IL PUNTO SU… L’assetto strutturale del c.d. “regime forfetario” e il trade-off tra equità fiscale ed efficienza
Di Matteo Demetri
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A. Com’è noto, la L. 29 dicembre 2022, n. 197 (recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025»), anche nota come “Legge di Bilancio 2023”, è intervenuta sull’art. 1, L. 23 dicembre 2014, n. 190 (disposizione recante l’individuazione dei limiti quantitativi entro cui trova applicazione il regime forfettario), innovando la disciplina del regime agevolato previsto per le persone fisiche esercenti attività d’ impresa, arti o professioni.
In termini più precisi, al comma 54, lett. a) del menzionato art. 1 le parole «euro 65.000» sono state sostituite dalle parole «euro 85.000»: viene, dunque, innalzato a 85.000 euro il limite dei ricavi conseguiti o compensi percepiti nell’anno precedente per rientrare nel regime in esame. Inoltre, la lett. b) della medesima disposizione prevede che il percettore di compensi o ricavi superiori a 100.000 euro fuoriesce immediatamente dal regime e di conseguenza dovrà versare l’imposta sul valore aggiunto a partire dalle operazioni che comportano il superamento del predetto limite. Per chi, invece, supera la soglia degli 85.000 euro ma resta sotto i 100.000 euro, il regime forfettario cessa di avere efficacia a partire dall’anno successivo al superamento della soglia.
Questo regime fiscale era nato con il meritevole obiettivo di agevolare i giovani professionisti e imprenditori con un volume d’affari contenuto e per un periodo di tempo limitato, ma adesso è diventato un regime per così dire ordinario, il quale, nella nuova e definitiva veste, desta non poche perplessità di carattere sistematico.
Più precisamente e in chiave diacronica, la Legge di Stabilità 2015 aveva previsto inizialmente un trattamento differenziale di favore per i lavoratori autonomi che percepissero proventi fino a 30.000 euro annui. In seguito, il regime era divenuto applicabile per i soggetti con ricavi compresi tra i 15.000 euro ed i 40.000 euro. A seguito delle ultimissime modifiche, come detto, il regime si applica strutturalmente a imprenditori e lavoratori autonomi con ricavi non superiori a 85.000 euro, soglia, questa, che era in precedenza di 65.000 euro.
Si trattava di un trattamento fiscale di favore inizialmente pensato per imprese marginali e poco strutturate, che era nato con un triplice obiettivo: in primis, facilitare l’assolvimento degli obblighi tributari a taluni contribuenti per i quali si ritiene preferibile un esonero dagli obblighi contabili previsti ai fini IVA; in secundis, agevolare i soggetti che ne erano specificamente destinatari riconoscendo la possibilità, periodo per periodo, di valutare la convenienza del regime ed eventualmente consentire la sua revoca e l’opzione per il regime ordinario; in tertiis, contrastare l’evasione, posto che il Fisco è esonerato dal difficile compito di quantificare redditi facilmente occultabili e accertare l’inerenza di costi afferenti ad attività in cui sussiste frequentemente una rilevante commistione tra sfera produttiva e privata.
B. L’evoluzione del quadro normativo permette di commentare in maniera più compiuta le ultime modifiche introdotte.
In ordine all’innalzamento della soglia di ricavi da 65.000 euro a 85.000 euro, occorre premettere in via generale che la previsione di un tax rate ridotto e vincolato a una predeterminata soglia reddituale condurrà, verosimilmente, le imprese a crescere e svilupparsi sino alla dimensione quantitativa prevista dalla norma tributaria, producendo il cosiddetto “effetto soglia”: una disciplina siffatta spingerà pertanto le imprese ad assumere una struttura produttiva, a compiere scelte di mercato e di produzione, ad effettuare investimenti sino a quando ciò sarà conveniente dal punto di vista fiscale. In altri termini, non ci sarà uno sviluppo economico “libero”, ossia determinato dall’assunzione di scelte imprenditoriali nell’ottica di condurre una certa attività di impresa nel modo più efficiente ed efficace, bensì le scelte saranno inevitabilmente condizionate dal fattore fiscale. In concreto, ciò potrebbe condurre l’impresa a non generare ricavi tassabili, ancorché le prestazioni siano state rese, se con la loro rilevazione dovesse essere superata la soglia rilevante per l’applicazione dell’aliquota ridotta. Lo spostamento in avanti della soglia non modifica i termini del problema: in altri termini, l’effetto-soglia permane ma d’ora in poi riguarderà un numero di contribuenti significativamente più ampio rispetto alle precedenti che invece dividevano in due la popolazione dei contribuenti IVA, creando molto più disincentivo a produrre oltre la soglia o creando incentivo all’evasione.
Quanto alla seconda novità costituita dalla previsione di una seconda soglia posta a 100.000 euro, si può rilevare che la precedente normativa optava per una scelta di “semplificazione”, prevedendo in tutti i casi che il venir meno di un requisito o il verificarsi di una condizione preclusiva rendessero inapplicabile il regime forfettario sempre e soltanto a decorrere dal periodo d’imposta successivo, secondo un principio di “uscita” graduale. Era una scelta dettata dalla volontà di evitare “conversioni” al regime impositivo ordinario in corso d’anno, particolarmente complesse in assenza della tenuta di scritture e registrazioni contabili; venivano, pertanto, fatti salvi gli effetti della tassazione “speciale” sui redditi anche quando, in un certo periodo d’imposta ne difettassero assolutamente i presupposti legali, a cominciare dal caso in cui i compensi effettivi eccedessero la soglia massima prevista (Mondini A., La frammentazione fiscale del lavoro autonomo nei regimi impositivi del suo reddito, in Rivista nuova di Diritto del Lavoro, 2021, 4). Il rovescio della medaglia di tale sistema era costituito dalla circostanza per cui per assurdo veniva consentita una tassazione al 15% anche per redditi milionari, perché l’esclusione dal regime avrebbe operato a partire dall’anno successivo. La transizione “netta” dal regime forfettario/sostitutivo all’applicazione ordinaria dell’IRPEF, superata la soglia di 100.000 euro appare – da questo angolo visuale – assolutamente condivisibile.
C. Occorre ora soffermarsi succintamente sull’opportunità della sostanziale trasformazione del regime in parola da eccezione derogatoria, in chiave meramente agevolativa, a regime strutturale per soggetti che ne sono destinatari.
Tale intervento, se preso in considerazione isolatamente, sembra perseguire le finalità che si sono menzionate sopra e che possono essere riassunte in un generale obiettivo di efficienza fiscale. Se si adotta invece una visione d’insieme, si può notare come esso vada a minare in misura significativa l’equità verticale e orizzontale dell’imposizione.
Sul piano verticale, sussiste un’evidente distorsione all’interno dello stesso regime forfettario, in quanto omette di differenziare tra redditi – anche in misura significativa – di diverso ammontare. Ancora più evidente è la distorsione presente sul piano orizzontale, sussistendo un doppio sistema di tassazione sui redditi differenziato per tipologia, forma giuridica e dimensione, che finisce per ridurre la base imponibile ai fini IRPEF.
Ora, se è vero che la Costituzione non impone una tassazione uniforme con criteri identici, essa esige un indefettibile raccordo con la capacità contributiva in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza (v., per tutte, Corte cost., ord. 24 luglio 2000, n. 341).
Secondo gli orientamenti costantemente seguiti dalla Corte costituzionale non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza, purché ogni diversificazione per aree economiche o per tipologia di contribuenti sia supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione diviene arbitraria discriminazione (in questi termini Corte cost., sent. 11 febbraio 2015, n. 10; per un commento vedasi, tra gli altri, Marcheselli A., La incostituzionalità “retroattiva” della “robin tax”: tra violazione dei diritti fondamentali, giurisprudenza evolutiva e conflitti giurisdizionali, in GT –Riv. giur. trib., 2015, 7, 619 ss.).
Nel caso di specie, i marcati tratti distintivi del lavoro liberale rispetto al lavoro dipendente sono certo incontestabili: potrebbe, in particolare, farsi riferimento alla più debole tutela previdenziale e assistenziale che il sistema pubblico offre ad autonomi e imprenditori, all’instabilità del relativo rapporto di lavoro, che non assicura redditi costanti nel tempo; al rischio economico cui essi sono esposti, specie in periodi di crisi. Da questo angolo visuale, in effetti la Consulta (con la pronuncia Corte cost. 23 dicembre 2019, n. 288) ha affermato che il vaglio di legittimità rispetto ad un trattamento tributario differenziato vada effettuato tenendo conto del contesto ordinamentale entro cui esso si inserisce (più diffusamente sul punto, Farri F., Spunti di riflessione in tema di riforma dell’imposizione sul reddito e principi costituzionali, in Riv. tel. dir. trib., 2021, 1, VIII, 270 ss.). Pur tuttavia, è difficile sostenere su basi razionali che, a parità di quantum, il reddito di un lavoratore dipendente esprima una maggiore capacità di contribuzione alle spese pubbliche rispetto a quello di un lavoratore liberale: seguendo l’insegnamento del Giudice delle leggi, infatti, la discriminazione qualitativa dei redditi non implica soltanto che le rispettive fonti di produzione siano diverse, ma richiede che a questa diversità corrisponda una peculiare e differenziata capacità contributiva, propria dei redditi incisi rispetto ai redditi esclusi dal tributo, a parità di ammontare della base imponibile (cfr. Corte cost., sent. 26 marzo1980, n. 42).
La discriminazione qualitativa attuata non pare, insomma, una differenziazione tradizionale e ponderata, non evincendosi alcuna compiuta riflessione circa la ratio della stessa. La problematica evidenziata costituisce solamente la punta dell’iceberg, posto che l’imposta personale progressiva è oggi applicata unicamente su salari e pensioni, e accanto ad essa convivono una serie sterminata di imposte cedolari e sostitutive (come, fra le altre, la c.d. cedolare secca sulle locazioni immobiliari, la tassazione delle plusvalenze mobiliari, la tassazione sugli interessi e degli altri proventi derivanti dall’impiego di capitale. Per approfondimenti, v., per tutti, Stevanato D., Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax, Bologna, 2016).
Anche prescindendo da ragioni più o meno condivisibili dal punto di vista teorico-pratico, la strada del riassorbimento delle varie imposte cedolari all’interno del reddito complessivo sembra lastricata da ragioni di stampo politico-elettorale difficilmente superabili.
E la direzione intrapresa con il DDL di riforma fiscale approvato dal Consiglio dei ministri il 16 marzo 2023 non sembra – pur se condivisibile sotto molteplici punti di vista – aver preso nella giusta considerazione il problema costituito dall’erosione della base imponibile IRPEF, prevedendosi addirittura nuovi regimi sostitutivi, come la c.d. flat tax incrementale (già introdotta, peraltro, temporaneamente per le persone fisiche imprenditori individuali o lavoratori autonomi dalla stessa Legge di bilancio 2023).
È, tuttavia, troppo presto per trarre delle conclusioni ala riguardo, essendo presenti nel DDL numerose disposizioni sostanzialmente in “bianco”, contenenti “principi e criteri direttivi” così vaghi da far dubitare del rispetto dell’art. 76 Cost., specialmente se interpretato alla luce dell’art. 23 Cost. (cfr. Giovannini A., Noterelle su deleghe in bianco e Costituzione, in Riv. tel. dir. trib., 18 maggio 2023).
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Farri F., Spunti di riflessione in tema di riforma dell’imposizione sul reddito e principi costituzionali, in Riv. tel. dir. trib., 2021, 1, VIII, 270 ss.
Giovannini A., Noterelle su deleghe in bianco e Costituzione, in Riv. tel. dir. trib., 18 maggio 2023
Marcheselli A., La incostituzionalità “retroattiva” della “robin tax”: tra violazione dei diritti fondamentali, giurisprudenza evolutiva e conflitti giurisdizionali, in GT –Riv. giur. trib., 2015, 7, 619 ss.
Mondini A., La frammentazione fiscale del lavoro autonomo nei regimi impositivi del suo reddito, in Rivista nuova di Diritto del Lavoro, 2021, 4
Stevanato D., Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax, Bologna, 2016
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