EDITORIALE – Tecnica e studio sociale nel diritto tributario, tra isolamento e prospettive
Di Raffaello Lupi
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I. Particolarità del diritto tributario tra tecnica e spiegazioni sociali. – II. Suo isolamento giuridico sociale. – III. Segue: inconvenienti tecnico professionali della mancanza di spiegazioni – IV. Vie d’uscita e dialettica col diritto amministrativo generale. – V. Riscoperta di fiscalità e diritto finanziario in un quadro amministrativistico.
I. Il diritto tributario, nella maggior parte dei dipartimenti giuridici degli atenei italiani, appare come un oggetto misterioso, tra le materie privatistiche, quelle pubblicistiche e quelle storico filosofiche. E’ una particolarità confermata dalle stesse discussioni interne ai cultori della disciplina, che generalmente si sono posti il problema della sua autonomia dalla scienza delle finanze come disciplina economica, anziché dal diritto amministrativo, come disciplina giuridica.
Non a caso il boom del diritto tributario, cioè la sua espansione negli atenei italiani, con la diffusione di cui al paragrafo IV, è avvenuto con la determinazione documentale delle imposte, che lo ha avvicinato a ben vedere ancora di più al diritto, amministrativo e commerciale, per i motivi indicati oltre, allontanandolo dalla scienza delle finanze; quest’ultima si dedicava infatti più agli effetti economici delle imposte che alla loro determinazione, che fino alla metà del secolo scorso era in prevalenza estimativo valutativa. Fino ad allora molte cattedre si intitolavano diritto finanziario e scienza delle finanze e gli economisti, cultori di quest’ultima materia, affiancavano i professori di diritto tributario nell’elettorato attivo delle commissioni di concorso universitario, compresa quella del concorso nazionale, bandito nel 1986, con cui divenni professore di prima fascia. Immediatamente dopo, con l’aumento del numero delle cattedre, la materia divenne autosufficiente, anche nell’elettorato passivo, rispetto alla scienza delle finanze, diventando un settore scientifico disciplinare autonomo.
La sua affermazione, nello scenario vischioso, tecnicistico e tradizionalista dell’accademia italiana, è stata verosimilmente trainata anche dall’intuitiva importanza, nella vita sociale, delle questioni giuridico tributarie; queste ultime erano infatti avvertite, a seguito della determinazione documentale delle imposte, a tutti i livelli dell’esperienza economico sociale. Anche per questo fu possibile, anche grazie a contingenze personal-politiche[1], far accettare alle altre discipline accademiche, a partire dai primi anni 2000, una sostanziale obbligatorietà del diritto tributario tra gli esami necessari per laurearsi in giurisprudenza. Nell’attuale assetto universitario italiano degli studi giuridici, il diritto tributario è oggi l’unica funzione di diritto amministrativo speciale con una propria specifica accademia. Quest’ultima è stata inserita, giustamente, nel macro settore 12D, denominato diritto amministrativo (sigla 12D1) e tributario (sigla 12D2). Questo sensato accostamento del diritto tributario al diritto amministrativo, effettuato da parte degli uffici ministeriali, non è stato accompagnato da un’elaborazione, all’interno dell’accademia del diritto tributario, di quanto brevemente indicato ai prossimi paragrafi.
La dottrina tributaristica ha infatti continuato a ispirarsi ai modelli privatistico-giurisdizionali dell’obbligazione tributaria, del credito e del debito, del ruolo sostitutivo del giudice, e degli altri indicati al paragrafo 2.13 del mio L’imposizione tributaria come diritto amministrativo speciale (LGS Editore, 2023). La determinazione dei presupposti economici d’imposta, coi suoi intrecci tra criteri documentali e tradizionalmente valutativi, è stata sostanzialmente rimossa. Gli interrogativi e le ipotesi dei numerosi soggetti culturalmente e socialmente interessati all’adempimento e all’evasione delle imposte sono rimasti quindi senza risposta; il dibattito su questi temi è agli inizi, e la diversa determinabilità di consumi e redditi non è stata neppure messa a fuoco; non si sono comprese socialmente le cause giuridiche dell’evasione, né le differenze tra evasione da interpretazione giuridica ed evasione da occultamento materiale di elementi positivi, o dichiarazione di elementi negativi fittizi.
Davanti al bisogno di spiegazioni sociali della funzione tributaria, l’accademia ha invece seguito il tradizionale atteggiamento privatistico giurisdizionale, che presuppone tali spiegazioni, passando direttamente alla casistica tecnica, coi suoi materiali legislativi, giurisprudenziali e dottrinali da interpretare; dove essi mancano o sono insoddisfacenti, l’atteggiamento privatistico giurisdizionale è quello di auspicarne di migliori, con vaghi richiami politico-valoriali.
Nella pubblicistica accademica si sono così variamente combinate esegesi casistico-tecnica e divagazioni economico politiche; l’atteggiamento di base era quello, tecnico giuridico, di trovare nel dato normativo gli addentellati favorevoli alle proprie tesi, trascurando la realtà sociale e le sue percezioni da parte delle varie categorie di interessati nella pubblica opinione. I fattori reali dell’adempimento o dell’evasione sono stati considerati solo nella misura trovavano riscontri nei materiali normativi, cioè pochissimo, ed in modo ambiguo. Legislazione e giurisprudenza infatti non insegnano, ma gestiscono situazioni, fanno comunicazione politico-tecnica, come ricorda l’aforisma lex imperat non docet. Essi non si preoccupano di dare spiegazioni, anzi quando ne vedono la necessità legittimamente la eludono, salvo che non possano darla sul piano dell’indottrinamento e del consenso politico, profili cui fanno attenzione. Dove i suddetti riferimenti a materiali normativi sono stati abbandonati o ridotti, hanno preso piede auspici valoriali ed economicistici sugli effetti delle imposte, riprese come detto sopra dalla scienza delle finanze; è una valvola di sfogo per superare la ristrettezza giuridico-sociale della funzione tributaria.
La combinazione tra le suddette due tendenze ha dato luogo a miscugli di tecnicismi e sociologismi apparentemente in tema, ma in realtà privi di un filo logico, come oggi potrebbero essere quelli generati da un programma di intelligenza artificiale orientato per argomento; ho talvolta definito questi passaggi supercazzole o fuffa come si addice alla zavorra necessaria a dare volume e autorevolezza a discorsi di circostanza, tesine, motivazioni di vari atti giuridici o altri discorsi con i quali è necessario legittimare un determinato ruolo sociale, dalla politica, alla giurisdizione, alla dottrina, alle trasmissioni televisive, all’informazione giornalistica con la sua necessità di destare attenzione. In tutti questi casi l’obiettivo non è spiegare qualcosa, ma legittimare una comunicazione politica, istituzionale, professionale, giornalistica, una richiesta di compenso, una decisione giudiziaria, un’indagine tributaria, la rendicontazione di un progetto di ricerca, un titolo spendibile per una carriera accademica sempre più burocratizzata. Le spiegazioni sociali sono indifferenti, o persino ostacolano, questi obiettivi, privi di un impatto sulla generalità degli interessati all’argomento per motivi conoscitivi (è la differenza tra gli interessati alla vita pratica in genere oppure al caso pratico).
Finalizzate alla qualificazione accademica sono le elencazioni di riferimenti legislativi, giurisprudenziali e dottrinali richieste dalle riviste tributarie agli autori, soprattutto giovani, per legittimare il proprio pensiero, quanto a c.d. rigore. Negli studi sociali l’autorevolezza viene da come si spiegano le questioni, e da come ci si rivolge agli interlocutori, per i quali è del tutto irrilevante l’erudizione dell’autore. Nell’importanza dell’erudizione, della legittimazione, si ritrova l’idea iniziatica degli studi sociali, riflesso del monismo metodologico ispirato alle scienze della materia; è come se solo tramite formule si potesse parlare di economia, di diritto solo tramite riferimenti normativi, di sociologia, politologia e discipline demo-psico-antropologiche solo tramite citazioni. Lo stesso monismo metodologico considera poi in modo asettico, in nome di una malintesa oggettività, i dati sociali, come se potessero parlare da soli, non filtrati dall’interpretazione umana.
Queste cause metodologiche generali hanno impedito il coordinamento delle riflessioni dell’opinione pubblica sulla determinabilità, documentale e valutativa, dei presupposti economici d’imposta.
La relativa spiegazione avrebbe dovuto infatti coordinare diverse prospettive di studio economico, aziendalistico-contabile, storico, e giuridico. L’aspetto giuridico avrebbe intrecciato la matrice amministrativa della funzione tributaria con aspetti privatistici, societari, processualistici, e persino penalistici, come intuisce chi considera apicale questa materia. Poteva persino sembrare che, per occuparsi di diritto tributario, si dovesse essere al tempo stesso privatisti, amministrativisti, economisti, aziendalisti, politologi, storici, etc. Era invece solo necessario selezionare e combinare gli aspetti di tutte le suddette discipline rilevanti per la funzione tributaria. Si tratta di un compito possibile, purchè non ci si arrocchi sulla suddetta analisi dei materiali normativi o si divaghi sugli effetti economici delle imposte. Ciò perché, in generale, l’interpretazione casistica di materiali normativi, o il vago auspicio politico di una loro migliore redazione, non sono in grado di spiegare socialmente alcunchè, come indicato al paragrafo 2.3 di Studi sociali e diritto (https://romatrepress.uniroma3.it/libro/studi-sociali-e-diritto/). La metodologia è piuttosto quella ivi indicata al paragrafo 1.9., riferita alla funzione tributaria nei modi di cui al paragrafo 2.13 de L’imposizione tributaria come diritto amministrativo speciale, cit.
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II. La necessità, indicata al termine del paragrafo precedente, di studiare la funzione tributaria unendo e rielaborando segmenti di studi giuridici e sociali diversi, è al tempo stesso un’opportunità e un problema.
L’opportunità di aggregare i numerosi aspetti sociali, giuridici e di senso comune, relativi alla determinazione delle imposte, non è stata sinora colta, con vari inconvenienti. Uno è l’isolamento del diritto tributario, diventato inconsapevolmente un ibrido di tecnica professionale e di scoordinate divagazioni politiche. Senza contestualizzazione giuridico sociale, il diritto tributario diventa oggettivamente uno scherzo della natura, oscillante tra tecnicismi di dettaglio, comunicazione politica e auspici valoriali. Tra le discipline suddette, il diritto tributario appare settoriale, scollegata dalle grandi discussioni giuridico sociali, come intelligenza artificiale, cambiamenti climatici, digitalizzazione, demografia, livelli di spesa pubblica, globalizzazione e via enumerando[2]. In tutte queste discussioni sociali il diritto tributario viene coinvolto indirettamente, attraverso la finalità complementare della leva fiscale, utilizzata per c.d. finalità extrafiscali (ambiente, arte, demografia, informatizzazione etc.), senza affrontare il tema per la porta principale. E’ come se, fallito l’obiettivo di centrare il proprio tema giuridico sociale tipico, relativo alla determinazione delle imposte, il diritto tributario fosse relegato a un ruolo accessorio in tutti gli altri temi in cui si presta ad essere coinvolto; infatti, per valutare gli effetti delle imposte su un settore bisogna conoscerne il funzionamento, non bastando essere tributaristi. Resta quindi la diffidenza verso i tributaristi che affrontano direttamente settori della socialità estranei alla funzione tributaria, che rischiano di sentirsi dire, davanti o dietro, Tutto molto bello, ma con tributario, che c’entra?.
Quest’impressione di settorialità non scatta per altre discipline, come economia, filosofia, sociologia, diritto pubblico e costituzionale, amministrativo, commerciale e del lavoro, persino diritto privato e storia, insomma materie con un’immagine giuridico-sociale più ampia del diritto tributario. Persino giornalisti, politici, la strana categoria degli “attivisti” o i bloggers e gli youtubers , inseritisi nello spazio lasciato libero dall’autoreferenzialità degli studi sociali, hanno un biglietto di presentazione più ampio rispetto a quello di tributarista. A questa limitazione di partenza non s’accompagna però una riserva riconosciuta nella discussione sul settore, analoga a quella esistente nelle scienze della materia. Anche qui opera l’accessibilità generale degli studi sociali, nel senso che la mancanza di spiegazioni autorevoli e condivise del settore spinge tutti a improvvisarle, giustamente scavalcando l’accademia; opera solo la riserva tecnica, tipica del diritto, secondo cui quando si ha un problema specifico ci si reca da un avvocato, da un commercialista o da altre figure professionali con una parvenza di qualificazione specifica.
Per le spiegazioni sociali invece si ripropone, in piccolo, quanto visto al par.1.5 di Studi sociali e diritto per l’economia, la cui involuta autoreferenzialità, o il cui semplicismo emotivo, spingono chiunque a improvvisarsi esperto di ricchezza, povertà, moneta, spesa pubblica, etc. In prima battuta gli interessati a un certo settore della socialità si confrontano infatti idealmente coi cultori continuativi del settore. Se però questa pietra di paragone appare, come abbiamo appena detto, autoreferenziale o superficiale, gli interessati tendono a procedere per proprio conto, vista l’accessibilità degli studi sociali. L’accademia viene cioè considerata incapace di intercettare l’interesse per il tema, ideologicamente condizionata, oppure inutilmente paludata. Questa pietra di paragone accademica ha l’impatto sociale di far dire ai suddetti se questa è l’università vale tutto e anch’io dico la mia, avendone la possibilità, cioè strumenti di ascolto, come i mezzi di comunicazione. L’atteggiamento secondo cui se questi sono i professori allora possiamo tutti essere professori è una positiva manifestazione di pluralismo sociale, visto che ragionamenti di senso compiuto svolti in buona fede colgono sempre un po’ di verità. S’intrecciano però così percezioni e riflessioni tra cui manca il coordinamento degli studiosi sociali, con una confusione dannosa per la coesione del gruppo[3].
All’interno di questa confusione finisce per valere tutto, anche le prese di posizione più estemporanee, fortuite o stravaganti. Vi contribuisce il sensazionalismo mediatico, che rilancia comunicazioni disparate di politici, giornalisti, opinionisti, sindacalisti, magistrati, alti burocrati, personaggi pubblici delle più diverse estrazioni e collocazioni ideologiche, nonché esponenti dell’attività professionale. Anche l’accademia del diritto tributario ha così indirettamente accreditato visioni improvvisate e frammentarie del proprio settore, di cui lei aveva omesso spiegazioni più organiche. Ne sono derivati gli inconvenienti di cui al punto successivo, anche sul diritto come tecnica professionale.
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III. In materia giuridica, l’isolamento sociale dell’accademia del diritto tributario è per molti versi analogo a quello di accademie con matrice fortemente tecnica, come quelle di diritto processuale e penale. La prospettiva qui è quella degli avvocati in cattedra, senza bisogno di identità sociale, che viene loro da una secolare tradizione ed un ampio spettro d’intervento tecnico. I tributaristi girano invece sempre attorno all’interrogativo, socialmente angusto, se le imposte sono dovute o no. La tecnica professionale è quindi monotematica rispetto a quella sopra indicata, o – venendo alle funzioni non giurisdizionali – a quella del diritto amministrativo, che spazia su tutte le aree di intervento pubblico e su tutti i relativi possibili vizi.
Anche sul piano della redditività economica, la professione tributaria si è sempre più impoverita negli ultimi anni, con minori sinergie rispetto allo studio sociale della funzione tributaria. Al di là dell’impoverimento generale dell’economia, si tratta di un riflesso della sconfitta dell’elusione, della frequenza con cui anche la lecita pianificazione tributaria viene presentata come elusiva, e della parcellizzazione delle pratiche su questioni di diritto, con margini economici sempre minori per assorbire tempi di riflessione. La professione tributaria sta diventando cioè sempre più una commodity, come rilevavo nei primi paragrafi di Diritto delle imposte (Milano, 2020), nonché al paragrafo 4.16 de L’imposizione tributaria come diritto amministrativo speciale, cit. Nelle grandi operazioni di acquisizione aziendale (M&A) gli aspetti tributari sono sempre più accessori, o non determinanti ai fini della convenienza; si cerca sempre più di evitare danni, più che di ottenere i vantaggi, svaniti con l’attuale coordinamento impositivo società-soci basato sulla c.d. participation exemption senza più convenienze della vendita delle quote rispetto a quella dell’azienda.
L’assegnazione dei lavori professionali, anche per il grande aumento numerico di consulenti fiscali, si riduce quindi a una questione di relazioni e di prezzo. Lo si vede nei c.d. beautycontest, con offerte di consulenza professionale al ribasso e crisi degli studi-boutiques accademici. Come tale, la cattedra accredita sempre meno sul piano reputazional-professionale, sia per la crisi d’immagine di cui al paragrafo precedente, sia perché la confusione dilagante dà spazio a innumerevoli categorie/tipologie di “esperti”, anche qui legati ai media di settore (stile esperti del Sole 24 Ore) e ai social; su di essi si innesca una pubblicistica parallela, con finalità professionali, rilanciata da convegni diretti a far vedere i relatori sulla locandina. Il disorientamento spinge i governanti a usare la legislazione a fini di comunicazione politica, con stratificazioni di riforme improvvisate, per reagire in qualche modo al malessere, che non sconfessano del tutto le precedenti, ma vi si affiancano e intrecciano.
Le relative enormi complicazioni ricadono sull’enorme massa di professione povera, dove la consulenza si ambulatorializza, in pratica come un rapido consulto medico, con l’estremo limite del caf-patronato. Nonostante le minori cifre coinvolte, si tratta di una determinazione documentale con la stessa complessità di quella riguardante le grandi aziende. Questa complicazione la rende faticosa e non remunerativa per chi la svolge, risolvendosi in oggettive carenze di tutela per i contribuenti; la determinazione documentale comporta interrogativi di fatto e di diritto difficili da gestire su larga scala, nella misura in cui aumentano di numero e diminuiscono d’importo, riferendosi a milioni di operatori economici di piccole dimensioni, per non parlare di dipendenti, pensionati, lavoratori saltuari, titolari di piccoli redditi immobiliari e di sussidi. Questa gestione massiva è ostacolata anche dalla suddetta diffusa mentalità privatistico giurisdizionale, che disincentiva rispetto alla gestione amministrativa delle questioni, spingendo alla via processuale, con le sue lungaggini ed esiti imprevedibili.
La preferenza per le contestazioni interpretative danneggia non solo la società in generale (paragrafo 5.15 de L’Imposizione tributaria cit.) ma anche la professione, in quanto le grandi aziende pluripersonali adottano atteggiamenti prudenziali nell’interpretazione, eliminando l’elusione; le procedure di cooperative compliance e tutoraggio fiscale, necessitate politicamente per tener fermo il mito dei grandi evasori, creano poco lavoro, sono di routine (francesismo sostituita da compliance nella neolingua anglosassone) su un numero limitatissimo di soggetti. La componente di relazioni pubbliche della professione, in una situazione confusionaria, si espande sempre più, a danno dei contenuti tecnici.
Inquadrare il diritto tributario come determinazione amministrativa della ricchezza è anche la via d’uscita da questo stallo professionale.
Il coinvolgimento dei professionisti nella stima amministrativa per ordine di grandezza dei ricavi delle piccole attività gestite dal titolare (come spiego nel paragrafo 5.16 de L’imposizione tributaria, cit.) dovrebbe sostituire il loro surreale ruolo di direttori amministrativi esterni cui è sottratto il maneggio del denaro dei contribuenti. Questo ruolo socialmente utile dei professionisti potrebbe essere svolto anche dagli avvocati, come spiego nei miei contributi su L’avvocato nella professione tributaria, il Foro Italiano, 2021, con concetti ripresi ai prossimi paragrafi per la ricerca e la didattica.
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IV. Occorre quindi riflettere su come superare l’isolamento sul piano della ricerca sociale (paragrafo II) e la frammentazione professionale (paragrafo III); occorre in qualche modo riaprire le menti, chiedendosi di cosa parliamo e perché, recuperando la socialità, intesa come studio generale di una prospettiva della vita pratica.
E’ un obiettivo raggiungibile solo con una centralità di contenuti socialmente interessanti, da sostituire ai suddetti discorsi di circostanza vagamente in tema, finalizzati a una presenza politica, istituzionale, accademica, professionale, giornalistica, editoriale, etc. Per tenere insieme un settore scientifico disciplinare servono contenuti, e non bastano legami relazionali, di amicizia o inimicizia variamente combinati su contingenti schermaglie di potere accademico che, poco prima dell’inchiesta penale di settembre 2017, definivo cattedrificio (nel volume Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, 220).
Per mettere sostanza dentro le formule generali della valutazione accademica, come rigore scientifico, originalità, impatto etc., bisogna partire da contenuti giuridico sociali, nel nostro caso sui rapporti tra la funzione tributaria e le suddette altre prospettive di studio sociale.
A tal fine la funzione tributaria va prima di tutto incardinata su uno sfondo culturale amministrativistico, cioè non giurisdizionale, il che è fondamentale anche per comprendere la tutela processuale, quando esiste; lo sfondo privatistico-giurisdizionale riguarda solo l’analisi dei rapporti giuridici di diritto comune, strumentali alla determinazione dei presupposti economici d’imposta (L’imposizione, cit., paragrafi 4.12 ss.). Il diritto dei privati ha anche il consueto ruolo residuale derivante dalla sua lunga tradizione, con riflessi su riscossione coattiva, prescrizione, decadenza, che ritroviamo del resto in tutte le altre funzioni del diritto amministrativo speciale. Siamo però ancora a uno stadio relativamente iniziale, in quanto il diritto amministrativo generale non offre istituti giuridici preconfezionati, su interpretazione, discrezionalità, istruttoria, contraddittorio, giudizio di fatto, onere della prova, provvedimento, autotutela decisoria ed esecutiva, modelli organizzativi, contenzioso, sanzioni ed altri trasferibili meccanicamente nelle diverse funzioni amministrative. In relazione a ognuna di esse, compresa quella tributaria, i suddetti concetti generali e molti altri vanno personalizzati ulteriormente.
Ci sono quindi evidenti possibilità di interazione tra l’accademia del diritto amministrativo e del diritto tributario, numericamente abbastanza importante rispetto alla prima, vista la maggior diffusione del diritto tributario nelle facoltà di economia (197 docenti strutturati in tributario contro 434 in amministrativo, quasi uno a due, o meglio a 1 a 2.2, confrontando solo gli ordinari).
Riprendo alcune sinergie indicate al paragrafo 2.13 de L’imposizione tributaria, cit., a partire dalla cura di interessi non propri da parte degli uffici tributari, in un’interazione bilaterale coi contribuenti. Quest’ultima si distingue da quella bilaterale del processo, in cui un giudicante indipendente risolve un conflitto tra parti, ciascuna portatrice d’interessi propri. La gestione d’interessi altrui, da parte degli uffici tributari, corrisponde a quanto avviene nelle imprese pluripersonali e nelle varie forme di mandato, tipiche non solo del diritto societario, ma anche di quello del lavoro. La delega nell’interesse di terzi è infatti presente anche nel diritto dei privati, oltre che nell’esercizio dei pubblici poteri. Altra sinergia tra le due accademie deriva dall’apporto, da parte del diritto tributario, di concetti economico-aziendali di cui il diritto amministrativo sente il bisogno, come confermano le frequenti aperture di credito della relativa accademia all’analisi economica del diritto.
Al diritto tributario, dove la legislazione è qualitativamente peggiorata negli ultimi decenni, gioverebbe la codificazione di una serie di principi del diritto amministrativo generale; mi riferisco soprattutto alla legislazione su procedimento e processo, punto di arrivo di una sorta di diritto amministrativo dei giuristi, un po’ come il diritto romano e la common law. Queste normative generali sono infatti più al riparo dalle suddette contingenti esigenze di comunicazione politica, che influenzano le legislazioni amministrative di settore, come quella tributaria.
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V. L’osmosi tra le prospettive di cui al paragrafo precedente costituisce un percorso culturale e sostanziale, che prescinde da collocazioni burocratico formali dei saperi accademici; queste ultime sono spesso condizionate da convenienze istituzionali al mantenimento di determinate accademie, e di determinati percorsi curricolari delle facoltà giuridiche. E’ solo certo che, nel lungo periodo, il diritto come studio giuridico sociale diventerà sempre più necessario, anche in termini di interdisciplinarietà e internazionalizzazione, non solo per l’interesse generale, ma anche per il diritto come tecnica, con ineludibili combinazioni tra le due prospettive.
Un’evoluzione del diritto tributario in senso giuridico-sociale potrebbe avere inizio anche all’interno dell’attuale declaratoria riportata sotto[4], come si dice in gergo legalese. In essa è infatti compresa la generalità delle entrate e spese pubbliche, compresi contributi sociali, tasse in senso stretto, tariffe, debito e quindi moneta. I tributaristi potrebbero quindi appropriarsi dello studio delle decisioni di spesa, cioè del c.d. diritto contabile pubblico, trascurato dagli amministrativisti a vantaggio dei contratti pubblici, anche per ragioni professionali. Accanto ai tecnicismi della funzione tributaria, esasperati fino a formule esoteriche come disallineamenti da ibridi, andrebbe recuperata in senso giuridico sociale la fiscalità, cui corrisponde la gestione complessiva di entrate e spese pubbliche, nella tradizionale figura giuridica del diritto finanziario.
Passare dal tributario al fiscale aumenterebbe i punti di contatto per affinare, nella prospettiva dei sistemi di finanziamento, inclusiva di trasferimenti, tasse e tariffe, i concetti generali sopra indicati del diritto amministrativo generale (discrezionalità, motivazione, contenzioso, ruolo del giudice, etc.).
Sul piano giuridico sociale l’accademia potrebbe così già entrare di pieno diritto, dalla porta principale, non solo sulla funzione tributaria, ma anche su molte funzioni di diritto amministrativo speciale, come gestione del patrimonio, beni culturali o ambiente. Sul piano metodologico, infine, la necessaria selezione e rielaborazione, in chiave tributaria, dei vari aspetti economici, aziendali e politici di studio sociale, indicati al paragrafo II, sarebbe più agevole.
Uno sfondo giuridico sociale, affrancato dal monismo metodologico, consente infatti di selezionare e adattare alla funzione tributaria i profili non giuridici indicati al termine del paragrafo I, nelle loro varie sfumature spazio-temporali.
[1] Mi riferisco a Giulio Tremonti, ordinario di diritto tributario molto presente sulla scena politico-istituzionale e del dibattito pubblico.
[2] Inserisco pure i beni culturali, cui è stato dedicato negli anni scorsi un PRIN, a matrice tributaria, in cui ho pure scritto un contributo.
[3] E’ un riflesso del dualismo metodologico tra studi sociali e della materia, su cui ampiamente Studi sociali e diritto, cit., paragrafo 1.9.
[4] Studi relativi all’amministrazione finanziaria dello Stato, delle Regioni e degli enti pubblici territoriali, con particolare riferimento al regime dell’imposizione tributaria, nonché quelli relativi agli aspetti sanzionatori, processuali, comunitari, internazionali e comparatistici della materia.
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Diritti degli interessati
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1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
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