La tela di Penelope delle riforme fiscali, tra Giustizia e legge delega: epicedio della certezza del diritto? (Parte prima)

Di Francesco Tundo -

Abstract

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 costituisce uno dei punti di forza della riforma della giustizia tributaria del 2022. Si tratta di una disposizione preziosissima per il nuovo assetto del processo: introduce una regola generale destinata ad imprimere una svolta alle dinamiche processuali ed enfatizza il potere del giudice, per via di una maggiore incisività nel sindacato dell’azione amministrativa, concorrendo alla percezione di una sua maggiore terzietà. Ma non si tratta solo di questo perché è destinata a riverberare i suoi effetti, anche indirettamente, su tutta la parabola dell’attuazione del tributo, sin dal momento dell’istruttoria procedimentale dell’Amministrazione finanziaria. Senonché con l’approvazione della Legge delega per la riforma tributaria il legislatore ha adottato anche alcune disposizioni che, se saranno attuate, rischiano di determinare un vero e proprio intralcio al pieno dispiegamento degli effetti del nuovo comma 5-bis. Come Penelope, così, sembra voler disfare, in breve tempo, una trama preziosa, faticosamente tessuta.

Penelope’s shroud of tax reforms, between Justice and enabling law: epicede of legal certainty? (Part one). – The new paragraph 5-bis of Article 7 of Legislative Decree No. 546 of 1992 is one of the highlights of the 2022 Tax Justice Reform. It is an invaluable provision for the new procedural framework: it introduces a general rule destined to mark a turning point in the processual dynamics and emphasizes the power of the judge, by way of a greater degree of scrutiny over administrative action, contributing to the perception of its greater neutrality. Moreover, it is bound to have spill-out effects over the entire trajectory of tax implementation, from the very moment of the tax administration’s procedural investigation. However, with the approval of the enabling act for Tax reform, the legislator also adopted some provisions that, if enacted, are likely to result in a real hindrance to the full deployment of the effects of the new paragraph 5-bis. Thus, like Penelope, seemingly wanting to unravel, in a short time, a precious, laboriously woven thread.

 

 

 

 

Sommario: 1. Una riforma che concorre alla promozione della cultura della giurisdizione tributaria. – 2. La distribuzione dell’onere probatorio nel processo tributario riformato. – 2.1. Cenni ricognitivi sullo stato dell’arte ante riforma. – 2.2. Rivoluzione copernicana o fisiologica evoluzione? – 2.3. Prime reazioni “difensive” dello status quo e l’apertura delle Corti di Giustizia. – 2.4. Le molteplici implicazioni di una regola autoctona ed autosufficiente. – 3. La qualità della prova e un (più) rigoroso metro di giudizio del fatto incerto nel superamento delle presunzioni giurisprudenziali.

1. La riforma adottata con la L. n. 130/2022 si compone prevalentemente di una parte ordinamentale, i cui punti di forza e le cui criticità costituiscono un dato sostanzialmente acquisito[1], nonché di talune disposizioni attinenti al processo, fra cui spicca per portata, ambizioni e persino forza evocativa l’inserimento del comma 5-bis nell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992. È noto come tale previsione abbia in breve tempo polarizzato dottrina e giurisprudenza, per la moltitudine e complessità di problematiche che pone innanzi all’interprete. Anticipo subito che, nonostante la formulazione letterale adoperata dal legislatore sia stata oggetto di numerose critiche, non mi sento di aderire pienamente ad esse e ritengo anzi che si tratti di una disposizione preziosissima per l’assetto processuale riformato. Appare infatti evidente che essa enfatizza il potere del giudice tributario, irrobustendone le attribuzioni per via di una maggiore incisività nel sindacato dell’azione amministrativa, e concorre alla percezione di una sua maggiore terzietà rispetto all’Amministrazione. In ragione dell’assonanza letterale con l’art. 530 c.p.p. (penso in particolare al secondo comma[2]), che non può essere ritenuta casuale, la nostra disposizione è suscettibile di importare… per “osmosi”, presso la nostra giurisdizione, la straordinaria cultura della prova che risiede nell’ambiente giuridico penale, così come la più avanzata accezione della parità delle parti nel processo. A ben vedere, dalla novella traspare il chiaro intento del legislatore di portare a compimento, sul versante del rito, una riforma che sul lato ordinamentale, nonostante i non trascurabili limiti, rimane indubbiamente di portata storica. Introduce infatti una regola generale destinata ad imprimere una svolta alle dinamiche processuali nella prospettiva di perseguire l’obiettivo di stabilizzazione e certezza del diritto e, quale effetto immediato, consente anche di porre un argine, in prospettiva garantista, a taluni indirizzi criticabili della giurisprudenza di legittimità e a scongiurarne la formazione in futuro. E’ assai significativo, in questo contesto, che si tratti di una disposizione che ha visto la luce genuinamente nelle Aule parlamentari, non essendo mai stata contemplata nei testi approntati dalle Commissioni interministeriali che sotto l’egida dei Ministeri competenti hanno lungamente lavorato, con alterne fortune, sulle bozze dei testi di riforma della Giustizia Tributaria[3].

E’ auspicabile, dunque, che la disposizione possa spiegare pienamente i suoi effetti, anche indirettamente, su tutta la parabola dell’attuazione del tributo: dal momento dell’istruttoria procedimentale dell’Amministrazione finanziaria, che dovrà debitamente essere rafforzata pena l’annullamento di contestazioni non più provate secondo il più alto standard richiesto dalla norma, al ruolo del giudice, assumendo anche la motivazione delle sentenze ancora maggiore importanza, vista la necessità di maneggiare una regola di giudizio specificamente prevista per il processo tributario.

Non è certamente un caso che tale intervento si inserisca in un più ampio quadro di irrobustimento ordinamentale della giustizia tributaria che passa (pur con tutti i limiti nella fase attuativa) attraverso l’attribuzione medio tempore di uno status professionale al giudice tributario e la maggiore enfasi riposta sulla prova e sulla sua qualità, esprimendo, così, anche un’esigenza di responsabilizzazione del giudicante, rafforzata dalla novella anche in punto di testimonianza scritta[4].

Senonchè, non si può sottacere l’ulteriore “sfida” che si porrà dinanzi ai giudici tributari nella parte in cui saranno altresì tenuti a leggere il comma 5-bis in combinato disposto con le eventuali disposizioni che saranno introdotte in attuazione della Legge delega di riforma tributaria, rilevanza allo stato impossibile da determinare con certezza. A tal proposito, il legislatore della riforma parrebbe anche voler intervenire in ordine alla relazione fra prova e motivazione; rapporto certamente problematico e che, beninteso, non può a mio giudizio trovare una soluzione nel solo comma 5-bis, trattandosi di una dinamica di natura procedimentale anziché processuale e sulla quale, dunque, la nostra novella non può operare direttamente[5]. Nell’opera di revisione dello Statuto dei diritti del contribuente, il legislatore delegato sarà tenuto a «rafforzare l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, anche mediante l’indicazione delle prove su cui si fonda la pretesa»[6]. Disposizione che, se introdotta dai decreti delegati, fungerebbe da essenziale puntello sul versante procedimentale al comma 5-bis e consegnerebbe al contribuente un’istruttoria rispettosa – almeno “sulla carta” – delle sue prerogative costituzionalmente tutelate.

Il condizionale però è d’obbligo. Occorre infatti considerare che con l’approvazione della Legge delega per la riforma tributaria (L. 9 agosto 2023, n. 111) il delegante ha adottato anche alcune disposizioni che, seppur dichiaratamente animate da omologo intento di perseguimento della certezza del diritto, nella sostanza rischiano purtroppo di determinare effetti contrapposti a quelli del comma 5-bis qui in esame, con particolare riferimento al superamento imposto, da quest’ultima disposizione, alle c.d. “presunzioni” di matrice giurisprudenziale[7].

Cercherò di dare conto di questa singolare contraddittorietà della condotta del legislatore, esaminandone le verosimili cause e le preoccupanti implicazioni.

2. Nell’ambito dell’indagine che mi accingo a svolgere, e per non dilatarne eccessivamente lo spettro, ritengo bastevole un solo accenno alla questione attinente all’efficacia intertemporale della novella, atteso che essa mi pare indubbiamente applicabile ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della riforma della Giustizia tributaria e dunque al 16 settembre 2022[8]. Anche la giurisprudenza di merito ha invero raggiunto la medesima conclusione, ragionando sulla natura di norma processuale del comma 5-bis e, dunque, dell’applicabilità del principio tempus regit actum[9].

Non altrettanto corale è l’opinione su quale sia, più a monte, la valenza propria della novella, né i suoi rapporti con l’art. 2697 c.c. (così come la sorte della rilevanza di quest’ultima disposizione nel processo tributario), nella parte in cui il comma 5-bis introduce (o, secondo alcuni, parrebbe introdurre) una norma speciale in materia di distribuzione dell’onere probatorio. Alcune brevi notazioni in ordine allo stato dell’arte precedente al comma 5-bis mi consentono di affrontarne le possibili – e, per certi aspetti, dirompenti – ricadute in parte qua. Nel tempo, la questione è stata infatti oggetto di un percorso evolutivo che potremmo definire… tortuoso, avendo conosciuto passaggi di indubbio progresso ai quali si sono tuttavia affiancate, nel corso del tempo, alcune… sbandate, tanto ad opera del legislatore quanto (soprattutto) della giurisprudenza di legittimità – sulle quali tornerò al paragrafo che segue – ed il cui superamento ritengo costituisca il più efficace “bersaglio” della riforma, nei termini in cui avrò modo di dire.

2.1. Il dato di partenza è costituito dall’iniziale distacco dalla presunzione di legittimità degli atti tributari che caratterizzava l’ancestrale posizione della giurisprudenza in materia[10], sulla base del noto insegnamento alloriano secondo il quale l’Amministrazione è tenuta a procurare anzitutto a sé stessa la prova dei fatti che determinano la sua potestà a dar vita all’atto impositivo[11]. Sulla scorta di tale impostazione, e nell’assenza di una disposizione generale sull’onere probatorio nell’ambito del processo tributario, la giurisprudenza di legittimità aveva ricondotto la materia nell’alveo dell’art. 2697 c.c.[12], secondo il quale, come noto, all’attore compete la prova dei fatti costitutivi della pretesa, mentre al convenuto quella dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi della stessa (onus probandi incumbit ei qui dicit). Sul punto può essere significativo ricordare che, secondo la Corte costituzionale, l’onere della prova si pone come presidio «dell’essenziale funzione del processo e della terzietà del giudice», strutturato, nel processo tributario, a prescindere dalla posizione formale di attore o convenuto, dovendo piuttosto «modellarsi sulla struttura del rapporto giuridico formalizzato, in esito al procedimento amministrativo, nel provvedimento impositivo»[13]. In tale prospettiva, l’Amministrazione finanziaria è da tempo riguardata come attore sostanziale del processo tributario (anche se non sempre da tale qualificazione si sono poi fatte discendere, in giurisprudenza, conclusioni pienamente soddisfacenti), dovendo essa provare i fatti costitutivi della pretesa ed essendo per converso il contribuente a dover offrire la prova di eventuali fatti impeditivi, estintivi o modificativi[14].

Ciò detto, l’adozione dei canoni processualcivilistici dell’art. 2697 c.c. ha trascinato con sé alcuni problemi conseguenti alla difficoltà di raggiungere una uniformità di vedute sulla qualificazione di fatti costitutivi e fatti impeditivi o estintivi della fattispecie nella peculiare materia tributaria, questione perfettamente esemplificata dalla vexata quaestio attinente, nell’ambito del reddito d’impresa, all’onere della prova in materia di deducibilità ed inerenza dei costi. Pur nella consapevolezza di non trovare un consenso unanime, dico subito che, a mio parere, i costi non possono che rientrare a tutti gli effetti fra i fatti costitutivi della fattispecie, essendo il reddito d’impresa determinato per differenza tra componenti positivi e negativi, che ne costituiscono parimenti parte determinante: pertanto, già nella prospettiva dell’art. 2697 c.c. ricadrebbe sull’Amministrazione anche l’onere della prova in merito all’eventuale indeducibilità degli stessi[15]. Ritengo anche che non possa condividersi la tesi che la prova circa la deducibilità ricada in capo al contribuente sostenuta da chi ha valorizzato la presenza di specifici oneri documentali in carico ad esso[16] o ha adottato come ottica quella della base imponibile, nella quale i componenti negativi si pongono alla stregua di fatti estintivi o modificativi di quelli positivi[17]. A mio giudizio tali impostazioni svalutano la natura dei costi quali componenti ontologicamente preordinati alla produzione di quei ricavi (e quindi del reddito) sui quali pure ricade pacificamente l’onere probatorio dell’Amministrazione. Intendo dire che mi pare opinabile ritenere i ricavi alla stregua di un fatto costitutivo del reddito e i costi invece un fatto impeditivo, quando questi ultimi (rectius: i fattori produttivi che essi consentono di acquisire) sono a ben vedere strumentali alla produzione dello stesso reddito tanto quanto i ricavi… se non addirittura più di essi. Per non dire poi dell’illogicità di una simile divaricazione a fronte dell’unitarietà del reddito, che nella prospettiva opposta risulta invece inspiegabilmente infranta in maniera artificiosa; fenomeno che, a mio giudizio, è tanto più criticabile se si tengono in considerazione i connotati strutturali del reddito d’impresa, tra i quali hanno pieno titolo di essere annoverati anche i costi deducibili, come confermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 262/2020[18].

La giurisprudenza di legittimità, d’altro canto, è stata maggiormente univoca nel ricondurre nel novero dei fatti impeditivi – gravanti, nell’ottica dell’art. 2697 c.c., sul contribuente – i requisiti richiesti dalla normativa tributaria per la deducibilità dei costi[19]. Nella stessa direzione si è ormai pacificamente attestata la giurisprudenza di legittimità in materia di agevolazioni, che addossa al contribuente l’onere di provare i fatti costitutivi del beneficio[20].

Su queste basi si sono poi innestati ulteriori sviluppi derivanti, in maniera estremamente schematica, da presunzioni (assolute e relative) di matrice legislativa e dall’opera della giurisprudenza, che a sua volta ha dato vita ad un reticolo di “presunzioni” – appunto – giurisprudenziali – come la celeberrima di distribuzione di utili in caso di società a ristretta base sociale[21] (ma non si tratta solo di questa, evidentemente) – e ha innervato anche nella materia tributaria il criterio, ancora una volta di matrice civilistica, della c.d. vicinanza alla prova[22]. Principio, quest’ultimo, di fatto strumentalizzato per addossare al contribuente l’onere probatorio in nome di una pretesa esigenza (ormai del tutto anacronistica, invero) di riequilibrare un presunto sbilanciamento fra le parti del processo[23].

2.2. Il fatto certo è che, a prescindere dall’opzione che si ritiene preferibile nel contesto ante riforma, appare evidente che buona parte delle problematiche sinora emerse si correla alle complessità che conseguono all’innesto dell’art. 2697 c.c. nella materia processuale tributaria e dal voler calare, nella vicenda fiscale, il binomio fatto costitutivo/impeditivo. Così che se si dovesse ritenere l’art. 2697 c.c. superato dal comma 5-bis andrebbero ripensati molti degli approdi sinora raggiunti. Credo francamente che proprio tale conclusione sia quella preferibile, dovendosi ritenere che il legislatore abbia proprio inteso sgombrare il campo da tutti gli equivoci e le forzature conseguenti al trapianto dei canoni processualcivilistici nel nostro ambito, dei quali ho fatto un (forse fin troppo) sintetico riepilogo al paragrafo che precede.

Principiando l’esame dalla lettera della norma, quest’ultima precisa, da un lato, che «[l’]amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato» e, dall’altro, che «[s]petta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso». È chiaro che si tratta di una formulazione per certi versi ambigua: l’esplicito distinguo fra liti di rimborso e liti avverso atti impositivi potrebbe far propendere per la tesi maggiormente conservativa, che vede il comma 5-bis riprodurre i medesimi criteri già trapiantati nel processo tributario tramite l’art. 2697 c.c. Argomento, in effetti, che è sostenuto da parte della dottrina, secondo la quale anche la novella non farebbe altro che riprodurre la distinzione fra fatti costitutivi e impeditivi, limitandosi semplicemente a “tradurla” nel linguaggio del processo tributario[24]. Letta in tale ottica, la riforma sarebbe pertanto priva di un quid novi e ininfluente rispetto all’assetto previgente, ad esempio in materia di deducibilità dei costi, la cui prova resterebbe pertanto in capo al contribuente. Mi sembra però, questo, un approdo che, da un lato, è ingeneroso verso il disegno di riforma complessivo della L. n. 130/2022 e che, dall’altro, è in contrasto con il noto argomento teleologico che vede il legislatore sempre dotato di fini, che anche in questo caso sono palesi e da ricondurre alla prospettiva di vera e propria emancipazione del processo e della giurisdizione tributari nel contesto generale di un più ampio impianto garantista della riforma del 2022, che vede nella c.d. “professionalizzazione” del giudice una dei profili di questo ampio progetto e, il comma 5-bis l’altro, sul versante del rito.

In quest’ottica, ritengo convincente il riconoscimento alla novella di una notevole apertura innovatrice, come non ha mancato di evidenziare altra parte della dottrina[25]. Una prospettiva che ritengo preferibile per svariate ragioni, a partire dalla considerazione del dettato letterale che, nell’addossare all’Amministrazione la prova delle «violazioni contestate con l’atto impugnato», è davvero inequivoca nel superare nettamente la dicotomia fra fatti costitutivi e impeditivi/modificativi/estintivi sulla quale si fonda invece l’art. 2697 c.c.

Voglio dire che la norma, così formulata, è capace di tener conto della specialità della materia e del processo tributari, spostando l’attenzione non già, di volta in volta, sulla singola fattispecie oggetto di prova – con tutte le problematiche che ne derivano in ordine all’identificazione e ripartizione dei fatti costitutivi e impeditivi – bensì sul fatto che è l’Amministrazione a farsi necessariamente attrice del procedimento di accertamento, che culmina nell’atto impositivo, “veicolo” del singolo rilievo. In altri termini, volendo ancora ragionare secondo vecchie logiche, ormai comunque sorpassate dal legislatore, la disposizione porta finalmente alle logiche conseguenze la natura di “attore sostanziale” dell’Amministrazione senza più la necessità di artifici retorici – e fatta eccezione per le liti di rimborso – dovendosi ritenere pertanto superate tutte le eccezioni (giuste o sbagliate che fossero ante riforma) che pretendevano invece che fosse il contribuente a farsi carico dell’onere probatorio anche a fronte di rilievi contestati dall’Erario.

È proprio il superamento dell’art. 2697 c.c. con le conseguenze da ciò derivanti a giustificare il riferimento alla novella fatto dalla dottrina come “rivoluzione copernicana”[26], che si concretizza, tra l’altro, nel definitivo superamento di qualsiasi possibilità di addossare al contribuente l’onere probatorio in materia di deducibilità dei costi. Lo stesso dicasi per le contestazioni in materia di agevolazioni: si tratta, anche in questo caso, di veri e propri rilievi che vengono veicolati mediante l’atto impositivo e che, rientrando nel perimetro del comma 5-bis, dovranno essere puntualmente oggetto di dimostrazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

E’ mia opinione tuttavia che, più che di rivoluzione copernicana, locuzione che fa presagire una netta soluzione di continuità rispetto al passato, una possibile forzatura rispetto ad assetti consolidati e dunque il rischio che con questi ultimi la novella rischi di entrare in una frizione delle conseguenze imprevedibili, nel nostro caso il quid novi apportato dal comma 5-bis meriti più propriamente di essere collocato (sul coté del rito processuale) nel solco dell’evoluzione del generale assetto della giurisdizione assicurato dalla L. n. 130/2022, che sul piano ordinamentale sottende il definitivo consolidamento della natura di giurisdizione speciale della Giustizia tributaria e dunque l’emancipazione anche dalle improprie ibridazioni nel rito che sono state talvolta (solo) un utile pretesto (per quanto sofisticato) per (una parte del)la giurisprudenza, per far prevalere un malinteso interesse fiscale.

2.3. Costituisce ovviamente un campanello d’allarme – per quanto, more solito, non del tutto sorprendente – la primissima reazione della Suprema Corte, pronunciatasi con un obiter dictum nell’ordinanza n. 31878 del 27 ottobre 2022[27], in materia di operazioni soggettivamente inesistenti e onere della prova. Sebbene la Corte abbia affrontato la questione, come ho detto, soltanto incidentalmente, la soluzione raggiunta non sembra lasciare spazio a dubbi in seno al massimo consesso, se non volendola considerare alla stregua di un frettoloso lapsus calami: la Cassazione si limita infatti ad affermare che la nuova formulazione legislativa «non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale». Reazione, peraltro, che ha trovato ulteriore conferma in una successiva pronuncia della Corte che ha ribadito il medesimo approdo interpretativo[28].

La reazione della Cassazione, come dicevo, non sorprende del tutto, ed è verosimilmente correlata non solo alla natura della Corte di giudice di legittimità, “distante” dal merito dell’istruttoria, ma anche al fatto che dalla disattivazione della portata innovativa del comma 5-bis passa la conservazione dello status quo in materia di onere probatorio e, conseguentemente, di tutte quelle posizioni giurisprudenziali cui ho fatto cenno, e di cui meglio dirò nei paragrafi successivi, che invece sono destinate ad essere definitivamente accantonate con l’attribuzione alla novella, come invece ritengo corretto, di una valenza esattamente opposta: mi riferisco prevalentemente all’elaborazione delle “presunzioni giurisprudenziali”, sulle quali tornerò a breve. A meno di non voler ritenere, come dicevo, questa affermazione della Corte come un temporaneo abbaglio annesso alla natura di obiter del passaggio in esame. E certamente a tal proposito depone l’apparentemente inspiegabile riferimento, da parte della Corte, ad un asserito rafforzamento ad opera della riforma della “istruttoria dibattimentale”, con un richiamo a dinamiche del processo penale che da sempre sono del tutto estranee all’impianto del giudizio tributario, cosa del resto notissima a tutti.

In ogni caso, a fronte di questo quadro di quello che pare essere un vero e proprio “riflesso condizionato” della Corte di Cassazione alle sollecitazioni del legislatore – e che parrebbe un ennesimo episodio della inesausta contesa fra legislatore e giurisprudenza di legittimità[29] – appaiono ben più promettenti le prime pronunce delle Corti di Giustizia tributarie, avendo i giudici di merito invece colto con scrupolo la serietà della novella e preso coscienza delle sue implicazioni.

Rinviando a quanto dirò infra per ciò che concerne le ricadute del comma 5-bis in materia di presunzioni giurisprudenziali – altro tema sul quale si registrano, come dirò più avanti, altre condivisibili prese di posizione da parte delle Corti di Giustizia tributarie – le Corti di merito hanno, ad esempio, avuto modo di pronunciarsi con riferimento all’onere della prova in materia di agevolazioni. In materia di recupero di un credito di ricerca e sviluppo, e a fronte del tradizionale orientamento della Corte di Cassazione, si è così sostenuto che «non può […] non tenersi conto della modifica introdotta dalla Legge n. 130/2022 del 31 agosto 2022 che ha inserito, all’articolo 7 del DLgs. n. 546/92 il comma 5-bis» in relazione al quale i giudici di merito osservano che «se l’Agenzia procede al recupero del credito d’imposta per ricerca e sviluppo […] contestando l’assenza dei requisiti richiesti dalla normativa di riferimento […] la contribuente deve dar prova della sussistenza di quei requisiti negati dall’A.F., spettando al Collegio la valutazione della fondatezza, della puntualità, della coerenza e della sufficienza degli elementi di prova addotti dall’una e dall’altra parte al fine di dimostrare la non spettanza dell’agevolazione o, viceversa, la sua conferma»[30]. Conclusione condivisibile, al netto di qualche incertezza nella formulazione della decisione, non potendosi sottacere una certa insicurezza, da parte del Collegio nel distinguere correttamente il confine fra motivazione del diniego e prova delle ragioni a fondamento dello stesso in capo all’Amministrazione.

Altra giurisprudenza è intervenuta in tema di classamento catastale, che già la dottrina aveva identificato come uno dei possibili ambiti di rilevanza nell’applicazione della novella, visto il criticabile orientamento della Corte di Cassazione che svalutava il momento dell’istruttoria a favore dell’Amministrazione[31]. La CGT di Reggio nell’Emilia ha quindi richiamato il comma 5-bis per stigmatizzare il modus operandi dell’Ufficio il quale non aveva dedotto «quali sarebbero gli elementi oggettivi carenti» nel classamento proposto dal contribuente[32].

Ancora, ritengo meritevole di richiamo la giurisprudenza che ha attribuito all’Ufficio l’onere della prova anche in materia di deducibilità delle componenti negative di reddito, essendosi condivisibilmente osservato che «la nuova disposizione sull’onere della prova introdotta dalla Legge n. 130 del 2022 consente senz’ombra di dubbio di superare questo equivoco, per cui anche per i componenti negativi di reddito l’onere probatorio non può che incombere sull’Amministrazione finanziaria»[33].

Più in generale, si registrano ormai pronunce delle Corti di Giustizia tributaria che applicano il comma 5-bis nelle più disparate fattispecie, stigmatizzando l’apparato probatorio addotto dall’Ufficio in casi di: doppia imposizione sugli utili societari[34], interposizione ex art. 37 D.P.R. n. 600/1973[35], qualifica come reddito di somme qualificate come finanziamento soci[36], accertamenti relativi all’attività del contribuente[37] e fatture per operazioni inesistenti[38].

2.4. Ulteriore problematica che si ricollega al riparto dell’onere probatorio – che qui potrò affrontare soltanto per sommi capi – è quella dell’eventuale sopravvivenza alla novella del canone della vicinanza della prova in materia tributaria. Anche in questo caso ritengo che sia decisiva la considerazione dell’intento della riforma, seppure il dibattito in dottrina non sia, per ora, giunto ad esiti concordi. Secondo una prima posizione la riforma avrebbe soltanto ridotto l’ambito di applicabilità di tale principio, circoscrivendone l’operatività alle (ormai remote, invero) fattispecie nelle quali l’Amministrazione riesca a provare l’impossibilità di acquisizione delle fonti di prova[39]. In una posizione simile si colloca chi enfatizza la rilevanza costituzionale ed europea del principio di vicinanza alla prova, prescindendo dunque dal superamento del canone di cui all’art. 2697 c.c. – conformandosi, secondo una particolare prospettazione, lo stesso comma 5-bis a tale criterio[40].

A fronte di tali preoccupazioni è a mio giudizio rilevante porsi, ancora una volta, nella prospettiva dello spirito che permea di sé il comma 5-bis e nuovamente, in senso più ampio, il contesto ordinamentale di intervento della riforma. Da un lato, infatti, la disposizione enuclea ora una regola autoctona ed autosufficiente nel processo tributario, in quanto tale impermeabile a possibili deroghe derivanti da un principio – come quello della vicinanza alla prova – di derivazione civilistica e conformato alle dinamiche di un differente ambito ordinamentale, nel quale è maggiormente coerente ricercare in talune ipotesi una parificazione delle posizioni delle parti, al fine di ricondurle ad equità.

D’altro canto (e soprattutto) quello della vicinanza alla prova costituisce ormai un canone che mal si adatta all’odierno contesto, vista l’ampiezza dell’apparato informativo di cui ormai dispone l’Amministrazione finanziaria per l’espletamento delle attività istruttorie e di accertamento – che verosimilmente sarà ulteriormente potenziato dall’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale, con scenari tanto indeterminati quanto non poco preoccupanti – non senza peraltro potersi escludere il rischio, connaturato all’adozione di un simile criterio, di una dinamica di “soccorso” da parte del giudice ad eventuali deficienze nell’attività degli Uffici, tale da distorcere la chiara natura dispositiva del processo tributario.

Dalla riforma del 2022 emerge semmai un intento che esclude qualsiasi necessità di “riequilibrio” della posizione dell’Amministrazione, avendo il legislatore disegnato un giudizio tributario nel quale ad essere potenziato non è il momento dell’istruttoria ex sé – che per forza di cose resta integralmente a carico dell’Amministrazione e che deve concludersi nella fase procedimentale – bensì quello della valutazione delle prove delle quali (già prima) si sia dotato l’Ufficio, rispetto al quale viene significativamente innalzato lo standard probatorio richiesto all’Erario. In tale prospettiva si può leggere il superamento del canone della vicinanza alla prova, opzione frutto di una precisa determinazione del legislatore, con un effetto – forse – di maggior rigidità nell’attribuzione dell’onere rispetto all’impianto precedente ma che indubbiamente deve essere stato voluto dal legislatore per porre termine a quei fenomeni di strumentalizzazione, a beneficio dell’Erario, ai quali si è potuto assistere negli ultimi tempi, paradossalmente in controtendenza rispetto all’ampliamento dello spettro dei poteri dell’Amministrazione che, fisiologicamente, avrebbe dovuto condurre all’effetto opposto. Ciò che non è accaduto nella giurisprudenza che si è via via formata e che così ha indotto il legislatore alla determinazione di un necessario riequilibrio sul piano processuale.

3. Come dicevo, il comma 5-bis non si limita a introdurre una norma – innovativa, per le ragioni e nei termini poc’anzi esposti – in materia di distribuzione dell’onere probatorio, ma va anche oltre, disponendo che il giudice «annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni». Il secondo periodo della disposizione ha così inserito anche una vera e propria regola riguardante la consistenza delle prove allegate dall’Amministrazione a fondamento della pretesa, con una formulazione altrettanto “speciale” per il processo tributario rispetto a quella oggetto del primo periodo; senonché, anche in questo caso, in dottrina si rinvengono articolate interpretazioni dell’effetto concreto apportato dalla novella.

Secondo una prima ricostruzione – che si pone in continuità con la già segnalata prospettiva conservatrice in relazione ai rapporti fra il comma 5-bis e l’art. 2697 c.c. – il legislatore avrebbe trapiantato nel processo tributario parte dell’art. 530, comma 2, c.p.p., nella parte in cui la disposizione reca il medesimo riferimento alla prova “assente”, “insufficiente” o “contraddittoria” (e fin qui si tratta di una posizione incontestabile); tale trapianto, tuttavia, sarebbe del tutto privo di utilità, in quanto sarebbe stato possibile giungere al medesimo risultato già tramite una piana applicazione dell’art. 2697 c.c.[41]. E questa conclusione, molto francamente, mi pare eccessivamente conservativa, perché svaluta ingiustamente l’intento innovatore della novella e quell’iniezione osmotica (l’ossimoro è voluto) delle espressioni lessicali del processo penale di cui ho detto al par. 1. Insomma, anche da questo punto di vista il legislatore ha inteso introdurre un criterio ad hoc in merito allo standard probatorio da raggiungere per la conferma della pretesa impositiva, come si evince da un raffronto fra la regola di giudizio di cui al comma 5-bis e quelle vigenti rispettivamente nel sistema processualcivilistico e in quello processualpenalistico. Quanto al primo, occorre richiamare l’art. 116 c.p.c. il quale, come noto, rimette la valutazione degli elementi probatori al “prudente apprezzamento” del giudicante, il quale può altresì desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno ex art. 117 c.p.c., dal loro rifiuto ingiustificato a consentire ispezioni da lui ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. Tale disposizione è espressione del libero convincimento del giudicante, essendo insindacabile, nel giudizio di legittimità, «l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» da parte del giudice di merito[42].

A me sembra che il comma 5-bis intervenga sostituendo una “valutazione rigorosa” al “prudente apprezzamento” di cui all’art. 116 c.p.c.; “rigorosa” richiedendo la norma, nella parte in cui fa riferimento a prove “circostanziate e puntuali”, un alto livello dimostrativo del corredo probatorio, esente da contraddizioni ed elementi meramente soggettivi[43]. E ciò seppure debba a mio parere condividersi la tesi di chi ha letto un temperamento a tale inciso, operato dal successivo richiamo alla “coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, che fa salve le peculiarità dell’impianto probatorio procedimentale tributario, compreso ad esempio l’utilizzo di presunzioni semplici, sulle quali tornerò a breve.

Come già ho anticipato in altra prospettiva, ritengo che altrettanto fecondo sia interpretare il comma 5-bis alla luce delle regole vigenti nel processo penale, cristallizzate agli artt. 533, comma 1 e 530, comma 2, c.p.p.; anche in quest’ottica traspare chiaramente l’intento di “monito” sotteso in maniera trasversale all’intervento normativo, potendosi ritenere che la novella abbia introdotto un grado di consistenza probatoria della fondatezza del credito erariale “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Pertanto, pur lasciando la norma intatto il principio del libero convincimento del giudice, si arriva così a ritenere che l’attendibilità ricostruttiva delle prove allegate dall’Ufficio dovrà essere assai alta e non lasciare margini di dubbio né sulla sua riferibilità soggettiva al contribuente né, tantomeno, sull’esistenza fenomenica del fatto oggetto di prova[44].

In definitiva, ritengo decisiva la valorizzazione di quello che ho definito lo spirito innovatore del comma 5-bis, che permea evidentemente tanto il nuovo onere probatorio quanto la “consistenza” della prova del fatto incerto; innovazione che pare evidente una volta che si cala tale requisito della prova nelle fattispecie concrete e poi nel campo delle presunzioni giurisprudenziali.

Non possono esserci dubbi circa l’estraneità della disposizione ai casi in cui l’ordinamento tributario presenta disposizioni speciali in materia di prova. Pensiamo ad esempio alle presunzioni legali, rientranti nell’inciso della “coerenza con la normativa tributaria sostanziale” come limite alla novella e dunque tuttora valide e operanti; fermo restando che, trattandosi di regole eccezionali tese a escludere qualsivoglia incertezza sul fatto oggetto della presunzione legale, queste andranno, anche alla luce del comma 5-bis, interpretate a maggior ragione in maniera rigorosa e circoscritta al loro esatto perimetro applicativo. Similmente, è a mio parere corretto ritenere che siano fatte salve le fattispecie ove è lo stesso legislatore a riconoscere la possibilità di ricorrere a presunzioni c.d. semplicissime, come ad esempio nelle ipotesi di accertamenti induttivi ex art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973 – ferma restando quella che a mio avviso è l’improcrastinabile necessità di una più ampia revisione dell’intero comparto normativo in materia di presunzioni, per molti versi ridondanti visti gli amplissimi poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, e ormai unicamente finalizzate a facilitare l’attività di accertamento, piuttosto che a sopperire a presunti deficit informativi.

Ritengo non possa escludersi nemmeno, verosimilmente, l’utilizzabilità anche nell’odierno contesto ordinamentale processuale delle presunzioni semplici, al ricorrere beninteso dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c. Quanto sopra visto che, in presenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla disposizione civilistica si raggiungerebbe un grado probatorio conforme a quello richiesto dal comma 5-bis, potendosi ritenere realizzato il fatto ignoto (e da provare) secondo la regola dell’id quod plerumque accipit e, dunque, della comune esperienza; non senza ricordare l’insegnamento della dottrina processualcivilistica che ha attribuito piena dignità anche alla prova presuntiva[45]. A mio giudizio il punto merita, tuttavia, alcune ulteriori precisazioni, pena il rischio di un ingiusto ridimensionamento della portata della novella; infatti, occorre enfatizzare – ancora una volta, nell’ottica di una comparazione col mondo processualpenalistico – l’innalzamento imposto dal comma 5-bis dello standard inferenziale fra fatto noto e fatto ignoto, dovendo il nesso causale porsi in termini di univocità fra gli stessi, piuttosto che di mera verosimiglianza del risultato[46].

In questo contesto, e arrivando a quello che sarà (o, come forse potremmo dire più precisamente, avrebbe potuto essere) uno fra gli ambiti di maggiore impatto della novella, devono a mio parere ritenersi superati tutti quegli orientamenti della Suprema Corte che hanno introdotto le c.d. “presunzioni” di matrice giurisprudenziale, prima fra tutte, evidentemente, quella relativo alla celeberrima (e nefasta) presunzione di distribuzione degli utili nel caso di società a ristretta base sociale. In questo caso, peraltro, valorizzare debitamente la novella significa non soltanto escludere che possa esserci alcun automatismo nella distribuzione degli utili occulti nel caso di in cui sia contestata l’indeducibilità di un componente negativo di reddito in capo alla società, ma altresì nel caso in cui siano accertati maggiore ricavi in capo alla stessa – in entrambi i casi, l’Amministrazione dovrà provare debitamente l’avvenuta distribuzione del maggior reddito, non potendosi limitare a invocare semplicemente la natura ristretta della compagine sociale[47]. Come accennavo, su tale posizione si è già assestata una recente giurisprudenza di merito[48], che ha osservato come, in assenza di elementi di prova direttamente atti a dimostrare l’effettiva distribuzione degli utili, dalla ristrettezza della base sociale non possa in alcun modo (più) trarsi alcuna sorta di automatismo probatorio. Interessante è il rilievo, da parte dei giudici di merito, circa l’assenza (almeno sino ad oggi) di una presunzione di matrice legale in grado di giustificare una siffatta conclusione, avendo il comma 5-bis sgombrato il campo dalla possibilità di fare tralatiziamente riferimento a mere presunzioni giurisprudenziali, richiedendo agli Uffici un più gravoso onere dimostrativo.

Quest’ultima notazione, circa il rapporto fra (assenza di) presunzione legale e “presunzione” giurisprudenziale (superata dal comma 5-bis), mi consente un primo collegamento con la Legge delega per la cosiddetta riforma tributaria[49], che pare inspiegabilmente andare in una direzione differente, codificando (a me pare in maniera a sua volta contraddittoria, almeno in parte) la presunzione di distribuzione degli utili, con un’opera che, in questo senso, parrebbe confermare un orientamento della giurisprudenza di legittimità pressoché universalmente criticato e al quale può – e, a mio giudizio, deve – costituire un argine proprio il nostro comma 5-bis.

Ma su questo, come sulle altre previsioni della Legge delega che più ci interessano da vicino, cercherò di essere più preciso nei paragrafi successivi (nella seconda parte dell’intervento/saggio/contributo).

 

[1] Sia consentito rinviare a Tundo F., La Giustizia tributaria, anatra zoppa a causa di una buona riforma (forse) incostituzionale (con alcune ipotesi di modifica), in Riv. tel. dir. trib., 27 marzo 2023; Id., La materia prima della giustizia tributaria e i primi dubbi di costituzionalità, in GT – Riv. giur. trib., 2022, 12, 977 ss.

[2] Il quale come noto stabilisce che «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile».

[3] L’emendamento che ha inserito la nostra disposizione porta la data del 4 agosto 2022, in occasione dell’ultima seduta delle Commissioni riunite II e VI del Senato, poco prima dell’approvazione definitiva (AS 2636).

[4] Su tale aspetto v. Morlini G., La testimonianza scritta nel processo tributario riformato, in Studium Iuris, 2023, 404 ss.

[5] Problematica ulteriormente complicata, de iure condito, dal fatto che l’ordinamento tributario già conosce singole disposizioni che obbligano l’Ufficio a indicare le fonti di prova, la cui efficacia è tuttavia limitata ad alcuni specifici comparti della materia: cfr. in tema di imposta sul valore aggiunto l’art. 56 D.P.R. n. 633/1972 e in tema di irrogazione di sanzioni l’art. 16 D.Lgs. n. 472/1997.

[6] V. art. 4, comma 1, lett. a), L. 9 agosto 2023, n. 111.

[7] Il riferimento è all’art. 17, comma 1, lett. h), L. n. 111/2023.

[8] Come, del resto, la dottrina unanime ha voluto espressamente mettere in luce, cfr. Melis G., Su di un trittico di questioni di carattere generale relative al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: profili temporali, rapporto con l’art. 2697 c.c. ed estensione del principio di vicinanza alla prova, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 211 ss.; Glendi C., Primi esperimenti applicativi delle Corti di merito sulla regola finale del fatto incerto nel processo tributario riformato, in GT Riv. giur. trib., 2023, 3, 257 ss.; Donatelli S., L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 2023, 1, 28 ss.; Della Valle E., La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel rito tributario, in il fisco, 2022, 40, 3811 ss.

[9] Cfr. ad esempio CGT II grado Lombardia, sez. XXIII, sent. 12 settembre 2023, n. 2706; CGT II grado Emilia-Romagna, sez. VIII, sent. 12 gennaio 2023, n. 90; CGT II grado Puglia, sez. IV, sent. 29 dicembre 2022, n. 3633.

[10] E anche di taluna dottrina, v. Berliri A., In tema di accertamento tributario, in Giur. imp., 1962, 318. Dottrina più risalente aveva evidenziato come l’onere della prova nel processo tributario gravasse in particolar modo sul contribuente, il quale doveva provare l’illegittimità della pretesa confezionata dall’Amministrazione nell’atto di accertamento; per converso, si notava già come sull’Amministrazione incombesse l’onere di produrre in giudizio gli elementi di prova (precostituiti) che avevano giustificato l’emissione dell’atto, cfr. Pugliese M., La prova nel processo tributario, Padova, 1935, 34.

[11] Allorio E.,  Diritto Processuale Tributario, Torino, 1969, 393.

[12] A partire da Cass. civ., sez. I, sent. 23 maggio 1979, n. 2990.

[13] Corte cost., sent. 29 marzo 2007, n. 109.

[14] Fa pacificamente eccezione, come noto, a questo riparto il caso dei rimborsi, nei quali è il contribuente ad essere tenuto alla prova del credito vantato nei confronti dell’Erario. Da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. V, ord. 4 aprile 2023, n. 9320.

[15] Così anche Vicini Ronchetti A., Inerenza nel reddito di impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. trib., 2019, 5, I, 562 ss.; Beghin M., Scritture contabili, controlli incrociati e prova delle deducibilità dei costi sostenuti dall’imprenditore, in Corr. trib., 2017, 13, 975 ss.; Tinelli G., Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, 5, I, 469 ss. Tale conclusione è stata recentemente raggiunta anche da Russo P., Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 2, XV, 1013 ss.

[16] Cipolla G.M., La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 591 ss.; Tesauro F., Prova (diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1999, Agg., III, 893.

[17] Mercuri G., Onere della prova: dal contributo di Allorio alla recente riforma del processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2022, 3, 375.

[18] Sulla quale sia consentito rinviare a Tundo F., Per un Fisco ragionevole occorre un “self-restraint” del legislatore, in GT – Riv. giur. trib., 2020, 2, 110 ss.

[19] Secondo la Corte di Cassazione, «l’onere di provare la sussistenza delle componenti del reddito e dei requisiti di certezza e determinabilità delle stesse in un determinato esercizio sociale incombe sull’Amministrazione finanziaria per quelle positive, e sul contribuente per quelle negative». V. Cass. civ., sez. V, sent. 14 aprile 2022, n. 12127.

[20] Per tutte v. Cass. civ., sez. VI – 5, ord. 23 marzo 2021, n. 8148.

[21] Cfr. fra i tanti Carinci A. – Rossetti S., Distribuzione di utili in nero ai soci di società a ristretta base partecipativa: presunzione o regime di tassazione?, in il fisco, 2021, 28, 2707 ss.; Beghin M., Gli utili da ristretta base partecipativa nelle torbide acque dei “costi indeducibili”, in il fisco, 2021, 1, 79 ss.; Amatucci F., Diritto di difesa e presunzione di distribuzione di utili nelle società di capitali a ristretta base azionaria, in Corr. trib., 2018, 7, 522 ss.; Marcheselli A., La presunzione di distribuzione degli utili societari delle c.d. società a ristretta base, tra induzioni ragionevoli e abnormità istruttorie, in GT – Riv. giur. trib., 2016, 1, 86 ss.; Contrino A., Ancora sulla presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società di capitali “a ristretta base proprietaria”, in Rass. trib., 2013, 5, 1113 ss.

[22] Sul tema v. Vanz G., Criticità nell’applicazione in ambito tributario della regola giurisprudenziale della “vicinanza della prova”, in Dir. prat. trib., 2021, 6, 2584 ss.; Muleo S., Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 3, 603 ss.

[23] Rinviando a quanto dirò a breve, basti a tal proposito fare riferimento alla tematica dei prezzi di trasferimento: secondo la Cassazione, infatti, «incombe sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697, cod. civ, ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua di quanto specificamente previsto dall’art. 9, comma 3, t.u.i.r.». V. Cass. civ., sez. V, ord. 18 giugno 2020, n. 11837.

[24] Russo P., Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, cit.

[25] Glendi C., Onere della prova o regola finale del fatto incerto nel processo tributario riformato, in GT – Riv. giur. trib., 2023, 6, 473 ss.; Melis G., Su di un trittico di questioni di carattere generale relative al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: profili temporali, rapporto con l’art. 2697 c.c. ed estensione del principio di vicinanza alla prova, cit.; Sartori N., I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, 78-79; Donatelli S., L’onere della prova nella riforma del processo tributario, cit.

[26] Glendi C., L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Ipsoa Quotidiano, 24 settembre 2022.

[27] Poi seguita dalle ordinanze gemelle nn. 31880 e 32024, rispettivamente datate 27 e 28 ottobre 2022.

[28] Mi riferisco a Cass. civ., sez. V, ord. 30 marzo 2023, n. 8956.

[29] Sulla quale sia concesso fare rinvio a Tundo F., Le 99 piaghe del fisco. Una democrazia decapitata, Bologna, 2020, passim.

[30] CGT I grado di Rimini, sez. II, sent. 22 marzo 2023, n. 99.

[31] V. Cass. civ., sent. 24 giugno 2022, n. 20509.

[32] CGT I grado di Reggio Emilia, sez. I, sent. 23 maggio 2023, n. 107.

[33] CGT I grado di Siracusa, sez. V, sent. 23 novembre 2022, n. 3856, nonché CGT II grado dell’Emilia-Romagna, sez. VIII, sent. 12 gennaio 2023, n. 90.

[34] CGT I grado di Milano, sez. III, sent. 1° giugno 2023, n. 2005.

[35] CGT I grado di Milano, sez. XIII, sent. 22 maggio 2023, n. 1861.

[36] CGT II grado dell’Emilia-Romagna, sez. IV, sent. 22 febbraio 2023, nn. 241 e 242.

[37] CGT II grado della Puglia, sez. IV, sent. 24 febbraio 2023, n. 506.

[38] CGT I grado di Reggio Emilia, sez. I, sent. 30 dicembre 2022, n. 293 e 2 marzo 2023, n. 33.

[39] Melis G., Su di un trittico di questioni di carattere generale relative al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: profili temporali, rapporto con l’art. 2697 c.c. ed estensione del principio di vicinanza alla prova, cit.

[40] Muleo S., Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in Giustizia insieme, 20 settembre 2022.

[41] È la tesi di Russo P., Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, cit.

[42] Cfr. Cass. civ., sez. II, sent. 24 gennaio 2019, n. 2118.

[43] In senso similare v. Moschetti G., Il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 243 ss.; Contrino A., Irragionevolezze ordinamentali e innovazioni processuali (rilevanti) della recente riforma della giustizia tributaria, in Il nuovo diritto delle società, 2023, 2, 299 ss.

[44] Giovannini A., La presunzione di onestà e la fondatezza del credito impositivo “oltre ogni ragionevole dubbio”, in Giustiziainsieme.it, 14 marzo 2023.

[45] Patti S., Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, in Patti S. – Poli R. (a cura di), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, Torino, 2022, 5.

[46] Giovannini A., La presunzione di onestà e la fondatezza del credito impositivo “oltre ogni ragionevole dubbio”, cit.

[47] Melis G., L’onere della prova e la “consistenza” della prova, primi disorientamenti giurisprudenziali, cit.

[48] CGT I grado di Milano, sez. XV, sent. 24 agosto 2023, n. 2969.

[49] L. 9 agosto 2023, n. 111.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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