28 gennaio 2022, n. 2596; Cass., sez. VI, 26 gennaio 2022, n. 2237; Cass., sez. V, 18 gennaio 2022, n. 1449; Cass., sez. VI, 17 dicembre 2021, n. 40625; Cass., sez. V, 25 novembre 2021, n. 36391; Cass., sez. V, 24 novembre 2021, n. 36391; Cass., sez. V, 5 novembre 2021, n. 31930; Cass., sez. VI, 3 novembre 2021, n. 31288; Cass., sez. VI, 19 ottobre 2021, n. 28813; Cass., sez. V, 15 settembre 2021, n. 24877; Cass., sez. V, 15 settembre 2021, n. 24856; Cass., sez. V, 9 settembre 2021, n. 24257; Cass., sez. V, 29 luglio 2021, n. 21660; Cass., sez. V, 6 luglio 2021, n. 19168; Cass., sez. V, 5 luglio 2021, n. 18898; Cass., sez. V, 10 giugno 2021, n. 16245; Cass., sez. V, 9 giugno 2021, n. 16003; Cass., sez. V, 7 giugno 2021, n. 15752; Cass., sez. V, 19 maggio 2021, n. 13572; Cass., sez. V, 18 maggio 2021, n. 13330; Cass., sez. V, 13 maggio 2021, n. 12854; Cass., sez. V, 22 marzo 2021, n. 8002; Cass., sez. V, 15 marzo 2021, n. 7183).

La questione dell’utilità, congruità o antieconomicità del costo, quindi, risulta essere particolarmente importante.

Ammettere o escludere che nell’inerenza sia implicito anche un giudizio di normalità del costo ha conseguenze pratiche evidenti, che si riverberano sulla formazione dell’imponibile dell’impresa e, conseguentemente, sulla determinazione dell’imposta.

Il tema riconduce essenzialmente a due questioni.

In primo luogo, poste le regole sulla determinazione del reddito d’impresa, occorre stabilire quale sia la legittima autonomia che compete all’imprenditore nelle scelte gestorie concernenti l’attività. Bisogna cioè domandarsi se autonomia e discrezionalità dell’imprenditore, nell’ambito della libertà di iniziativa economia, possano subire interferenze da parte di terzi.

In secondo luogo e in diretta connessione col primo interrogativo, occorre quindi stabilire se l’Amministrazione finanziaria possa limitare o sindacare tali scelte. Ci si domanda se l’imprenditore sia l’unico soggetto dotato delle prerogative in ordine alle scelte aziendali o se, al contrario, l’Amministrazione finanziaria possa sindacare le medesime in ragione di parametri di normalità da desumere dal mercato di riferimento in cui opera l’imprenditore. Occorre, dunque, stabilire se l’Amministrazione finanziaria sia dotata dei poteri di accertamento che possano legittimare un tale sindacato e, in tal caso, quali siano i presupposti di operatività dei medesimi.

2. Nell’ambito della libertà di iniziativa economica – sancita dall’art. 41 Costituzione – è noto che l’imprenditore, dotato di una propria discrezionalità, goda di autonomia nelle scelte organizzative dei fattori produttivi. Tale libertà, che si sostanzia nella possibilità di esercitare l’attività d’impresa secondo valutazioni proprie del soggetto che assume l’iniziativa, tuttavia, incontra il limite posto dal comma 2 della medesima norma, secondo cui, in particolare, l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Ciò vale, in special modo, se le finalità sociali sono anche oggetto di apposita tutela costituzionale, come nell’ipotesi della realizzazione dell’integrità del gettito tributario e del rispetto, quindi, dell’obbligo della contribuzione fiscale in ragione della capacità contributiva (Capolupo S., Accertamento immobiliare tra principio di economicità e libertà di iniziativa economica, in il fisco, 2011, 7, 1030).

Il tema dei limiti alla libertà di iniziativa economia risulta così particolarmente importante, anche per ciò che attiene al principio di inerenza dei costi.

La libertà di gestione dell’impresa è, come visto, di esclusiva competenza dell’imprenditore o, qualora esercitata in forma societaria, dell’organo amministrativo. Però, appare evidente che le scelte gestorie incidono direttamente sul bilancio dell’impresa stessa, riverberandosi sul quantum dell’obbligazione tributaria, con ciò emergendo la concreta possibilità che le scelte organizzative possano contrastare col diritto ad una giusta contribuzione.

In tale contesto si inserisce il tema dell’utilità o del vantaggio dell’operazione realizzata nell’esercizio d’impresa.

Dall’analisi della giurisprudenza, emerge che l’Amministrazione finanziaria tenda talvolta a contestare la deducibilità di un costo, per carenza di inerenza, in ragione dell’inutilità del medesimo o della svantaggiosità dell’operazione conclusa dal contribuente.

L’ingiustificatezza di tali contestazioni risiede in primo luogo nell’inesistenza di un vincolo normativo che imponga all’imprenditore di potere dedurre solamente i costi che abbiano determinato utilità all’attività. Inoltre, con tutta evidenza, qualora fosse accettata la tesi secondo cui un costo per essere dedotto debba apportare utilità all’impresa, si rischierebbe di addivenire a conclusioni aberranti. Difatti, se così fosse – ossia se un costo valutato ex post come svantaggioso, sebbene afferente alla sfera d’impresa, dovesse essere ritenuto indeducibile – si dovrebbe pure sostenere che tutti costi infruttiferi dovrebbero essere giudicati come fiscalmente indeducibili. Si arriverebbe così a traguardare un risultato inaccettabile. Infatti, ciò che assume rilievo non è tanto la concreta utilità o vantaggiosità del costo sostenuto dall’impresa, quanto, piuttosto, la riferibilità del medesimo all’ambito dell’impresa (Zizzo G., La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, cit., 480).

Un recente e condivisibile orientamento giurisprudenziale ha puntualmente precisato che «è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta» (Cass., sez. V, 18 ottobre 2018, n. 26202).

Qualora, di converso, dovesse accettarsi la legittimità del sindacato di inerenza che possa involgere anche un giudizio di merito sulle strategie commerciali e finanziarie dell’imprenditore si minerebbe, anzitutto, l’esigenza di tutelare la certezza del rapporto tributario – potendosi in tal guisa potenzialmente alimentare la litigiosità tra Fisco e contribuenti – e si attribuirebbe, poi, all’ordinamento tributario la funzione di selezionare le impresa sulla base della capacità e dell’avvedutezza di chi le gestisce, distinguendo quelle ammesse da quelle non ammesse a dedurre gli oneri sostenuti.

La deducibilità del costo non può essere vincolata alla buona riuscita dell’operazione imprenditoriale, poiché seguendo tale ragionamento si giungerebbe a sancire la carenza di inerenza di ogni componente negativo sopportato dall’impresa che non ha determinato alcun beneficio economico (Mastellone P., Indeducibilità delle spese “qualitativamente” non inerenti: il sindacato del Fisco tra libertà di iniziativa economica e capacità contributiva, in Riv. giur. trib., 2022, 5, 436 ss.).

L’autonomia dell’imprenditore, nella sua originalità e peculiarità, non può essere vincolata al buon esito dell’operazione imprenditoriale, che peraltro può inserirsi in una strategia assai più ampia e non necessariamente e direttamente correlabile a singole componenti positive. È infatti pure opportuno osservare come la mancata percezione della valida ragione economica dell’operazione, ricercata solo negli angusti confini del singolo atto di scambio, possa limitare la comprensione della scelta operata e quindi la ragione che ha indotto l’imprenditore, nella sua autonomia, a sostenere un determinato costo (Ficari V., Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Milano, 2004, 314).

In sostanza, ogni giudizio sulla ragionevolezza economica di un costo dipende dalla variabilità nel tempo del processo di produzione al quale devono essere adattate le scelte di gestione, rimanendo esclusa ogni ingerenza da parte di soggetti terzi all’imprenditore nella determinazione delle stesse, il quale, nei limiti imposti dalla legge e, in specie dall’art. 41, comma 2, Cost., è il solo dominus (Menti F., Il costo sproporzionato e il principio di inerenza, in Dir. prat. trib., 2018, 3, II, 1244 ss.).

3. Per entrare nel vivo del secondo interrogativo posto – ovvero se l’Amministrazione finanziaria possa limitare o sindacare le scelte dell’imprenditore – deve anzitutto ritenersi del tutto destituita di ogni fondamento giuridico pure la tesi secondo cui il Fisco possa procedere al sindacato dei corrispettivi, dei proventi, delle spese e degli oneri dell’impresa seguendo criteri di congruità. Si tratta, in specie, dei casi in cui si consideri la difformità tra valore normale e componente dichiarato come indicatore dell’esistenza di un corrispettivo aggiuntivo non dichiarato, quando sono in gioco proventi, o della inesistenza di una parte del corrispettivo dichiarato, quando si tratta di oneri. La ratio delle rettifiche troverebbe giustificazione nella sussistenza di un corrispettivo eccessivo e abnorme rispetto all’attività esercitata dall’impresa, così da farlo ritenere estraneo. L’eccessività postulerebbe la non inerenza.

La sproporzione o incongruità, intesa come devianza dai valori medio-normali, tra la decurtazione patrimoniale e il vantaggio economico conseguito, tuttavia, non può rappresentare una causa autonoma di indeducibilità del costo: questa può, al più, assumere valore segnaletico di un rapporto dissimulato (Ballancin A., Inerenza, congruità dei costi ed onere della prova, in Rass. trib., 2013, 3, 599).

In primo luogo, è infatti opportuno precisare che la valutazione riferita al valore normale ai sensi dell’art. 9 TUIR conferisce all’Amministrazione finanziaria un margine discrezionale ampio, che facilmente può sfociare in arbitrio. È inoltre dirimente assumere che il riferimento al valore normale è disposto dalla legge in fattispecie tassativamente elencate e non è posto come principio sistematico in materia di reddito d’impresa (Tardini M., L’anti-economicità dei fatti di gestione aziendale: congruità, inerenza e valore normale, in il fisco, 2012, 22, 3434).

La congruità del costo – come peraltro già affermato – può avere rilevanza per la contestazione dell’indeducibilità, ma solamente come indizio di estraneità (qualitativa) all’impresa, cioè alla stregua di elemento sintomatico di una possibile anomalia.

Se l’art. 9 TUIR avesse la funzione di criterio generale di misurazione dei componenti di reddito, gli artt. 58, 85 e 86 TUIR, che assumono come valore il corrispettivo, verrebbero svuotati di significato. L’art. 9 ha invero un altro scopo, quello, cioè, di convertire in denaro i corrispettivi in natura. In presenza di un corrispettivo già stabilito, l’art. 9 TUIR non potrebbe assurgere a regola diretta alla sua rettifica. Qualora così fosse, infatti, il contribuente che determinasse i componenti di reddito sulla base dei corrispettivi pattuiti, in un valore non in linea con quello ritenuto normale, violerebbe sempre l’art. 9 TUIR, tanto da legittimare in ogni caso una rettifica del suo reddito (Zizzo G., Condotte antieconomiche e determinazione del reddito d’impresa, in Rass. trib., 2016, 4, 862).

L’Amministrazione finanziaria – avuto riguardo del normale valore di mercato dei componenti attivi e passivi ai sensi dell’art. 9 TUIR – si ritiene, quindi, possa esercitare un sindacato sui costi sostenuti dall’impresa, senza però potere fondare l’accertamento sul solo elemento della congruità o dell’antieconomicità (Covino S. – Lupi R., Eccessività delle spese e contestazioni sull’inerenza, in Dialogh. trib., 2011, 6, 625).

La valutazione del principio di inerenza secondo canoni di congruità del costo rispetto all’attività d’impresa, che costituisce manifestazione del più generale principio di ragionevolezza, può consentire di rivelare se le condotte imprenditoriali siano espressive di un coerente perseguimento del programma (Boria P., La ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, in Riv. giur. trib., 2018, 10, 771). Tuttavia, il sindacato di congruità non può mai consistere in una pura e semplice non condivisione delle scelte imprenditoriali, ma in una valutazione complessiva del rapporto di inerenza, rimanendo in ogni caso – si ribadisce – non isolatamente sufficiente a dimostrare l’estraneità del costo.

La tesi secondo cui nell’inerenza sia insita anche una relazione in ordine alla congruità del costo pare così superata dalla giurisprudenza che attribuisce oggi a questa un’interpretazione più rispettosa dei criteri generali di determinazione del reddito d’impresa e del principio di libera iniziativa delle scelte dell’imprenditore (Vicini Ronchetti A., Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. trib., 2019, 5, I, 556).

Nella più recente giurisprudenza di legittimità si ribadisce come il sindacato non possa spingersi alla verifica oggettiva circa la necessità od opportunità di un costo, come della sua congruità o antieconomicità, rispetto dell’attività esercitata, quindi sino a valutare la strategia commerciale, che rimane riservata all’imprenditore (Cass., sez. V, 27 marzo 2019, n. 8506; Cass., sez. V, 26 settembre 2018, n. 22938; Cass., sez. V, 6 giugno 2018, n. 14579).

Il costo, per potere positivamente superare il giudizio di inerenza e partecipare alla formazione dell’imponibile, deve presentare una relazione con l’attività d’impresa esercitata, anche in un’ottica indiretta, potenziale o in proiezione futura. Specularmente, ogni elemento ad essa estraneo deve porsi al di fuori della medesima. La sussistenza di una relazione di utilità o vantaggio, di congruità o economicità del costo sostenuto rispetto all’attività esercitata, non essendo fondata su una previsione normativa cogente, non è elemento costitutivo indispensabile ai fini della deducibilità, la cui carenza possa legittimare un’esclusione dal calcolo del componente reddituale dal risultato fiscale dell’impresa.

4. Poste tali premesse, in virtù delle quali le scelte di gestione dell’imprenditore, in linea di principio, non possono essere oggetto di sindacato da parte di terzi e tantomeno da parte dell’Amministrazione finanziaria, quantunque ritenute svantaggiose, incongrue o antieconomiche, deve per conseguenza rilevarsi l’illegittimità dei provvedimenti impositivi (emessi ai sensi dell’art. 39 D.P.R. n. 600/1973) fondati su tali argomenti.

Difatti, l’orientamento giurisprudenziale alla luce del quale le rettifiche al reddito d’impresa possano trovare giustificazione nel discostamento tra corrispettivo e valore normale, ancorché ancorato ad un folto numero di pronunce, non pare tenere in debita considerazione le ragioni prima evidenziate e ora sussunte da una più recente impostazione, assai più attenta alla sistematica della disciplina sul reddito d’impresa.

L’infondatezza della tesi su cui si basano di tali accertamenti, tuttavia, non discende solamente dalle questioni prima affrontate, ma è congiunta ad ulteriori e al pari pregnanti argomenti di ordine generale, legati al metodo di determinazione del reddito dei soggetti esercenti attività d’impresa.

Tale reddito, come noto, è infatti analiticamente determinato e si fonda sulle scritture contabili e sul bilancio d’esercizio, che costituiscono elemento cardine nella disciplina tributaria riservata ai soggetti esercenti attività economiche.

Sul punto occorre, prima di tutto, ricordare che, sotto il profilo fiscale, le scritture contabili assumono una funzione giuridica ed hanno, perciò, una rilevanza sia interna, per la determinazione del reddito d’impresa, che esterna, allo scopo di permettere all’Amministrazione finanziaria di verificare la correttezza di detta determinazione.

È così, dunque, che la definizione del reddito d’impresa secondo criteri di effettività – ossia in forza delle risultanze delle scritture contabili – e il controllo della regolarità e della completezza delle scritture stesse da parte dell’Amministrazione finanziaria sono due aspetti complementari di un unico sistema normativo (Pino C., Le scritture contabili e il controllo del reddito d’impresa, Milano, 2012, 36).

Se il reddito d’impresa è determinato in base alle scritture contabili, allora l’Amministrazione finanziaria, prima di procedere alla rettifica del reddito dichiarato, deve dimostrare che le scritture non sono tenute correttamente o che le medesimo sono inattendibili. È attribuita, infatti, una presunzione di veridicità della contabilità in favore del contribuente, consistente in un’efficacia probatoria privilegiata della stessa, caratterizzata da una funzione garantistica che esse svolgono rispetto alle argomentazioni utilizzabili dal Fisco. Pertanto, la loro regolare tenuta o la loro attendibilità obbliga gli Uffici ad adottare metodi di accertamento più rigorosi, potendo procedere in via induttiva solamente nei casi in cui sia stata previamente dimostrata l’assenza o la sostanziale inattendibilità dell’impianto contabile (Tosi L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 7).

Si ritiene che la rettifica delle risultanze contabili, in assenza di irregolarità particolarmente gravi, debba essere subordinata a requisiti rigorosi, come la prova documentale o le presunzioni gravi, precise e concordanti, poiché alle scritture regolarmente tenute è attribuito normativamente un grado di attendibilità elevato, nel senso che le loro risultanze non possono essere smentite da qualsiasi dimostrazione più probabile, ma solo da argomentazioni che abbiano i requisiti previsti dall’art. 2729 c.c. (Lupi R., Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 186).

È quindi il caso di osservare che le scritture contabili e il bilancio d’esercizio, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, rappresentando prova legale controvertibile, costituiscono un limite all’azione dell’Amministrazione finanziaria, alla quale, di talché, incombe l’onere di disconoscere la sussistenza di elementi negativi o appurare l’esistenza di ulteriori elementi positivi rispetto a quelli che concorrono a formare il reddito dichiarato.

Pertanto, se è vero che l’accertamento ex art. 39 D.P.R. n. 600/1973 debba essere basato sull’inattendibilità delle annotazioni sulle scritture contabili, facendo gravare sull’Amministrazione finanziaria la dimostrazione della stessa, non pare potersi giustificare quell’orientamento che, tendendo a sovvertire le regole, ritiene sussistente nell’ordinamento tributario un’inversione dell’onere probatorio correlato alla deducibilità dei costi, che farebbe incombere sul contribuente l’obbligo di dimostrare l’inerenza del singolo componente negativo di reddito all’attività d’impresa, pena il disconoscimento del medesimo (Cass., sez. V, 14 marzo 2022, n. 8221; Cass., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 439; Cass., sez. V, 4 ottobre 2017, n. 23164).

Tale giurisprudenza permetterebbe, dunque, l’esecuzione di accertamenti analitico-induttivi, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, qualora il contribuente non riesca a dimostrare l’inerenza del costo all’attività d’impresa tramite l’esibizione di documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, la ragione e la coerenza economica.

Ebbene, con precipuo riguardo ai componenti negativi di reddito, è tuttavia opportuno osservare che la contabilizzazione di un costo nel bilancio d’esercizio e la sua deduzione ai fini tributari non rappresenta una concessione che comporta una deroga alle regole che caratterizzano il reddito d’impresa, ma costituisce la modalità con cui quantificare il reddito imponibile. Perciò, la prospettiva alla luce della quale debba essere il contribuente a dimostrare l’inerenza di un costo regolarmente contabilizzato e dedotto sembra rovesciare le regole di determinazione del reddito d’impresa. La natura differenziale del reddito d’impresa assume, infatti, quale regola implicita e di origine economica prima che giuridica, la deducibilità di un componente annotato e afferente all’attività d’impresa come legittima. Il disconoscimento di un costo da parte dell’Amministrazione finanziaria deve necessariamente essere conseguenza di una dimostrazione a cura della stessa (Comelli A., Poteri e atti nell’imposizione tributaria. Contributo allo studio degli schemi giuridici dell’accertamento, Milano, 2012, 349 ss.).

Sembra, semmai, assai più persuasivo quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che, in tema di deducibilità dei costi, stabilisce che, laddove l’Amministrazione finanziaria contesti l’inesistenza di operazioni assunte a presupposto della deducibilità, la stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale documentata dalla fattura non è stata in realtà mai posta in essere, indicando gli elementi presuntivi o indiziari sui quali fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della deduzione del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti. Più in particolare, la dimostrazione a carico dell’Amministrazione finanziaria è raggiunta qualora siano forniti validi elementi che, alla stregua dell’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973, e dell’art. art. 54, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi, per affermare che le fatture sono state emesse per operazioni fittizie, ovvero che dimostrino in modo certo e diretto la inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati ovvero la inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione. Infatti, nell’ordinamento tributario, gli elementi indiziari, ove rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza, danno luogo a presunzioni semplici le quali, proprio a mente degli univoci precetti dettati dalle sopra indicate previsioni normative, sono idonee, di per sé sole considerate, a fondare il convincimento del giudice. Assolto in tal guisa l’onere della prova incombente sull’Amministrazione finanziaria, grava poi sul contribuente la dimostrazione dell’effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass., sez. V, 18 ottobre 2021, n. 28650).

Sul punto, tuttavia, occorre qualche precisazione.

Le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria sull’inerenza rappresentano un giudizio di fatto costituito da una componente oggettiva e una valutativa, in cui solo la prima può essere oggetto di prova, formata, nel caso di specie, dalla dimostrazione dell’effettività dell’operazione (prova dell’avvenuta transazione da cui è conseguito il corrispettivo). La componente valutativa, diversamente, non può essere oggetto di prova, ma, al più, potrà essere comprovata l’attendibilità delle argomentazioni volte a sostenere l’ipotesi dell’Amministrazione finanziaria che mira a dimostrare l’estraneità del costo, quale carenza di inerenza, rispetto all’attività d’impresa. In quest’ultimo caso si tratterà, più propriamente, di persuasività degli argomenti utilizzati per dimostrare l’assenza di inerenza.

Ecco, quindi, che la giustezza dell’impostazione giurisprudenziale da ultimo illustrata – ove si precisa quale sia la sequenza imposta nel riparto dell’onere della prova – ha valore solamente per gli elementi oggettivi del costo, quali l’effettività (concreto sostenimento del costo o prova dell’avvenuta esecuzione del pagamento) ovvero la corretta documentazione e contabilizzazione del componente negativo. Tali circostanze, infatti, possono essere oggetto di verifica e di eventuale contestazione, risultando facilmente riscontrabili e valutabili.

Ciò, tuttavia, non pare potersi asserire in ordine alla componente valutativa, in quanto la riscontrabilità del rapporto di inerenza può non desumersi da elementi oggettivamente vagliabili alla stregua di fatti certi.

Per conseguenza non pare potersi neppure aderire a quella giurisprudenza che ritiene di potere fare ricadere l’onere di dimostrare l’inerenza del costo sul contribuente sulla base del canone della vicinanza della prova (Cass., sez. V, 30 maggio 2018, n. 13588). Anche in tal caso sembra sovvertita la sequenza sul riparo dell’onere della prova, che fa gravare l’onere dimostrativo sull’Amministrazione finanziaria, salvo poi concedere al contribuente il diritto di eccepire.

Più aderente al dato normativo appare invece l’impostazione assunta dalla Cassazione con la pronuncia n. 18904/2018, in cui è pianamente espressa la massima alla luce della quale «L’inerenza è […] un giudizio; la prova dunque deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché, per quanto riguarda il contribuente, il suo onere è, per così dire, “originario”, poiché si articola ancor prima dell’esigenza di contrastare la maggiore pretesa erariale essendo egli tenuto a provare (e documentare) l’imponibile maturato e, dunque, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perché in correlazione con l’attività d’impresa».

La sentenza non trascura di evidenziare come in talune circostanze la prova di inerenza del costo, al di là degli elementi costitutivi, possa risultare particolarmente difficile, laddove si tratti di un’operazione «complessa o anche atipica od originale rispetto alle usuali modalità di mercato».

In tali casi, può venire in soccorso, ancorché in concorso con ulteriori elementi di riscontro, «un giudizio sulla congruità (e antieconomicità) della spesa». Tale giudizio, però, dovrebbe solamente avere «valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto, in realtà, non è correlato alla produzione ma assolve ad altre finalità e, pertanto, il requisito dell’inerenza è inesistente».

5. L’irrisolutezza giurisprudenziale connessa al tema dell’onere della prova, che invero non involge solamente il tema dell’inerenza dei costi, ha indotto il legislatore ad introdurre, nell’ambito della riforma della giustizia tributaria, una norma che, sebbene da taluni ritenuta sovrabbondante, pare potere riordinare il quadro normativo di riferimento.

Una delle novità sortite dalla riforma della giustizia e del processo tributario è rappresentata dall’art. 6 L. 31 agosto 2022, n. 130, che ha aggiunto il comma 5-bis all’art. 7 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, concernente le modalità di riparto dell’onere della prova.

La norma, inaspettatamente inclusa nel testo di legge ed entrata in vigore dal 16 settembre 2022, stabilisce che «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati».

In ambito tributario risultava pacifica l’applicabilità dell’art. 2697 c.c.

Nella sequenza fissata dalla norma civilistica si stabilisce che chi promuove l’azione, l’Amministrazione finanziaria, deve provare i fatti costitutivi della stessa, mentre al contribuente, di conseguenza, deve spettare l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi.

È stato tuttavia osservato che in ambito tributario tale sequenza sembri essere stata rovesciata da una certa giurisprudenza in cui si è teso far ricadere sul contribuente l’onere della prova (Cass., sez. VI, 11 giugno 2021, n. 16597; Cass., sez. V, 14 aprile 2022, n. 12127; Cass., sez. V, 6 giugno 2019, n. 15320; Cass., sez. V, 9 novembre 2018, n. 28671).

Ebbene, la novella normativa sembra aprire a nuove prospettive. Si introduce una norma propria dell’ordinamento tributario, superando il pregresso riferimento civilistico all’art. 2697 c.c. Si stabilisce che, in ogni caso, ricade sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare in giudizio le violazioni contestate. Con la conseguenza che debba sempre essere il Fisco a dimostrare le violazioni commesse dal contribuente, potendosi – in prima analisi – dirsi superato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la prova dei maggiori ricavi ricada sull’Amministrazione finanziaria e, al contrario, quella in ordine a costi ed oneri in ogni caso sul contribuente che ne opponga l’effettiva sussistenza ed inerenza (Deotto D. – Lovecchio L., L’amministrazione prova in giudizio i rilievi contenuti nell’atto impugnato, in il fisco, 2022, 39, 3714).

D’altra parte, l’esistenza degli ampi poteri istruttori di cui gode l’Amministrazione finanziaria dovrebbe indurre a ritenere che la medesima possa appurare autonomamente gli elementi a sostegno della propria contestazione, senza necessità alcuna che possa giustificare un’inversione dell’onere della prova. Ciò, naturalmente, senza snaturare lo schema legale delle presunzioni, che rimarrà vigente ed inalterato.

Secondo la nuova disciplina sull’onere della prova, dunque, il giudice dovrebbe essere vincolato ad un’analisi profonda dell’impianto probatorio esistente, potendosi in tal modo superare quelle impostazioni di matrice giurisprudenziale che tendevano a gravare il contribuente della dimostrazione di quanto esposto in dichiarazione.

La legge parrebbe imporre, quindi, il dovere degli Uffici di dare in giudizio una prova circostanziata, puntuale e specifica con riferimento a quanto di volta in volta viene richiesto dalle norme tributarie, dei fondamenti di fatto della maggiore pretesa e delle correlate sanzioni.

In definitiva, la novella parrebbe indurre a ritenere che in tema di inerenza – come su molti altri – i consolidati orientamenti giurisprudenziali che evocano un diverso riparto dell’onere della prova debbano essere superati (Muleo S., Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in Giustizia Insieme, 20 settembre 2022).

È tuttavia opportuno rilevare che la Cassazione – ancorché in via incidentale e in prima approssimazione – ha già avuto modo di esprimersi sul contenuto della nuova norma, dando l’impressione di non intendere mutare gli orientamenti consolidati sul tema, precisando che «il comma 5 bis dell’art.7 d.lgs. n. 546/1992 […] ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali […] non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio». Secondo la Suprema Corte, in buona sostanza, «la nuova formulazione legislativa […] non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale» (Cass., sez. V, 27 ottobre 2022, n. 31878).

6. In tale quadro, non risulta pregevole la ricostruzione operata dall’ordinanza in nota.

In particolare, non convince la parte della pronuncia in cui si afferma che «l’onere probatorio che grava sul contribuente attiene all’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere – per sé soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa, essa ultima è tenuta a fornire la prova della propria contestazione».

Tale impianto sembrerebbe far gravare sul contribuente l’onere di provare l’inerenza del costo all’attività d’impresa, imponendo un’inversione a favore del Fisco, che, confermando l’orientamento espresso dall’ordinanza n. 31878/2022, sembra non tenere conto del contenuto del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Nella pronuncia – in cui si ribadisce che l’Amministrazione non può spingersi a sindacare le scelte imprenditoriali – si legittima la valutazione circa la congruità od antieconomicità della spesa, intesa come proporzionalità fra importi corrisposti ed utilità conseguite, che tuttavia può intervenire quale elemento sintomatico del difetto di inerenza, ossia allo scopo di far emergere l’inattendibilità della condotta del contribuente.

Occorre nondimeno evidenziare che nozione di inerenza – come condivisibilmente assunto dalla pronuncia – va distinta dalla congruità del costo. Quest’ultima può avere rilevanza per la contestazione dell’indeducibilità, ancorché come indizio di estraneità (qualitativa) all’impresa, cioè alla stregua di elemento rivelatore. L’antieconomicità della condotta imprenditoriale, infatti, non costituisce elemento da solo sufficiente ad integrare le presunzioni gravi, precise e concordanti idonee a sostenere la pretesa impositiva accertata in via analitico-induttiva.

Tuttavia, nella cornice della recente novella normativa il punto nodale, afferente all’onere della prova, è individuare la corretta sequenza che parrebbe doversi esigere dall’Amministrazione finanziaria e, nel controllo sull’osservanza di questa, dal Giudice tributario. Difatti, in tema di inerenza, diversamente da quanto affermato dalla sentenza in commento, dovrebbe imporsi la necessità che a provare, in prima battuta, l’estraneità del componente reddituale debba essere l’Amministrazione finanziaria e che, agli elementi forniti da quest’ultima, il contribuente, sul quale gravano già i menzionati oneri contabili, ne possa opporre ulteriori volti a dimostrare, non solamente l’effettività, ma soprattutto la riferibilità all’attività d’impresa.

Pare quindi corretto pensare che – all’opposto di quanto sostenuto dalla citata pronuncia n. 31878/2022 – la nuova formulazione legislativa stabilisca un onere probatorio più gravoso rispetto ai principi già affermati in giurisprudenza, venendo oggi conferito un ruolo centrale al Giudice, che, fermo il principio di divieto di scienza privata, sembrerebbe chiamato a valutare legittimità e fondatezza della pretesa impositiva e/o sanzionatoria sulla base delle prove che l’Amministrazione finanziaria ritiene di far valere in giudizio.

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