La tassazione ai fini delle imposte sui redditi dei c.d. “compensi reversibili” in fattispecie transfrontaliere
Di Teresa Galluccio
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Abstract
L’articolo coglie lo spunto della recente Risposta ad interpello dell’Agenzia delle Entrate n. 330 del 22 maggio 2023 per analizzare la tassazione ai fini delle imposte sui redditi dei c.d. “compensi reversibili” in fattispecie transfrontaliere, considerando sia l’ipotesi di compensi di fonte italiana riversati a datore di lavoro non residente sia quella di compensi di fonte estera riversati a datore di lavoro residente in Italia.
Taxation for income tax purposes of so-called “remitted directors’ fees” in cross-border situations. – This article takes the cue from the Revenue Agency’s recent ruling reply no. 330 of 22 May 2023 to analize the taxation for income tax purposes of so-called “remitted directors’ fees” in cross-border situations, considering both the cases of Italian-sourced fees remitted to a nonresident employer and foreign-sourced fees remitted to an Italian-resident employer.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Breve inquadramento della prassi contrattuale dei c.d. “compensi reversibili”. – 3. La tassazione ai fini delle imposte sui redditi deicompensi reversibili di fonte italiana riversati a datore di lavoro non residente. – 3.1. Trattamento dei compensi reversibili in capo all’amministratore. – 3.2. Trattamento dei compensi reversibili in capo alla società italiana erogante. – 3.3. Trattamento dei compensi reversibili in capo alla società estera percettrice. – 4. La tassazione ai fini delle imposte sui redditi dei compensi reversibili di fonte estera riversati a datore di lavoro residente in Italia. – 5. Osservazioni finali.
1. La recente Risposta ad interpello n. 330 del 22 maggio 2023 offre lo spunto per un’analisi sistematica della tassazione dei c.d. “compensi reversibili”. Dopo un breve inquadramento della prassi contrattuale dei compensi reversibili, nel presente contributo ci si soffermerà sulla tassazione ai fini delle imposte sui redditi dei suddetti compensi in fattispecie transfrontaliere, considerando sia l’ipotesi di compensi di fonte italiana riversati a datore di lavoro non residente sia quella di compensi di fonte estera riversati a datore di lavoro residente.
2. Con la nozione di “compensi reversibili” ci si riferisce, nella prassi, ai compensi spettanti al dipendente (o collaboratore coordinato e continuativo) di una società (Alfa), nominato membro dell’organo di amministrazione di un’altra società (Beta), ove detti compensi siano corrisposti, per espressa previsione contrattuale, non già al dipendente (o collaboratore coordinato e continuativo) nella sua qualità di amministratore, bensì alla società con la quale quest’ultimo ha un rapporto di lavoro dipendente (o di collaborazione).
La procedura normalmente utilizzata prevede (i) l’esistenza di un accordo tra l’amministratore e la società Alfa da cui risulti l’obbligo di corresponsione dei compensi ad Alfa; (ii) la comunicazione, dalla società Alfa alla società Beta, dell’esistenza di detto accordo, affinché il pagamento diretto dei compensi alla prima sia liberatorio per la seconda; e (iii) la documentazione attestante l’effettivo pagamento dei compensi direttamente alla società Alfa (si veda, in tal senso, Associazione dei Dottori Commercialisti di Milano [di seguito, “ADCM”], norma di comportamento n. 169 del 17 ottobre 2007). Come riconosciuto dall’Amministrazione finanziaria italiana, si ritiene, tuttavia, che siano qualificabili come reversibili anche i compensi dapprima corrisposti all’amministratore e da questi integralmente riversati alla propria società di appartenenza, a condizione che l’integrale riversamento sia adeguatamente provato (si vedano, in tal senso, Ministero delle Finanze, ris. 17 maggio 1977, n. 8/166; ris. 15 febbraio 1980, n. 8/196; ris. 5 luglio 1986, n. 8/1236 e circ. 23 dicembre 1997, n. 326/E e Agenzia delle Entrate, Risposta ad interpello 28 maggio 2019, n. 167).
La ragione tipica della corresponsione diretta dei compensi ad Alfa – ovvero del riversamento, se del caso – risiede nel fatto che la remunerazione che il soggetto percepisce da Alfa come dipendente della stessa assorbe l’ulteriore remunerazione a cui avrebbe diritto in qualità di membro dell’organo amministrativo di Beta. Alfa accetta che il proprio dipendente svolga parte dell’attività a beneficio di un soggetto diverso perché ha un interesse specifico a che ciò avvenga. La casistica più frequente di applicazione del regime dei compensi reversibili ha, infatti, origine negli accordi per la direzione unitaria tra società legate da rapporti di controllo o collegamento (ove, ad esempio, i compensi dovuti al dipendente della controllante per l’attività di amministratore svolta presso la controllata sono erogati a quest’ultima, che remunera l’amministratore per la totalità delle prestazioni svolte), sebbene si tratti di rapporti contrattuali che possono intervenire anche tra società non appartenenti al medesimo gruppo (si vedano, in tal senso, ADCM, Norma di comportamento n. 169 del 17 ottobre 2007; Bonelli F., Gli Amministratori di S.p.A., Milano, 2004, 138) e sebbene la mancata corresponsione di un reddito di lavoro all’amministratore non sia stata considerata circostanza preclusiva all’applicazione del regime dei compensi reversibili in ipotesi di consociate a base familiare (si veda, in tal senso, CTR della Lombardia, sez. XVI, sent. 21 dicembre 2021, n. 4612: «Proprio la ristretta compagine familiare delle due società, controllata e controllante, ben può giustificare l’omessa previsione di un compenso diretto all’amministratore, il quale è già beneficiario delle partecipazioni societarie»).
3. Nella Risposta ad interpello n. 330/2023, l’Agenzia delle Entrate (Divisione Contribuenti, Direzione Centrale Piccole e Medie imprese) si è espressa in relazione alla tassazione diretta dei compensi reversibili di fonte italiana erogati a datore di lavoro non residente.
La fattispecie oggetto di istanza segue lo schema contrattuale tipico sopra descritto. Nel corso del 2021, un dipendente di una società fiscalmente residente in un non precisato Stato membro dell’Unione Europea ha svolto l’incarico di amministratore presso una consociata fiscalmente residente in Italia. Nel medesimo anno, la società estera ha stipulato un accordo con il proprio dipendente in forza del quale quest’ultimo ha assunto l’obbligo di riversare alla stessa qualsiasi compenso a lui spettante in qualità di amministratore della società italiana. La società estera ha informato di tale clausola contrattuale la società italiana, che ha deliberato il compenso di amministratore del dipendente della società estera e ha corrisposto detto compenso direttamente a quest’ultima.
Alla luce di quanto rappresentato, la società italiana ha chiesto all’Agenzia delle Entrate di conoscere il corretto trattamento fiscale dei compensi corrisposti alla società estera, con riguardo in particolare alla deducibilità del relativo costo e alle eventuali ritenute da operare all’atto del pagamento.
Anticipando le conclusioni di un percorso logico-giuridico che il presente contributo vorrebbe, con l’occasione, provare a sistematizzare, l’Agenzia delle Entrate ha condivisibilmente confermato la deducibilità per competenza, in capo alla società italiana, dei compensi corrisposti alla società estera e la non tassabilità in Italia degli stessi in ragione della disciplina convenzionale applicabile, con conseguente assenza di obblighi di sostituzione da parte della società italiana.
3.1. I compensi reversibili non costituiscono, per l’amministratore, reddito imponibile ai fini IRPEF, sia che l’amministratore sia fiscalmente residente nel territorio dello Stato sia che non lo sia. Alla medesima stregua, gli stessi non sono assoggettabili alla ritenuta a titolo di imposta del 30% prevista dall’art. 24, comma 1-ter, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (di seguito, “D.P.R. n. 600/1973”).
Ai sensi dell’art. 1 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (il Testo Unico delle Imposte sui Redditi, di seguito “TUIR”), il presupposto oggettivo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è costituito dal possesso di redditi in denaro o in natura rientranti in una delle categorie indicate nell’art. 6 TUIR. È di tutta evidenza che, nella fattispecie dei compensi reversibili, tali requisiti – e, su tutti, il possesso del reddito – non risultano integrati in capo all’amministratore persona fisica.
Con riferimento, in particolare, alla nozione di “possesso”, nella Relazione ministeriale all’art. 1 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, precedente storico dell’art. 1 TUIR, e nelle relative note introduttive, si legge che, con la disposizione normativa in questione, «più che alla titolarità giuridica dei redditi, il legislatore delegante ha inteso riferirsi alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta”, che si sostanzia“nella materiale possibilità di fruizione del reddito”, “comprendendo nel reddito complessivo non soltanto tutti i redditi propri del soggetto, ma anche quelli altrui dei quali esso abbia la libera disponibilità».
Appare, dunque, chiaro che, sul piano tributario, la mera titolarità formale di un reddito, cui non si accompagni il potere di disporne liberamente, non ne fonda il possesso, essendo richiesta, quale condizione legittimante l’assoggettamento a imposizione, una relazione di fatto prima ancora che di diritto tra il soggetto e il reddito (si veda, in tal senso, Leo M., Le imposte sui redditi nel testo unico – Tomo I, Bagnoli M. et al., a cura di, Milano, 2022, 4).
Tale conclusione, oltreché aderente al costante insegnamento dell’Agenzia delle Entrate (di cui meglio si dirà nel prosieguo), è stata altresì accolta dai giudici di legittimità. Nella sentenza 10 gennaio 2013, n. 433, ad esempio, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che il termine “possesso” impiegato dal legislatore tributario nell’art. 1 TUIR «non ha il significato tecnico che ha nel Codice Civile, né ha un significato tecnico-tributario uniforme per tutte le categoria reddituali. Ma il significato minimo comune del termine senz’altro evoca, ai fini della tassabilità, la riferibilità ad un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui dei poteri di disposizione in relazione ad essi».
D’altronde, privilegiare la tesi contraria (nel senso di ritenere i compensi reversibili imponibili ai fini IRPEF in capo all’amministratore e, dunque, assoggettabili a ritenuta alla fonte in Italia) produrrebbe effetti asistematici e in aperta discrasia non solo rispetto ai principi generali che informano l’imposizione sul reddito delle persone fisiche, ma anche rispetto ai principi costituzionali (si veda, in tal senso, Cass. civ., sez. V., sent. 19 ottobre 2018, n. 26414, secondo la quale il requisito del possesso del reddito costituirebbe un «precipitato del principio di capacità contributiva» recato dall’art. 53 della Costituzione italiana).
Tutto quanto detto trova espressa conferma nell’art. 50, comma 1, lett. b), TUIR che, nel qualificare come redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente «le indennità e i compensi percepiti a carico di terzi dai prestatori di lavoro dipendente per incarichi svolti in relazione a tale qualità”, esclude espressamente “quelli che per clausola contrattuale devono essere riversati al datore di lavoro”, e nel successivo art. 51, comma 2, lett. e) TUIR, che conferma che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente “i compensi reversibili di cui alle lettere b) ed f) del comma 1 dell’art. 50».
Le disposizioni sopra richiamate codificano, in sostanza, l’imputazione diretta dei compensi reversibili al soggetto al quale per clausola contrattuale i compensi devono essere riversati. Ebbene, nella Risposta ad interpello n. 330/2023 in commento, l’Agenzia delle Entrate ne ha fatto corretta applicazione. Sul punto, la Risposta invero conferma un orientamento di prassi ormai consolidato. Nell’interpretare l’esclusione di cui all’art. 50, comma 1, lett. b), TUIR, infatti, l’Amministrazione finanziaria italiana aveva già in passato in più di un’occasione confermato la non imputabilità del reddito in capo alla persona fisica, e ciò «in base al principio generale secondo cui non si configurano quale reddito imponibile di un soggetto le somme di cui egli non ottenga in alcun modo la libera disponibilità» (in tal senso, si vedano Ministero delle Finanze, ris. n. 8/166/1977 e, in senso conforme, ris. n. 8/196/1980 e n. 8/1236/1986 e circ. n. 326/E/1997 e, più recentemente, Agenzia delle Entrate, Risposta ad interpello n. 167/2019).
Alla luce di quanto osservato, appare, invece, criticabile, invece, la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate nella Risposta ad interpello n. 489 del 20 luglio 2021, in occasione della quale l’Agenzia, nel rendere indicazioni sul trattamento fiscale dei compensi percepiti da un dottore commercialista socio di uno studio legale associato in relazione ad un contratto di docenza stipulato con un istituto universitario estero, ha ritenuto detti compensi imponibili ai fini IRPEF in capo al docente associato quali redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, a nulla rilevando gli obblighi (incontestati) di riversamento integrale dei compensi allo studio legale.
Non è chiaro se, nella fattispecie oggetto della Risposta ad interpello n. 330/2023, l’amministratore fosse fiscalmente residente in Italia o all’estero. Ad ogni modo, anche ipotizzando che si trattasse di un amministratore non residente, i compensi reversibili corrisposti a Beta ugualmente non costituirebbero, per lo stesso, redditi imponibili in Italia, perché anch’egli ugualmente non ne avrebbe la materiale disponibilità.
3.2. I compensi reversibili sono deducibili per competenza in capo alla società italiana erogante in quanto sono attribuiti a un soggetto titolare di redditi d’impresa e non trova applicazione il principio di deduzione per cassa specificamente previsto dall’art. 95, comma 5, TUIR per i compensi spettanti agli amministratori. Nella Risposta ad interpello n. 330/2023 in commento, l’Agenzia delle Entrate conferma ufficialmente e condivisibilmente detto principio, correggendo la propria propria precedente linea interpretativa (si veda la Nota 20 giugno 2004, n. 124734 inedita ma ampiamente ripresa dalla dottrina) e allineandosi a un orientamento di recente consolidatosi anche in seno alla Suprema Corte di Cassazione (si vedano, in senso conforme, Cass. civ., sez. V, sent. 16 ottobre 2020, n. 22479 e sent. 29 gennaio 2021, n. 2067; in senso contrario, Cass. civ., sez. V, sent. 20 gennaio 2017, n. 1542).
3.3. Come sopra rilevato, il prelievo tributario deve attuarsi in capo al soggetto che effettivamente possiede, nel senso anzidetto, il reddito. I compensi reversibili sono, quindi, imponibili unicamente in capo alla società estera percettrice.
Nella Risposta ad interpello n. 330/2023 in commento, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto i compensi in parola qualificabili, ai fini convenzionali, come redditi d’impresa, e perciò riconducibili all’art. 7 della non precisata convenzione applicabile e, conseguentemente, non tassabili in Italia in assenza di stabile organizzazione della società estera percettrice nel territorio dello Stato (presupposto, questo, dichiarato dall’istante e assunto acriticamente dall’Agenzia, non essendo verificabile in sede di interpello ordinario).
La conclusione dell’Agenzia delle Entrate appare condivisibile.
La circostanza che l’elemento reddituale tragga origine dall’espletamento delle mansioni di un membro del consiglio di amministrazione potrebbe, invero, indurre a interrogarsi sull’applicabilità dell’art. 16 del Modello di Convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio dell’OCSE (di seguito, “Modello OCSE”), rubricato “Compensi e gettoni di presenza” (“Directors’ fees” nella versione ufficiale in lingua inglese del Modello), che prevede l’imponibilità in Italia dei compensi che un residente dell’altro Stato contraente riceve in qualità di membro del consiglio di amministrazione di una società residente in Italia. Ove l’art. 16 trovasse applicazione, detti compensi sarebbero tassabili anche in Italia. Si ritiene, tuttavia, che tale tesi non possa trovare accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
In primo luogo, la formulazione letterale dell’articolo ne suggerisce un’applicazione limitata ai casi in cui i corrispettivi siano ricevuti da un soggetto in relazione alla propria qualità di membro del consiglio di amministrazione di una società. L’articolo, infatti, si riferisce espressamente ai compensi «derived by a resident of a Contracting State in his capacity as a member of the board of directors of a company which is a resident of the other Contracting State …» e anche nel Commentario si legge che l’articolo «relates to remuneration received by a resident of a Contracting State, whether an individual or a legal person, in the capacity of a member of a board of directors of a company which is a resident of the other Contracting State» (si veda il par. 1 del Commentario all’art. 16 del Modello OCSE). Sebbene il Commentario contempli espressamente anche l’ipotesi di compensi ricevuti da persone giuridiche, la dottrina ritiene che la specificazione sia stata inclusa per coprire i casi – ammessi in alcuni ordinamenti, tra cui quello italiano – in cui una persona giuridica ricopre la carica di membro del consiglio di amministrazione di una società (in tal senso, si vedano Cordewener A., Directors’ Fees/Directors’ Fees and Remuneration of Top-Managerial Officials, in Reimer E. – Rust A., a cura di, Klaus Vogel on Double Taxation Conventions, Volume II, V ed., 1424; Pistone P., Article 16: Directors’ Fees/Directors’ Fees and Remuneration of Top-Level Management Officials, in Global Tax Treaty Commentaries, Global Topics IBFD, 2023, par. 5.1.3.3.). Non si ritiene, al contrario, che il riferimento alle persone giuridiche contenuto nel Commentario possa essere inteso nel senso di ritenere l’articolo applicabile alla diversa ipotesi in cui i compensi, sebbene oggettivamente connessi all’attività di un membro del consiglio di amministrazione, siano soggettivamente riferibili ad un altro soggetto (una società) che invece riceve un’autonoma retribuzione per il servizio prestato dal proprio dipendente (si veda, in senso conforme, Pamperl E., Article 16 of the OECD Model Convention: History, Scope and Future, IBFD, 2015, par. 3.10.2., la quale osserva che «the application of the distribution rules of a tax treaty depends on the attribution of income to a person under domestic tax law. To subsume a consideration under Art. 16 it is thus crucial that according to the domestic law, it is not attributed to any other person than the director. This link between domestic tax law and treaty law is established in Article 16 by the phrase ‘derived by’»).
Tale conclusione trova, inoltre, supporto nell’analisi sistematica del Modello OCSE e del relativo Commentario, posto che i redattori hanno, in altre circostanze, espressamente previsto che il regime convenzionale applicabile resta immutato laddove un compenso oggettivamente riferibile ad una data attività sia percepito da un soggetto diverso dal prestatore dell’attività. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 17 del Modello OCSE, rubricato “Artisti e sportivi” (“Entertainers and sportspersons” nella versione ufficiale in lingua inglese del Modello), che, dopo aver previsto (similmente all’art. 16) che i redditi che un residente di uno Stato contraente ritrae dalle proprie prestazioni artistiche o sportive esercitate nell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato, si premura di specificare che la potestà impositiva dello Stato della fonte è fatta salva anche quando i redditi sono percepiti da un soggetto diverso da colui che svolge l’attività produttiva di reddito (ad esempio, una c.d. star company).
In altre parole, ai redattori del Modello OCSE non erano ignote le ipotesi di non corrispondenza tra il soggetto esercente l’attività e il percettore del reddito, per cui dovrebbe concludersi che la mancata inclusione di una clausola in tal senso nell’art. 16 manifesti l’intenzione di escludere dette ipotesi dal relativo ambito di applicazione.
Conformemente a quanto concluso dall’Agenzia delle Entrate nella Risposta ad interpello n. 330/2023 in commento, troverà, quindi, applicazione, l’art. 7 della Convenzione, con conseguente non imponibilità in Italia dei compensi in assenza di stabile organizzazione della società estera percettrice nel territorio dello Stato.
Preme per completezza osservare che, in alcuni passaggi della Risposta, l’Agenzia sembra vincolare l’applicabilità dell’art. 7 della Convenzione alla corresponsione diretta dei compensi alla società estera percettrice. L’Agenzia afferma, infatti, che «ai fini convenzionali, il pagamento in parola deve essere correttamente inquadrato nell’ambito dell’articolo 7 … atteso che il pagamento, pur formalmente riferibile al lavoro prestato dal consigliere di amministrazione, è effettuato direttamente tra le due società consociate senza alcun riversamento da parte del dipendente a favore del proprio datore di lavoro» (enfasi aggiunta). O, ancora, che «non può applicarsi l’articolo 16 della citata Convenzione, che prevede una potestà impositiva concorrente per le retribuzioni che un residente di uno Stato contraente riceve come membro del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale di una società residente nell’altro Stato contraente. Nel caso in esame, in effetti, il pagamento è effettuato direttamente alla consociata e non al dipendente» (enfasi aggiunta).
Si ritiene che la qualificazione dei compensi reversibili quali redditi d’impresa e la conseguente riconducibilità all’art. 7 della Convenzione applicabile debba valere tanto nell’ipotesi in cui i compensi siano direttamente erogati alla società estera, quanto in quella in cui siano dapprima accreditati, ad esempio, su un conto corrente intestato all’amministratore e da questi integralmente riversati al proprio datore di lavoro. L’amministratore, infatti, non può assumere la materiale e reale disponibilità di somme che per espressa previsione contrattuale è tenuto a riversare alla società con la quale intrattiene un rapporto di lavoro dipendente. D’altronde, come in precedenza osservato, l’Amministrazione finanziaria italiana ha già in passato in più di un’occasione escluso l’imponibilità, in capo all’amministratore, dei compensi riversibili dapprima erogati all’amministratore e da questi integralmente riversati al proprio datore di lavoro. Lo stesso principio, peraltro, emerge anche da altra prassi dell’Agenzia delle Entrate relativa, ad esempio, al trattamento fiscale del patrimonio separato delle società costituite per la cartolarizzazione di crediti (si veda la circ. 6 febbraio 2003, n. 8/E).
Ciò detto, a parere di chi scrive, la conclusione avrebbe potuto essere diversa ove i compensi fossero stati direttamente corrisposti o riversati a una società fiscalmente residente in uno Stato con il quale l’Italia non ha concluso una Convenzione per evitare le doppie imposizioni.
Ai sensi dell’art. 151, comma 1, TUIR, il reddito complessivo delle società non residenti è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, per tali intendendosi, come stabilito al successivo comma 2, quelli indicati nell’art. 23 TUIR. Come noto, tali disposizioni codificano il c.d. principio del “trattamento isolato” dei redditi dei soggetti non residenti, che, in contrapposizione al superato principio della c.d. “forza di attrazione della stabile organizzazione”, stabilisce che il reddito complessivo delle società non residenti si determina, secondo le disposizioni del Titolo I del TUIR, sommando le diverse categorie reddituali ivi indicate, indipendentemente dalla presenza o meno di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato.
Conformemente all’art. 7 del Modello OCSE, l’art. 23, comma 1, lett. e), TUIR stabilisce che i redditi d’impresa dei soggetti esteri sono territorialmente rilevanti in Italia se prodotti per il tramite di una stabile organizzazione ivi localizzata. L’applicazione di detta regola di territorialità produrrebbe i medesimi effetti dell’applicazione dell’art. 7 del Modello OCSE, ovverosia, si ribadisce, l’impossibilità di assoggettare a tassazione i compensi in Italia in assenza di stabile organizzazione della società estera percettrice nel territorio dello Stato.
Tuttavia, nel caso di specie potrebbe assumere rilievo un’altra regola di territorialità, e in particolare quella di cui all’art. 23, comma 1, lett. f), TUIR, che, attraverso il richiamo alla categoria dei redditi diversi derivanti da attività svolte nel territorio dello Stato, assoggetta a tassazione in Italia i redditi derivanti “dall’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere”. Nella fattispecie dei compensi reversibili, si potrebbe ritenere che la società non residente assuma un’obbligazione consistente in un facere, rappresentato dalla prestazione di un’attività a beneficio di una consociata italiana da parte di un proprio dipendente. Così ragionando, in assenza di Convenzione la quota parte di compensi reversibili corrisposti alla società non residente imputabili ad attività svolte in Italia risulterebbe ivi assoggettabile alla ritenuta a titolo di imposta del 30% prevista dall’art. 25, comma 2, D.P.R. n. 600/1973 anche laddove la società estera non avesse una stabile organizzazione nel territorio dello Stato.
A parere di chi scrive, non dovrebbero, invece, assumere rilievo le diverse regole di territorialità di cui agli art. 23, comma 1, lett. c) e comma 2, lett. b), TUIR, entrambe previste per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, in quanto, come sopra osservato, i compensi reversibili sono per espressa previsione normativa (art. 50, comma 1, lett. b), TUIR) esclusi dal novero dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (in senso conforme, si veda CTP di Milano, sez. III, sent. 13 novembre 2017, n. 6357; in senso contrario, si vedano CTP di Bergamo, sez. I., sent. 12 ottobre 2018, n. 521; ADCM, norma di comportamento n. 169 del 17 ottobre 2007 e Piazza M., Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 1011).
4. Si è colto lo spunto della Risposta ad interpello n. 330/2023 per soffermarsi sulla tassazione ai fini delle imposte sui redditi dei compensi reversibili di fonte italiana erogati a datore di lavoro non residente. La Risposta ad interpello in commento fa seguito a una precedente Risposta ad interpello della medesima divisione dell’Agenzia delle Entrate (Divisione Contribuenti, Direzione Centrale Piccole e Medie Imprese), nella quale l’Agenzia si era espressa su una fattispecie del tutto assimilabile ma inversa, avente cioè ad oggetto la tassazione dei compensi di fonte estera (spagnola) riversati a società datrice di lavoro residente in Italia. Si tratta della più volte citata Risposta ad interpello n. 167/2019.
In quel caso, l’Agenzia delle Entrate era stata chiamata a pronunciarsi sul corretto trattamento fiscale da applicare ai compensi reversibili erogati al dipendente di una società fiscalmente residente in Italia in relazione all’incarico di consigliere di amministrazione ricoperto presso una consociata fiscalmente residente in Spagna. Detti compensi erano stati dapprima accreditati sul conto corrente intestato all’amministratore al netto della ritenuta alla fonte prevista in Spagna per i compensi erogati a soggetti non residenti, conformemente all’art. 16 della Convenzione per evitare le doppie imposizioni conclusa con l’Italia, e successivamente riversati, per espressa previsione contrattuale, alla società datrice di lavoro. Stando a quanto rappresentato nell’istanza, la normativa civilistica spagnola non consentiva l’accredito dei compensi su conto corrente intestato a soggetto diverso dall’amministratore, neppure previa richiesta di quest’ultimo.
Anche in quell’occasione, l’Agenzia delle Entrate aveva confermato la rilevanza ai fini IRES dei compensi in capo alla società datrice di lavoro residente in Italia, escludendone la rilevanza ai fini IRPEF in capo all’amministratore persona fisica. Tuttavia, l’Agenzia aveva altresì confermato, ai sensi dell’art. 165 TUIR, l’accreditabilità, in capo alla società italiana, delle ritenute alla fonte subite dall’amministratore in Spagna ex art. 16 della Convenzione conclusa con l’Italia.
Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate nella Risposta ad interpello n. 167/2019 erano state accolte con un certo scetticismo. Per alcuni Autori, infatti, la conferma dell’accreditabilità, in capo alla società italiana, delle ritenute alla fonte subite dall’amministratore in Spagna confliggerebbe con la (già allora) pacifica irrilevanza dei compensi in capo all’amministratore. Tant’è che, a valle della Risposta ad interpello n. 330/2023 in commento, in molti hanno accolto con favore il presunto superamento, da parte dell’Agenzia, del proprio precedente orientamento.
Ebbene, a parere di chi scrive, è possibile ricondurre la Risposta ad interpello n. 167/2019 entro un quadro di coerenza rispetto ai precedenti dell’Amministrazione finanziaria italiana. Pare, infatti, possa ritenersi che l’Agenzia delle Entrate abbia confermato l’accreditabilità, in capo alla società italiana, delle ritenute alla fonte subite dall’amministratore in Spagna al solo fine di eliminare la doppia imposizione altrimenti gravante sui compensi, dopo averne accettato la qualificazione operata in Spagna. Si rammenta, infatti, che, stando a quanto rappresentato nell’istanza, la normativa civilistica spagnola pareva, almeno all’epoca dei fatti, attribuire fiscalmente i compensi all’amministratore persona fisica anche in caso di integrale riversamento degli stessi ad altro soggetto.
Letta in questo senso, la Risposta ad interpello n. 167/2019 è del tutto in linea con quanto prescritto dall’OCSE in materia di sgravio della doppia imposizione in caso di conflitti di qualificazione tra lo Stato della fonte e Stato della residenza (si veda, in senso conforme, Saini A., Compensi reversibili esteri al vaglio del credito di imposta, in Il Sole24 Ore, Norme e Tributi, 8 giugno 2023).
I parr. 32.1 ss. del Commentario all’art. 23 del Modello OCSE, infatti, indicano chiaramente che se, in ragione di differenze nel diritto interno tra lo Stato della fonte e quello della residenza, il primo applica una disposizione convenzionale diversa da quella che il secondo avrebbe considerato applicabile allo stesso elemento di reddito, lo Stato della residenza deve comunque considerare quel reddito tassato in conformità alle disposizioni convenzionali, come interpretate e applicate dallo Stato della fonte. Nel par. 32.4, in particolare, l’OCSE fa l’esempio del socio, residente in uno Stato contraente, di una partnership con sede nell’altro Stato contraente, che cede le proprie quote. Lo Stato di residenza del socio considera la partnership come un autonomo soggetto d’imposta (come ad oggi l’Italia) e perciò ritiene la plusvalenza derivante dalla cessione delle quote utile di capitale tassabile solo nello Stato di residenza del beneficiario ex art. 13, par. 4 della Convenzione in ipotesi conforme al Modello OCSE; di converso, lo Stato in cui ha sede la partnership considera la cessione delle quote alla stregua del realizzo dell’azienda posseduta dalla partnership stessa e perciò ritiene la plusvalenza tassabile ex art. 13, parr. 1 e 2. Come detto, il Commentario risolve il conflitto stabilendo che, nelle ipotesi di “conflicts of qualifications”, lo Stato della residenza è tenuto ad accettare la qualificazione ai fini convenzionali operata dallo Stato della fonte e, quindi, a concedere, a seconda del caso, il credito d’imposta o l’esenzione.
Le indicazioni fornite in sede OCSE sono già state in passato seguite dall’Agenzia delle Entrate. Ci si riferisce, in particolare, alla Risposta ad interpello n. 538 del 30 dicembre 2019, in occasione della quale l’Agenzia è stata chiamata a chiarire la corretta qualificazione, ai fini convenzionali, delle somme corrisposte da una società fiscalmente residente in Brasile alla propria controllante fiscalmente residente in Italia a titolo di “juros sobre capital proprio” (JCP) e l’ammontare del credito per le imposte estere deducibile in capo alla società italiana (si veda, per un commento alla Risposta, Silvani C., Conta il capital gain pagato in Brasile sui proventi Jcp, in Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi, 24 gennaio 2020).
In estrema sintesi, i JSCP costituiscono una particolare tipologia di dividendi ritraibili dal possesso di ordinarie azioni in società brasiliane. Tali società possono, infatti, decidere di corrispondere ai propri azionisti proventi calcolati applicando un tasso di rendimento nozionale sul proprio capitale (i JSCP, appunto) che in Brasile si qualificano come dividendi ai fini civilistici e contabili, ma come interessi passivi deducibili ai fini fiscali. Ebbene, dopo aver premesso che i titoli partecipativi in questione non possono essere considerati titoli similari alle azioni in base all’art. 44, comma 2, lett. a), TUIR mancando il requisito della totale indeducibilità della relativa remunerazione dal reddito d’impresa della società erogante, l’Agenzia delle Entrate è passata a considerarne il trattamento convenzionale e ha chiarito che, ai fini del riparto della potestà impositiva tra Italia e Brasile, «si fa riferimento alla legislazione fiscale dello Stato contraente da cui i redditi provengono». Pertanto, nel caso di specie, «viene in rilievo la qualificazione prevista dalla normativa brasiliana, con la conseguenza che deve essere considerato quale interesse la parte di reddito deducibile in Brasile a titolo di JSCP e quale dividendo la parte corrisposta non deducibile». Appare, al contrario, criticabile la conclusione formulata dall’Agenzia delle Entrate nella precedente Risposta ad interpello n. 157 del 28 dicembre 2018, avente ad oggetto il trattamento fiscale di proventi derivanti da fondi immobiliari esteri, qualificati diversamente da Stato della fonte e Stato della residenza, i.e. che, ai fini della determinazione del credito per le imposte estere di cui all’art. 165 TUIR deve “farsi riferimento alla qualificazione del reddito operata in Italia”).
Lo Stato della residenza non è, naturalmente, tenuto ad eliminare la doppia imposizione in tutti quanti i casi in cui lo Stato della fonte ha sottoposto a tassazione un elemento di reddito applicando una disposizione convenzionale diversa da quella che lo Stato di residenza considera applicabile. Nelle ipotesi, infatti, di conflitti risultanti da diverse interpretazioni dei fatti o da diverse interpretazioni delle disposizioni convenzionali – ipotesi, queste, distinte dai conflitti di qualificazione che, si ribadisce, traggono origine dalle differenza nel diritto interno tra i due Stati contraenti – il solo modo di mitigare o rimuovere la doppia imposizione sarebbe, secondo l’OCSE, quello di ricorrere ad una procedura amichevole (si veda, in tal senso, il par. 32.5 del Commentario all’art. 23 del Modello OCSE).
Posto tutto quanto detto, la riconosciuta accreditabilità delle ritenute alla fonte subite dall’amministratore in Spagna in capo alla società italiana percettrice dei compensi dovrebbe essere letta come una conferma, da parte dell’Amministrazione finanziaria italiana, della tassabilità di detti compensi in capo al percettore effettivo degli stessi, in linea con quanto sostenuto nella più recente Risposta ad interpello n. 330/2023. Diversamente, infatti, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto concludere per l’accreditabilità delle ritenute in capo all’amministratore (il che, peraltro, avrebbe determinato uno scenario irrazionale in cui l’amministratore si sarebbe visto riconosciuto un credito d’imposta relativo a redditi altrui e la società italiana sarebbe stata tassata due volte sul medesimo reddito; si vedano, in tal senso, Rossetti D.A. – De Pirro R., Il possesso del reddito guida la tassazione dei compensi reversibili, in il fisco, 2019, 35, 3361).
5. Alla luce delle indicazioni da ultimo fornite con la Risposta ad interpello n. 330/2023, si ritiene che il quadro della tassazione dei compensi reversibili in fattispecie interne e in fattispecie transfrontaliere coperte dalle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni possa dirsi ormai chiaro per le imprese e gli operatori del settore. Non altrettanto definito appare, a parere di chi scrive, il trattamento fiscale dei compensi reversibili di fonte italiana corrisposti a società residenti in Stati con i quali l’Italia non ha concluso una Convenzione per evitare le doppie imposizioni.
Si rammenta, infine, che, secondo la prassi amministrativa, il regime dei compensi reversibili è accessibile a condizione che l’integrale riversamento sia adeguatamente provato. In assenza di specifiche disposizioni di legge, si auspicano chiarimenti sul contenuto necessario di tale prova.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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