EDITORIALE – L’onere impositivo “à la carte” e il concordato biennale
Di Alessandro Giovannini
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I. Il concordato preventivo: novità qualificante della riforma. – II. Il consenso all’imposizione nell’economia comportamentale fra democrazia e sostanziale e democrazia procedimentale. – III. La capacità contributiva effettiva e la determinazione ex ante della ricchezza. – IV. La standardizzazione del reddito e la sua immodificabilità. – V. La determinazione consensuale del reddito e l’onere impositivo à la carte. – VI. La revisione del reddito convenuto e l’adeguamento tendenziale all’effettività: l’“arrotondamento” delle lance dell’incostituzionalità
I. La legge delega n. 111 del 2023 sulla revisione del sistema fiscale contiene molte previsioni di sistemazione o manutenzione dell’esistente, aggiustamenti ispirati al diritto unionale, alla giurisprudenza delle Corti internazionali o delle nostre Corti superiori, oppure revisioni tecniche, regole secondarie rispetto alla struttura del sistema. Niente di rivoluzionario, ma di sistemazione, appunto.
Altre disposizioni, invece, hanno caratteristiche strutturali, di “sistematizzazione”. Fra queste vi è l’art. 17, comma 1, n. 2), sul concordato preventivo biennale, punto qualificante di novità, almeno nelle intenzioni, anche per il contrasto all’evasione. In realtà, nel nocciolo, è un istituito dalle radici antiche, che ha i suoi precedenti nel sistema anteriore alla grande riforma degli anni settanta del secolo scorso e che era già stato (ri)proposto alcuni lustri or sono da governi diversi dall’attuale (Berlusconi I e II). Sebbene, come detto, dalle radici antiche, nella legge delega brilla ugualmente per le sue caratteristiche e per i riflessi che è in grado di produrre sul versante dei procedimenti dichiarativo e d’accertamento, e poi, ma primariamente, sul piano costituzionale.
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II. Nel passato mi sono occupato a più riprese della determinazione anticipata della ricchezza (inizialmente ne Il re fisco è nudo, II ed., Milano, 2016], ritenendo che questo modo di “accertamento” – nel significato che Angelo Falzea ha mirabilmente dato a questo concetto giuridico – possa contribuire alla formazione del consenso all’imposizione.
Ero e rimango convinto, infatti, che la scelta di potenziare la fase del confronto fra autorità e contribuente prima dell’inizio del periodo d’imposta sia un viatico adeguato per rafforzare la democrazia sostanziale dell’imposizione, oggi digradata a democrazia meramente procedurale. Occorre invero ammettere, senza inutili giochi di parole, che l’art. 23 della Costituzione e il motto no taxation without rappresentation ad esso sotteso sono ormai ridotti a simulacri della rappresentatività, erosi da uno svuotamento lento ma costante delle prerogative parlamentari e delle intelaiature politiche intermedie.
D’altra parte, anche gli studi più recenti di economia comportamentale e quelli sull’applicazione delle neuroscienze all’economia, indicano la necessità di valorizzare gli strumenti di condivisione delle scelte così da rendere accettabili gli obblighi di natura economica (Kahneman e Tversky, Schmidt, Thaler e Sunstein, Angner, Balconi). Non soltanto o tanto coercizione, quanto, come ho scritto anche recentemente (Evasione, equità e consenso fra Antigone e Creonte, in Rass. trib., 2023), condivisione della tassazione nella logica propria all’azione umana, da intendere alla stregua di cooperazione consensuale all’altrui bene, come ha ben spiegato Lorenzo Infantino nel solco della scuola austriaca.
Credo fermamente, infatti, che il principale fattore in grado di garantire su larga scala il rispetto del dovere politico di contribuzione sia proprio il consenso, compreso quello anticipato, non la coercizione, giocoforza ex post e giocoforza limitata.
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III. Tutto bene, allora? Molto dipenderà da come il concordato sarà tradotto normativamente. E’ su questo terreno che si giocherà la partita della sua conformità all’art. 53, comma 1, della Carta (con note agre, Gallo, Nel concordato rischio di condono preventivo, in Il Sole 24Ore, 14 ottobre 2023; Mastroiacovo, Procedimenti accertativi e nuovo rapporto tra fisco e contribuente nella legge delega di riforma tributaria, in Rass. trib, 2023, 479 ss.).
In punto costituzionale il discorso è complesso. Proviamo a fare un passo alla volta. Non v’è dubbio che lo strumento, pur convincente, come appena detto, sul piano della formazione del consenso all’imposizione, debba essere maneggiato con cura su quello della capacità contributiva. Infatti, se non regolamentato e sorvegliato con attenzione, per un verso può essere usato per “coprire” l’evasione: con un accordo su parametri standardizzati, il contribuente infedele potrebbe tentare di sottrarsi al dovere contributivo legato ad una rappresentazione reale del suo reddito, sicché e paradossalmente l’accordo potrebbe essere scelto, proprio, da chi ha più interesse a nascondere la sua reale capacità. Per un altro verso e specularmente, esso si potrebbe porre in contrasto con l“effettività” della capacità contributiva quale requisito strutturale del principio costituzionale.
Il nuovo metodo di determinazione del reddito, giacché anticipato rispetto alla sua realizzazione e al suo possesso (art. 1, d.P.R. n. 917 del 1986), comporta invero uno “slittamento” dei piani ricostruttivi: per la tassazione viene in considerazione non più l’ammontare della ricchezza prodotta al temine di un periodo dato, ma quella desumibile da previsioni di ipotetica normalità,.
L’anticipazione temporale della determinazione del presupposto non è soltanto una semplice modifica procedimentale, ma porta con sé mutamenti sostanziali o almeno il rischio che mutamenti sostanziali possano intervenire nella nozione stessa di presupposto.
Ma vi è di più ed è il profilo che può diventare il vero tallone d”Achille dell’istituto: all’accordo non si accompagna – almeno così sembra, stando alla legge delega – la possibilità di rivederne il contenuto, e ciò vuoi che il reddito effettivo sia superiore a quello convenuto, vuoi che sia inferiore. Nella fisiologia del rapporto, quindi, è palese il rischio che l’imposizione possa avere una base almeno parzialmente fittizia (ex pluris, Corte Cost., n. 179 del 1986, n. 42 del 1980, n. 431 del 1987, n. 283 del 1987, n. 103 del 1991).
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IV. Standardizzazione e immodificabilità sono aspetti strettamente legati, anzi si può dire che in tanto si ha “standardizzazione” in quanto l’ammontare convenuto del reddito non è modificabile nel corso o al termine del biennio, ma qui, per il momento, è bene tenerli separati. Quanto al primo, la legge n. 111 collega l’operatività del nuovo regime sia all’uso della banche dati a disposizione dell’Agenzia delle entrate, sia alla “cessione” da parte dei contribuenti di dati veritieri – si prevede che dichiarazione e contabilità non attendibili siano causa di decadenza – rivolti ad alimentare gli stessi sistemi informatici, così da raggiungere elevati livelli di verosimiglianza degli standard da proporre ai singoli contribuenti (Mastroiacovo, op. cit).
Per poco che si rifletta, un siffatto meccanismo non è però configurabile come equivalente alla determinazione ex post del presupposto. Infatti, da un lato i dati desumibili dalle dichiarazioni annuali, seppure raccolti su impulso del contribuente, diverranno utilizzabili solo per gli accordi successivi; da un altro, l’accordo in fieri, per così dire, non può che basarsi su dati, per quanto finemente elaborati, giocoforza sganciati dagli accadimenti reali rinvenibili negli anni di validità dell’accordo stesso.
Intendiamoci, il fatto che si prefiguri un vestito cucito appositamente sul singolo contribuente non è irrilevante in punto costituzionale, ma anche ad ammettere che si riesca in una consimile opera per milioni di imprenditori e lavoratori autonomi, questo vestito non consente ancora di equiparare l’accertamento consensuale ex ante a quello dichiarativo ex post.
Gli accadimenti reali successivi all’accordo, ed eccoci al secondo corno della questione, sono (o sarebbero) del tutto ininfluenti nello svolgimento del procedimento d’imposta e del rapporto obbligatorio, giacché, come detto, la quantificazione antecedente non è (o non sarebbe) modificabile né a vantaggio, né a svantaggio del soggetto passivo (a meno che l’amministrazione non rilevi violazioni a tal punto gravi da rendere inattendibili la dichiarazione e l’apparato contabile, ma si tratta, è evidente, di ipotesi eccezionali e non ricorrenti).
Ora, se quello descritto dovesse diventare il modello a regime, i tradizionali difetti di legittimità collegati alla standardizzazione del reddito si acuirebbero, proprio, in ragione dell’immodificabilità nel tempo della sua quantificazione.
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V. Si potrebbe replicare che il concordato non sarebbe obbligatorio e che, dunque, le conseguenze da esso derivanti, a favore o a sfavore del contribuente, scaturirebbero pur sempre da una manifestazione di volontà.
Anche ad ipotizzare pienezza ed effettività della libertà di scelta, un’argomentazione siffatta non sarebbe convincente. Ed infatti, l’idea che l’onere impositivo possa derivare da un mero calcolo di convenienza contrasta sia con il principio di uguaglianza sostanziale, sia con quello di solidarietà, che non possono tollerare un onere impositivo “a là carte”, onere, per di più, che potrebbe essere scelto in un ventaglio di regimi agevolati già in vigore.
Quei princìpi pretendono, piuttosto, che ognuno sostenga l’onere in ragione della sua reale capacità e che, a parità di questa, sia da tutti sopportato in maniera identica, salve differenziazioni legate a specifiche qualità dei contribuenti, condizioni o modalità di produzione della ricchezza, destinazione della stessa e via dicendo. La diversità di onere commisurata all’ammontare del presupposto può bensì albergare nel sistema, ma a condizione che risponda ad interessi costituzionalmente qualificati. Intendiamoci, non necessariamente si deve trattare di agevolazioni in senso proprio o di spese fiscali: la diversità di onere a parità di reddito può anche discendere da un regime ordinario di tassazione introdotto per la tutela di settori economici reputati meritevoli di un autonomo sistema di imposizione. È il caso, ad esempio, dell’impresa sociale che in funzione della destinazione altruistica degli utili e delle finalità perseguite dall’attività, pur commerciale, gode di un sistema di tassazione suo proprio, ordinario e a sé stante.
Il meccanismo del concordato preventivo, però, non si lega a caratteristiche strutturali dei settori economici di riferimento o ad interessi costituzionalmente rilevanti a questi riportabili. La speciale procedura si pone, puramente e semplicemente, in deroga a quella ordinaria.
Come detto, infatti, alla standardizzazione e anticipazione della quantificazione del presupposto si aggiunge la sua fissità temporale, indipendentemente dalle condizioni che la realtà contributiva del singolo può concretamente manifestare. Con il che si potrebbe aprire un vulnus costituzionale dal punto vista, proprio, dell’“effettività”
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VI. La domanda, a questo punto, è se vi possa essere un meccanismo in grado di superare o almeno attenuare lo iato costituzionale appena evidenziato.
La strada potrebbe essere quella di consentire un adeguamento del presupposto in corso o al termine del periodo di validità del concordato su richiesta del contribuente oppure su impulso dell’amministrazione in presenza di specifici e significativi eventi.
Due potrebbero essere le normazioni dalle quali prendere spunto, non foss’altro perché, pur nella specificità dei settori di riferimento, testimoniano l’esigenza – da sempre avvertita – di avvicinare il più possibile il reddito “normale” o quello convenuto al reddito effettivo.
Il primo è il sistema catastale. Per gli artt. 30, 34 e 25 del Testo unico delle imposte sui redditi, le variazioni in diminuzione del reddito dominicale e di quello agrario determinate da circostanze oggettive hanno effetto dall’anno in corso al momento della denuncia del contribuente.
Il secondo spunto è offerto dalla legislazione sull’accertamento con adesione. Per l’art. 2, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 218 del 1997, l’amministrazione può rivedere il contenuto dell’atto di adesione se sopraggiungono “nuovi elementi” che determinano un reddito ulteriore, superiore ad un ammontare prestabilito dalla legge.
Benché, lo ripeto, siano previsioni specifiche, la loro ratio potrebbe orientare la ricerca di soluzioni adeguate al concordato. Per “arrotondare” le lance dell’incostituzionalità, infatti, quel che occorre garantire è almeno la possibilità per il contribuente di domandare la revisione dell’accordo se sopraggiungono eventi determinanti la riduzione del reddito prodotto rispetto a quello “normale”, e al tempo stesso la possibilità per l’amministrazione di rivederlo sulla base di elementi sconosciuti al momento della proposta, elementi ulteriori e diversi, ovviamente, da quelli che già possono determinare la decadenza dal regime concordatario.
Soluzioni, queste, che forse potrebbero allentare la morsa dell’incostituzionalità, ma che, di certo, non consentirebbero di dare razionalità e coerenza al sistema valutato nella sua completezza. A là carte si ordina un buon cibo, non si sceglie, fra regimi alternativi, quello che determina un minore onere impositivo. Almeno così dovrebbe essere se fosse “ogni cosa al suo posto”, per riprendere il titolo di un recente libro di Massimo Luciani.
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