Strategie europee per mitigare il cambiamento climatico: dalla tassazione del lavoro a quella dell’inquinamento
Di Giuseppe Mercuri
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Abstract
Con molteplici iniziative, la Commissione europea ha tracciato un percorso nella prospettiva di migliorare la resilienza ai cambiamenti climatici. In questo quadro, il ruolo delle misure in campo fiscale è fondamentale. In particolare, la Commissione ha proposto di spostare la tassazione dal lavoro all’inquinamento per sostenere la transizione ecologica.
European strategies to mitigate climate change: from taxation of labour to environment tax. – The European Commission traced a path in order to improving resilience to climate change. In this framework, the role of fiscal measures is essential. In particular, the Commission proposed to shift taxation from labor to pollution to support the green transition.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le varie iniziative intraprese e la difficile fase di negoziazione – 3. Dalla tassazione del lavoro a quella dell’inquinamento: il problema del carattere regressivo dei tributi ambientali e il contrasto alla “povertà energetica”.
1. I recenti eventi calamitosi (siccità e alluvioni) non sono altro che le ennesime conferme di un problema ormai centrale per la nostra epoca, cioè quello del cambiamento climatico.
L’Intergovernmental Panel on Climate Change ha elaborato una solida base scientifica per affrontare il fenomeno, rimarcando – a più riprese – la necessità di ridurre le emissioni a effetto serra onde limitare il verificarsi di eventi meteorologici estremi.
Si tratta, quindi, d’individuare le modalità attraverso cui affrontare le sfide derivanti da tale situazione, cercando di mitigare l’impatto dell’uomo sul riscaldamento globale. A questo riguardo, con l’Accordo di Parigi sul clima, gli Stati aderenti hanno fissato l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 °C e di proseguire gli sforzi al fine di limitarlo a 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali (art. 2, par. 1, lett. a dell’Accordo).
L’Unione Europea sta dando un contributo fondamentale in questo ambito, mirando a conseguire una posizione di leadership nell’ambito delle iniziative volte al cambiamento dell’economia nella prospettiva della sostenibilità ambientale e dei traguardi individuati a Parigi.
La dimensione delle strategie europee può articolarsi in una duplice prospettiva: quella della “regolamentazione”, ossia disciplinando direttamente i prodotti che non sono ammessi alla luce di standard ambientali (ad esempio, nell’ambito dell’automotive, il divieto di produzione di motori termici in favore di quelli elettrici) e imponendo i correlati divieti; oppure quella indiretta della “leva fiscale”, là dove il legislatore agisce tramite imposte pigouviane volte a orientare i contribuenti verso determinati comportamenti alla luce dei costi fiscali dell’attività.
La prima soluzione non pare consigliabile, richiamando modelli economici di pianificazione che hanno trovano una smentita sia sotto il profilo empirico, che da parte della letteratura scientifica. Sottolineava von Hayek come la centralizzazione e la burocratizzazione delle scelte economiche in capo al policy-maker finisca per generare asimmetrie informative nella produzione e, conseguentemente, una carenza di risorse, in quanto l’enorme mole di dati e di variabili che possono venire in considerazione rendono di per sé estremamente difficile (se non impossibile) l’adozione di scelte che possano soddisfare – appieno e in modo adeguato – le esigenze della collettività. A ciò si potrebbero aggiungere anche variabili esogene di carattere geopolitico, come la disponibilità di materie prime essenziali per le nuove tecnologie (come le cc.dd. “terre rare”) da parte di Stati non rispondenti a modelli democratici.
Queste problematiche impongono di preferire un aggiustamento delle esternalità generate dall’inquinamento attraverso interventi volti ad influenzare indirettamente le scelte degli operatori economici. Sotto questo profilo, l’Unione Europea si è fatta carico d’implementare la propria politica ambientale (fondata sull’art. 191 TFUE), mirando al rafforzamento del polluter pays principle. Quindi, in campo fiscale si tratta di “tassare” o “detassare” alcuni prodotti nella prospettiva di favorire la riduzione di emissioni di gas serra. L’idea della defiscalizzazione in chiave ambientale si presta maggiormente ad intercettare il consenso sociale, in quanto invertire la prospettiva dal principio “chi inquina paga” a quello per cui “chi inquina meno, paga meno” assume un maggiore impatto sull’opinione pubblica. Ma se lo slogan può rivelarsi efficace sul piano sociale, tale politica non pare adeguata da sola per affrontare il complesso problema della transizione ecologica. Si tratta infatti di un progetto volto ad un radicale ripensamento della produzione, del lavoro e degli stili di vita, creando i presupposti per un’economia sostenibile sul piano ambientale. Tale percorso richiede inevitabilmente l’utilizzo di ingenti risorse da parte degli Stati per rispondere tramite investimenti agli scompensi sociali che tale iniziativa è suscettibile di generare. Sicché, il rafforzamento di agevolazioni fiscali (esenzioni, sgravi, ecc.) in favore delle imprese che riducono le emissioni di CO2 sono certamente da salutare con favore, ma sono strumenti “complementari” e non “esclusivi” rispetto a quelli derivanti dalla revisione delle modalità di “tassazione” in una prospettiva environment-oriented. Non si deve dimenticare che le varie forme di esenzione o riduzione delle imposte sono tax expenditures che richiedono l’individuazione di adeguate coperture mediante nuove entrate, con l’indebitamento oppure con la riduzione di altre voci di spesa.
Probabilmente proprio in considerazione dell’impatto sui bilanci degli Stati membri derivante dalla defiscalizzazione e dell’incidenza degli investimenti necessari per far fronte ai costi sociali, l’Unione Europea si è concentrata sull’individuazione di entrate volte al reperimento delle risorse necessarie per fronteggiare anche i disagi sociali che la transizione ecologica potrebbe innescare.
2. Queste iniziative prendono le mosse dal c.d. Green Deal europeo (COM[2019] 640 final), con il quale la Commissione Europea ha individuato i principali ambiti di intervento, trovando poi conferma nell’ambito della normativa europea sul clima (Regolamento UE 2021/1119).
In generale, si è proposto di ridurre, entro il 2030, le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990 (c.d. “Fit to 55”) nella prospettiva di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
In questo quadro emerge come gli strumenti fiscali siano essenziali per fronteggiare le problematiche del cambiamento climatico. E infatti, si sono evidenziate: (i) la necessità di una nuova politica di fissazione dei prezzi del carbonio (tramite la revisione della direttiva dei prodotti energetici) in una prospettiva ambientale; (ii) l’opportuna modifica della disciplina della tassazione del trasporto con l’eliminazione o la riduzione di sussidi o agevolazioni dannose; (iii) l’attuazione di una transizione ecologica equa, basata su scelte che muovano da un approccio olistico rispetto alle attività implicate dalla tassazione; (iv) la necessità di realizzare riforme fiscali su larga scala volte all’abolizione di agevolazioni in favore dei combustibili fossili, nonché dirette all’allentamento della pressione fiscale sul lavoro per spostarla sull’inquinamento, considerando quindi gli impatti sociali delle scelte, quali ad esempio le forme di “povertà energetica” e l’incidenza sui soggetti vulnerabili.
Inoltre, l’ammontare degli investimenti previsti per l’attuazione del Green Deal ha indotto la Commissione ad individuare un piano per il reperimento delle risorse (COM[2021] 566 final). In una prima fase, si è pensato di ritrarre un adeguato livello di entrate dallo scambio di emissioni (ETS), da un meccanismo di scambio del carbonio alle frontiere, nonché da una quota di utili derivanti dalla ripartizione delle potestà impositive esercitate sui profitti delle multinazionali nel quadro della disciplina della global minimum tax. Inoltre, è stata introdotta anche una nuova forma di contribuzione degli Stati membri sulla base dei quantitativi di plastica non riciclata (Regolamento [UE, Euratom] 2021/770). In una seconda fase, la Commissione prevede di reperire risorse dalla tassazione delle transazioni finanziarie e da apposite forme di contribuzione relative al settore delle imprese.
Sulla base di tale percorso la Commissione ha presentato alcune proposte che, tuttavia, a cagione della loro complessità (ma anche a causa di una congiuntura economica sfavorevole) sono ancora in fase di negoziazione. In questo senso, la proposta di revisione della direttiva sui prodotti energetici e sull’elettricità (COM [2021] 563 final) risente dei problemi correlati al caro energia verificatosi negli ultimi anni. E difatti, si prevede una tassazione correlata al contenuto energetico e alle prestazioni ambientali di ciascun prodotto, eliminando l’attuale trattamento fiscale svantaggioso per alcune fonti di energia alternative come i biocarburanti sostenibili, che sarebbero tassati secondo aliquote inferiori rispetto a quelle sino ad ora vigenti. Ai fini del calcolo delle nuove imposte si individuano i livelli minimi di tassazione in relazione ai prodotti raggruppati in categorie secondo la propria “prestazione ambientale”, pur prevedendo forme di esenzione o riduzione (come nel caso dell’aviazione) in via transitoria per mitigare i costi derivanti dagli aumenti dell’energia oppure in relazione alle famiglie vulnerabili (per ciò che concerne la tassazione dei combustibili destinati al riscaldamento).
Con la proposta COM (2021) 551 final, la Commissione ha elaborato una revisione del sistema di scambio di quote di emissioni (ETS), intervenendo sul mercato dei “diritti di emissione” che possono essere acquistati o venduti dalle imprese responsabili dell’inquinamento. In specie e fra l’altro, si prevede di eliminare gradualmente le concessioni a titolo gratuito per il settore aereo, includendo nel sistema di scambio anche il trasporto marittimo.
Molto incisivo appare il regolamento sull’adeguamento del prezzo del carbonio alle frontiere (Regolamento UE 2023/956) diretto a prevenire il rischio di “rilocalizzazione” di emissioni in Paesi terzi, in quanto ciò vanificherebbe il perseguimento degli obiettivi di rilevanza globale in relazione a merci ad “alta intensità di carbonio” (cemento, energia elettrica, concimi, ghisa, ferro e acciaio, alluminio, idrogeno). Sicché, il regolamento promuove il progressivo allineamento degli Stati extra-UE verso gli standard europei attraverso un meccanismo volto ad assicurare l’equivalenza fra il prezzo del carbonio per le importazioni e quello per i prodotti interni. A tal fine, si prevede che i soggetti autorizzati all’importazione di tali beni debbano assolvere un obbligo dichiarativo avente ad oggetto la quantità di merci importate e alle emissioni totali in esse incorporate (da calcolarsi secondo le formule matematiche previste dagli allegati del regolamento). Si istituisce quindi una piattaforma centrale comune di vendita di “certificati” in base al prezzo calcolato dalla Commissione europea. Entro il 31 maggio di ogni anno, il “dichiarante autorizzato” deve restituire un numero di certificati corrispondente alle emissioni incorporate dichiarate, tenuto conto della riduzione spettante in ragione del prezzo del carbonio effettivamente pagato nello Stato di origine.
3. La principale difficoltà di tali iniziative risiede nell’individuazione di un punto di equilibrio fra intervento tramite le misure fiscali e le differenti implicazioni sul mercato e a livello sociale. Da questo punto di vista, i margini di manovra devono essere individuati in base ad un criterio di proporzionalità nella prospettiva di un bilanciamento delle diverse istanze ambientali, sociali ed economiche.
Al riguardo, appare significativo il problema degli effetti regressivi derivanti dall’aumento dei tributi sui prodotti energetici o comunque sulla produzione. E difatti, l’aumento della tassazione incide sull’incremento dei prezzi al consumo, creando maggiori difficoltà rispetto alle famiglie vulnerabili a basso redditto e, quindi, rischiando di generare forme di “povertà energetica”.
Secondo i dati ritraibili dall’Agenzia Europea dell’Ambiente, l’introduzione dei tributi ambientali ha avuto un significativo impatto sui bilanci pubblici degli Stati dell’UE. E difatti, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2019 si è verificato un incremento pari al 18% delle “entrate ambientali”. Epperò tale crescita è meno che proporzionale rispetto all’incremento del Pil (26%), nonché del gettito fiscale degli Stati (31%). Gli aumenti di questo tipo di entrate in valore assoluto si sono verificati in particolare in alcuni Paesi dell’est Europa (in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Polonia e Slovacchia tra il 2002 e il 2019 sono raddoppiate), mentre in altri Paesi più attenti alle problematiche ambientali le entrate in parola si sono ridotte (in Danimarca, Germania, Norvegia e Portogallo la riduzione riguarda circa il 5-15%).
Un altro dato ritraibile dai rilievi dell’Agenzia Europea dell’Ambiente è che, nello stesso periodo, in 12 Stati membri l’onere fiscale si è spostato dal lavoro all’ambiente tramite l’implementazione di misure incentrate sull’inquinamento e sull’utilizzo delle risorse, rendendo possibile l’aumento delle entrate fiscali ambientali in misura più che proporzionale rispetto alle entrate fiscali sul lavoro. Tuttavia, per gli altri 15 Stati membri la tendenza è esattamente opposta.
Gli Stati che sono stati promotori di tributi ambientali sin dagli anni ‘90 (Danimarca,
Norvegia e Svezia) hanno visto una riduzione dei tributi ambientali, proprio perché tali forme d’imposizione raggiungono il proprio fine (extra-fiscale) allorquando il presupposto non venga integrato e cioè quando operano come “disincentivo” verso una data condotta da parte dei contribuenti. Quindi, ciò significa che i tributi ambientali “funzionano” proprio quando essi non risultano dovuti e, quindi, nel momento in cui si verifica l’erosione di base imponibile in ragione della riduzione dei prodotti a maggiore impatto ambientale. In questo senso, la Corte di Giustizia dell’UE ha rimarcato anche recentemente che, nonostante la generale esenzione di cui all’art. 14, lett. a) della Direttiva 2003/96, gli Stati membri possono introdurre la tassazione del carbone impiegato per la produzione di elettricità «per motivi di politica ambientale», ove sussista un nesso fra la destinazione del relativo gettito fiscale e la finalità predetta oppure ove la struttura della fattispecie impositiva (specie per ciò che concerne l’imponibile e/o l’aliquota) sia concepita per orientare le scelte dei contribuenti verso una maggiore tutela dell’ambiente nel senso di disincentivare il consumo di determinati prodotti oppure di incoraggiare l’uso di altri beni, le cui produzioni abbiano un minore impatto in termini di inquinamento (CGUE, C-833/21). Ciò significa che la tassazione per motivi ambientali deve essere suscettibile di conseguire un “duplice risultato” nel lungo periodo, nel senso che alle consistenti entrate inizialmente conseguite a bilancio deve seguire una progressiva riduzione in ragione dell’adeguamento della condotta dei contribuenti agli obiettivi di politica ambientale perseguiti. In questo campo di studi, quindi, l’erosione della base imponibile rivela il buon funzionamento della misura.
Nondimeno non è dato sottacere come l’aumento della tassazione dei prodotti energetici di largo consumo o l’incremento dei prezzi derivanti dall’aumento dei prodotti a bassa prestazione ambientale non abbia solo un impatto sugli operatori economici, ma soprattutto sulle famiglie a basso reddito. Ciò impone di adottare “strategie di compensazione” fra la perdita di opportunità di risparmio per tali categorie sociali e l’adozione di strumenti fiscali volti ad annullare tali problemi. E invero, l’adozione di una carbon tax finisce per colpire in modo del tutto sproporzionato le famiglie meno abbienti, per ciò che una quota rilevante delle loro disponibilità sono impiegate nell’acquisto di prodotti caratterizzati da un alto livello di carbonio. Sicché, tali scelte sono suscettibili d’innescare effetti regressivi.
Per converso si potrebbe verificare una forma di “disparità” nell’uso del “carbonio”, in quanto le famiglie ad alto reddito (presso le quali si concentra già l’utilizzo di tali prodotti) potrebbero non essere incentivate a preferire altri tipi di prodotti a basso impatto ambientale, là dove l’incremento derivante dalla tassazione ambientale sia irrilevante in considerazione del proprio livello reddituale, specie per ciò che concerne i consumi concernenti i trasporti (aerei privati, SUV, ecc.) e/o l’abitazione.
Inoltre si è osservato come l’impatto distributivo del prezzo del carbonio abbia una rilevanza indiretta anche sulle categorie di lavoratori a basso reddito, i quali potrebbero soffrire una riduzione del reddito o la perdita della fonte reddituale, in quanto essi tendono a prestare la propria attività lavorativa in settori interessati dai mutamenti della domanda (si pensi al settore dei trasporti oppure dell’automotive).
Da questo punto di vista, il Green deal europeo ha posto in evidenza come il cambiamento climatico sia così epocale da richiedere riforme fiscali adeguate per “migliorare la resilienza agli shock climatici” in ossequio ad un principio di equità nella società e nella transizione ecologica. In questo senso, la Commissione ha individuato l’obiettivo di attuare riforme che mirano all’allentamento della “pressione fiscale sul lavoro per trasferirla sull’inquinamento”. Questo aspetto volge proprio nel senso di coniugare equità, proporzionalità delle scelte e progressività del sistema. Tuttavia, tale progetto ambizioso deve affrontare alcune questioni fondamentali. In primo luogo, si pone un problema di misurazione dell’incidenza dei “tributi ambientali” quale componente fiscale indiretta dei prezzi di determinati beni. Da questo punto di vista si è sempre segnalata la difficoltà di valutare l’incidenza delle imposte indirette sul c.d. minimo vitale, cosicché si è pensato di mitigare gli effetti regressivi di tali imposte attraverso sussidi e non già sotto il profilo della fattispecie impositiva, apparendo ardua la progettazione “in termini progressivi” delle imposte indirette. È vero che si prevedono aliquote IVA diverse per beni di prima necessità, ma non pare possibile articolare l’aliquota applicabile in concreto a seconda della capacità reddituale del singolo.
Inoltre, la diminuzione della pressione fiscale del lavoro e il corrispondente aumento della tassazione dell’inquinamento possono essere due termini di riferimento che non necessariamente sono correlati. Se si pensa che alcune economie altamente inquinanti non consentono una riqualificazione energetica in tempi stretti (come, ad esempio, nei settori della metallurgia), l’aumento della tassazione ambientale potrebbe comportare addirittura la distruzione di posti di lavoro a causa della fuoriuscita dal mercato di tali imprese. Ciò innescherebbe un aumento della spesa sociale relativa ai necessari sussidi per la disoccupazione, anziché favorire il reperimento di risorse da destinare alla riduzione della tassazione del lavoro.
Occorre rimarcare però che i “gruppi vulnerabili” possono essere incisi meno dagli effetti regressivi delle tasse ambientali attraverso forme di agevolazioni, se si implementa una forma di redistribuzione interna ai tributi medesimi. Da questo punto di vista, alcuni studi hanno evidenziano come le riduzioni forfettarie o le riduzioni delle imposte dirette possano avere effetti redistributivi in favore delle famiglie a basso reddito. Tuttavia, le distorsioni che si realizzano a cagione degli aumenti dei tributi sul carbonio dovrebbero essere annullate da iniziative volte a predisporre strumenti compensativi efficaci e/o limitati nel tempo per consentire un assestamento automatico alle nuove condizioni imposte dalla transizione ecologica.
In questa prospettiva, il Regolamento (UE) 2023/955 ha istituito il “Fondo sociale per il clima” volto alla realizzazione di finalità redistributive in favore di soggetti vulnerabili (famiglie, microimprese, utenti di trasporti). Ciò avviene mediante forme di sostegno “diretto e temporaneo” al reddito, nonché attraverso investimenti volti ad assicurare l’efficienza energetica degli edifici, la decarbonizzazione degli impianti di riscaldamento e raffrescamento degli edifici (ivi compresa l’integrazione negli edifici della produzione di energia innovabile e lo stoccaggio di tale energia), nonché un migliore accesso alla mobilità e ai trasporti “a zero e a basse emissioni”. Per queste ragioni si richiede la predisposizione da parte di ciascun Stato membro di un “piano sociale per il clima” (con il quale si devono individuare le misure concrete e l’ammontare degli investimenti richiesti per il contrasto alla “povertà energetica”), potendo includere anche le misure nazionali già in vigore per tali fini, ove lo Stato membro disponga già di un sistema nazionale di scambio di quote di emissioni per gli edifici e il trasporto su strada oppure ove preveda già una carbon tax.
Le politiche fiscali, quindi, sono un tassello necessario in vista dell’obiettivo della neutralità climatica dell’economia, in quanto i Governi sono chiamati ad investimenti strutturali per gestire i costi di adeguamento verso un modello sostenibile.
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