EDITORIALE – Illegittimità costituzionale dell’IMU in relazione a coniugi e abitazione principale: quali effetti sui contribuenti che hanno pagato e i Comuni che hanno incassato?
Di Francesco Farri
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I. La sentenza della Corte Costituzionale, n. 209/2022 – sancendo l’illegittimità costituzionale dell’interpretazione fornita dal “diritto vivente” all’art. 13, comma 2, quarto e quinto periodo, D.L. n. 201/2011, all’art. 1, comma 741, lett. b), primo e secondo periodo, L. n. 160/2019 – richiede che i Comuni i quali, profittando di alcune decisioni della Corte di Cassazione, avevano pensato bene di affrettarsi a richiedere il pagamento dell’IMU sugli immobili adibiti ad abitazione principali da parte dei coniugi, si affrettino adesso con altrettanto zelo a restituire il maltolto.
La diversità delle situazioni che possono essersi verificate rende opportuno lo svolgimento di alcune considerazioni al riguardo.
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II. Nel caso in cui i coniugi avessero pagato, spontaneamente e tempestivamente, il tributo sugli immobili posseduti e adibiti ad abitazione principale distintamente da ciascuno di loro, essi avranno diritto a chiedere e ottenere il rimborso di quanto indebitamente versato.
L’unica questione che può porsi, al riguardo, è quella relativa al termine di decadenza per la richiesta del rimborso.
Sebbene la giurisprudenza sia orientata in senso fermamente contrario, dovrebbe essere valorizzata la tesi per cui, in caso di declaratoria di incostituzionalità di una norma impositiva, decorre dalla pubblicazione della sentenza un termine biennale per la richiesta dei rimborsi ai sensi dell’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992. Invero, mancano disposizioni specifiche che regolino, per i singoli tributi, il caso della non debenza del tributo per sopravvenuta incostituzionalità dello stesso, né sembra tale fattispecie omogenea rispetto a quella, generale, dell’errore del contribuente: essa, infatti, reca seco un disvalore oggettivo addebitabile a una anomalia dell’ordinamento non addebitabile al contribuente e, pertanto, sembra richiedere un quid pluris di tutela rispetto alla generalità dei casi di errore del contribuente.
In casi di declaratoria di incostituzionalità di una norma impositiva, pertanto, il termine di decadenza per la richiesta del rimborso dovrebbe coincidere con quello più ampio tra il termine ordinario di rimborso previsto per i singoli tributi e quello, residuale, previsto dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992. Ciò, naturalmente, salvo il caso in cui la Corte costituzionale, per ragioni di contemperamento con il principio di cui agli artt. 81 e 119 Cost., regoli diversamente il regime di retroattività delle proprie pronunce, come avvenuto nel noto caso della “Robin Hood Tax” (Corte cost., n. 10/2015).
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III. Il regime non dovrebbe mutare nel caso in cui il contribuente abbia pagato le somme, non già spontaneamente e tempestivamente, bensì a seguito di una forma di ravvedimento operoso.
A tal fine, come noto, la giurisprudenza distingue tra violazioni formali, per le quali a fronte dell’erroneo ravvedimento da parte del contribuente il rimborso dovrebbe essere consentito (Cass. n. 28844/2020), e violazioni sostanziali, per le quali invece il rimborso delle somme erroneamente versate in sede di ravvedimento sarebbe precluso (Cass. n. 6108/2016).
In verità, però, non sussiste affatto una valida ragione per discriminare le due situazioni.
Se si conferma il presupposto per cui il ravvedimento è un atto di natura negoziale, e che tutti gli atti di natura negoziale (come le opzioni, Cass. n. 30407/2018) sono rettificabili in caso di errore essenziale e riconoscibile, non si vede per quale ragione tale ragionamento non debba valere, in linea di principio, per una parte delle fattispecie oggetto di ravvedimento. Priva di pregio risulta, al riguardo, l’argomentazione secondo cui «il ravvedimento operoso, implicando riconoscimento della violazione e della ricorrenza dei presupposti di applicabilità della relativa sanzione, è incompatibile con la successiva istanza di rimborso della sanzione versata, in quanto detta istanza si pone in insanabile contraddizione con la scelta spontaneamente effettuata dallo stesso contribuente» (Cass. n. 6108/2016). Anche tale scelta, infatti, può essere errata e se è errata deve poter essere ritrattabile.
La vera questione, dunque, dovrebbe essere quella di valutare quando possa configurarsi un errore essenziale e riconoscibile in relazione alle vicende oggetto di ravvedimento.
Tra i molti casi che possono immaginarsi, vi è certamente quello di aver versato un tributo ritenendolo dovuto in base a una norma incostituzionale. L’errore, infatti, è non soltanto essenziale, ma anche riconoscibile: la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, presupposto dell’ammissibilità della rimessione degli atti alla Consulta, sancito come esistente per effetto della decisione della Consulta stessa, è infatti garanzia ordinamentale della riconoscibilità dell’errore commesso da chi abbia applicato la norma stessa.
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IV. Venendo ai casi in cui il contribuente, anziché pagare spontaneamente, abbia ricevuto avvisi di accertamento, con i quali i Comuni abbiano richiesto l’IMU sugli immobili abitati distintamente dai coniugi, devono essere distinte tre situazioni.
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IV.1. Agevole è la soluzione del problema nel caso in cui i coniugi, ricevuti gli avvisi di accertamento da parte dei Comuni, li abbiano impugnati in sede giurisdizionale.
In tal caso, sussisterà di regola un interesse dell’ente impositore a conciliare la lite annullando la pretesa, chiedendo al contribuente di consentire alla compensazione delle spese. Analoga conseguenza si verifica nel caso in cui il Comune annulli l’atto d’accertamento in sede di autotutela, chiedendo l’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere. Da ciò conseguirà la restituzione di quanto eventualmente riscosso a titolo provvisorio. Unico limite, invalicabile, è rappresentato dall’esistenza di un giudicato negativo per il contribuente: limite, questo, non superabile neppure in sede di autotutela ai sensi dell’art. 2-sexies D.L. n. 564/1994.
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IV.2. Più articolato il ragionamento per il caso in cui, invece, il contribuente non abbia contestato gli atti d’accertamento ricevuti.
Devono al riguardo distinguersi due ipotesi.
A) L’ipotesi più complessa attiene al caso in cui il contribuente abbia, non soltanto ricevuto l’avviso di accertamento, ma anche prestato acquiescenza a esso, lasciandolo divenire definitivo e pagando quanto richiesto per il tramite di esso.
In tal caso, non è sufficiente operare riferimento al principio sopra esposto, circa l’emendabilità dell’errore essenziale e riconoscibile anche in ipotesi di scelte di carattere negoziale, come deve considerarsi la manifestazione di volontà di prestare acquiescenza a un avviso: infatti, una volta risolto questo profilo del problema, sussiste quello per cui permane un atto d’accertamento pur sempre divenuto definitivo.
A quest’ultimo riguardo, è inevitabile operare riferimento all’istituto dell’autotutela.
Ferma la palese illegittimità di tali avvisi, occorre vagliare – secondo la giurisprudenza più rigorosa – la sussistenza di una ragione di pubblico interesse all’annullamento officioso dell’atto.
Ebbene, sembra di poter dire con ragionevole certezza che, quando l’illegittimità dell’atto amministrativo derivi dalla sopraggiunta incostituzionalità della norma sul quale è basato, le ragioni di interesse pubblico sussistono in re ipsa, consistendo non tanto e non solo nel ripristino della legalità violata, ma anche e specificamente nella tutela del valore di rango costituzionale che l’atto amministrativo ha leso applicando una legge incostituzionale. Nel caso di specie, le ragioni di interesse pubblico consistono nel ripristinare uguaglianza di trattamento tra persone sposate e altri contribuenti, eliminando l’intollerabile discriminazione a danno dei primi. E consistono, con specifico riferimento al caso dell’avvenuta acquiescenza agli avvisi, nel non discriminare chi si è comportato nel modo più diligente, credendo erroneamente di far bene nel pagare l’avviso ricevuto, rispetto a chi si è comportato in modo meno diligente, lasciando scadere l’atto senza curarsene. Sarà quindi doveroso, da parte dei Comuni, in caso di presentazione di relativa istanza da parte dei contribuenti, il ritiro in autotutela degli atti d’accertamento applicativi delle norme dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 209/2022. L’istanza di autotutela, come noto, non prevede specifici limiti di tempo per la sua presentazione, a condizione che la richiesta avvenga entro un termine ragionevole (art. 21-novies L. n. 241/1990), non essendosi di fronte ad atti autorizzativi o di attribuzione di vantaggi economici. Valgono, tuttavia, al proposito le considerazioni svolte dapprincipio in ordine all’applicabilità del termine biennale residuale per la richiesta di rimborso in casi diversi da quelli specificamente disciplinati dalla legge. Decorso tale termine, il contribuente non conseguirà effetti pratici dall’eventuale annullamento in autotutela dell’avviso, poiché sarà comunque decaduto dal diritto di ottenere il rimborso.
B) Agevole risulta, alla luce di quanto sopra, la soluzione del caso in cui il contribuente, ricevuto l’accertamento o la conseguente cartella di pagamento, sia rimasto inerente, lasciandoli divenire definitivi, ma neppure pagando quanto tramite essi preteso.
Valgono, in tal caso, le considerazioni sopra svolte in relazione alla necessità di intervenire in autotutela, con l’unica differenza che essa dovrebbe intervenire anche in assenza di istanza del contribuente, ossia d’ufficio. Ciò al fine essenziale di interrompere attività di riscossione che, qualora coltivate, darebbero corso all’acquisizione di un tributo dichiarato incostituzionale.
Invocando il principio dell’invalidità caducante, sarebbe agevole osservare che la sopravvenuta illegittimità dell’accertamento, discendente dalla contrarietà dei suoi contenuti a una sentenza della Corte costituzionale, impedisce di considerarlo alla stregua di elemento costitutivo della fattispecie di un atto amministrativo di riscossione consequenziale.
A prescindere da ciò, essendo incerta l’applicabilità dell’istituto dell’invalidità caducante in senso proprio, risulta comunque assodato che tra i presupposti generali impliciti per l’applicazione del principio di pregiudizialità-dipendenza tra atti amministrativi vi sia quello della permanenza dell’interesse pubblico all’adozione dell’atto consequenziale: e tale interesse risulterà certamente insussistente nel momento in cui l’effetto dell’atto consequenziale dia vita a un assetto di interessi contrario alla Costituzione, prima fonte di valutazione dell’apprezzabilità di un interesse.
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V. Per concludere, merita di esser svolto un appunto in merito ai riflessi che quanto sopra può produrre sull’equilibrio di bilancio dei Comuni.
Tra i principi di redazione del bilancio, in generale, e del bilancio pubblico, in particolare, vi è quello di prudenza.
L’Ente pubblico che abbia iscritto, tra le proprie entrate, in termini di competenza o di cassa, crediti e incassi per IMU relativa alle abitazioni dei coniugi che si trovassero a risiedere in luoghi diversi, e abbia utilizzato immediatamente tali somme per spenderle, anziché prudentemente accantonarle in attesa che si fosse definita la vicenda, presentatasi fin dall’inizio a tutti e pubblicamente come assai controversa, non ha fatto buon governo dei principi di contabilità pubblica.
Non sembra, infatti, che tali entrate potessero considerarsi «entrate che ragionevolmente saranno disponibili nel periodo amministrativo considerato» (cfr. D.Lgs. n. 91/2011, All. 1), perché su di esse pendeva una radicale incertezza, specialmente dopo le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale (cfr., in particolare, CTP Napoli, ord. 22 novembre 2021) e ancor più dopo che la Corte costituzionale sollevò di fronte a se stessa ulteriori questioni di costituzionalità (ord. n. 94/2022).
Quanto meno, dovevano essere prudentemente stanziate somme a titolo di componenti negative per far fronte ai rimborsi in caso così pubblicamente incerto. La responsabilità contabile dei funzionari che tale malgoverno hanno commesso non assurge, probabilmente, al livello della gravità necessaria a integrare i presupposti di sanzionabilità ai sensi dell’art. 1 L. n. 20/1994, ma certamente tale attenuante non può incidere sul diritto dei contribuenti a ottenere la restituzione del maltolto.
D’altronde, la modulazione temporale delle pronunce di incostituzionalità, nel senso di escluderne gli effetti retroattivi per contemperamento con il principio costituzionale di equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.), è prerogativa della Corte costituzionale (sent. n. 10/2015), che deve farne uso soltanto in casi eccezionali. Nel caso di specie, tale contemperamento non è stato ritenuto necessario e, pertanto, eventuali squilibri di bilancio che gli obblighi di restituzione delle somme generino per i Comuni non incidono sui diritti al rimborso spettanti ai singoli contribuenti.
Le conseguenze che i debiti a tal riguardo emergenti produrranno sull’equilibrio del bilancio comunale andranno, pertanto, gestite con gli strumenti posti a disposizioni della contabilità pubblica, compresi al limite quelli previsti per il caso di incapacità dei Comuni di far fronte all’adempimento.
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