Lavoro dipendente prestato all’estero: le policy di tax equalization non incidono sul diritto al recupero del credito per le imposte estere

Di Roberto Sante Smilari e Marco Strafile -

Abstract

Con la sentenza n. 2798/2022, nel pronunciarsi su una controversia avente ad oggetto la spettanza del credito per le imposte pagate all’estero sui redditi di lavoro dipendente, la Corte di Giustizia tributaria di I grado di Milano ha riconosciuto la legittimità delle politiche di equalizzazione fiscale adottate dalla gran parte delle società multinazionali al fine di tutelare i propri dipendenti che svolgono la propria attività lavorativa all’estero dal fenomeno della doppia imposizione internazionale, affermando che le stesse non ostano al recupero del credito per le imposte pagate all’estero.

Employees working abroad: tax equalization policies do not affect the right to recover foreign tax credit. – With the Case n. 2798/2022, in ruling on a dispute concerning the entitlement of the credit for taxes paid abroad on employment income, the Tax Court of Milan recognized the legitimacy of the tax equalization policies adopted by most multinational companies in order to protect their employees who carry out their working activity abroad from international double taxation, without any prejudice on the right to claim for the foreign tax credit.

 

 

Sommario: 1. Il caso. – 2. Il quadro normativo di riferimento. – 3. Le policy di tax equalization. – 4. La soluzione interpretativa adottata.

 

1. Con la annotata sentenza la Corte di Giustizia tributaria di I Grado di Milano si è espressa con riferimento alle politiche di equalizzazione fiscale adottate dalla gran parte delle società multinazionali al fine di tutelare i propri dipendenti che svolgano la propria attività lavorativa all’estero dal fenomeno della doppia imposizione internazionale, affermando che l’operatività di tali accordi non pregiudica la spettanza del credito per le imposte pagate all’estero.

Il caso sottoposto all’esame della Corte riguardava un lavoratore assunto presso un’azienda italiana che, nel periodo d’imposta 2013, aveva prestato attività lavorativa in Belgio, in regime di distacco internazionale, presso la consociata del proprio datore di lavoro italiano. Durante tale periodo, l’interessato aveva mantenuto in Italia la propria residenza fiscale, ai sensi dell’art. 2 TUIR e, pertanto, risultava ivi tassabile anche sui redditi di lavoro dipendente prodotti in Belgio, secondo il c.d. worldwide taxation principle previsto dall’art. 3 TUIR.

Al contempo, in linea con quanto previsto dall’art. 15, par. 1 della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e il Belgio, i medesimi redditi risultavano assoggettabili a tassazione anche in tale ultimo Stato e, pertanto, venivano interessati da doppia imposizione internazionale. Una volta perfezionatasi la definitività delle imposte pagate in Belgio, il lavoratore interessato procedeva quindi a recuperare, tramite la propria dichiarazione italiana, il credito per le imposte pagate all’estero, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 165 TUIR e 23 della citata Convenzione.

Sennonché, a seguito di controllo formale, l’Agenzia delle Entrate disconosceva integralmente la spettanza di tale credito per le imposte pagate all’estero, motivando la rettifica alla luce del fatto che, in base agli accordi intercorsi con il datore di lavoro e delle specifiche policy aziendali, le imposte dovute in Belgio erano state pagate da quest’ultimo, in nome e per conto del dipendente espatriato.

2. I redditi di lavoro dipendente prestato all’estero da un soggetto fiscalmente residente in Italia risultano imponibili nel nostro Paese, in forza dell’art. 3 TUIR. Nel dettaglio, detti redditi, in linea di principio, dovranno essere analiticamente determinati in base ai criteri previsti dai commi da 1 a 8 dell’art. 51 TUIR ed assoggettati a ritenute fiscali e previdenziali da parte del datore di lavoro italiano, ai sensi dell’art. 23 D.P.R. n. 600/1973[1].

In deroga alla regola generale di determinazione analitica del reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero, ad ogni modo, al ricorrere di tutti i requisiti previsti dall’art. 51, comma 8-bis, TUIR, è possibile procedere ad una quantificazione sulla base delle retribuzioni convenzionali annualmente individuate con apposito decreto emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze; si tratta di valori imponibili forfetari, determinati con riferimento, e comunque in misura non inferiore, ai contratti collettivi nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei[2]. Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella circ. 16 novembre 2000, n. 207/E, difatti, «la disposizione in commento stabilisce che ai fini della determinazione della base imponibile relativa all’attività prestata all’estero debba essere considerata una retribuzione convenzionale, senza tener conto dei compensi effettivamente erogati. Dall’introduzione del criterio convenzionale consegue che qualora il datore di lavoro riconosca al proprio dipendente alcuni benefits, questi emolumenti in natura non subiscono alcuna tassazione autonoma, in quanto il loro ammontare sarà ricompreso forfetariamente nella retribuzione convenzionale»[3].

Tale modalità di determinazione del reddito di lavoro dipendente risulta applicabile a patto che la prestazione lavorativa sia prestata all’estero quale oggetto esclusivo dell’attività, in via continuativa, per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi.

Nel dettaglio, con specifico riferimento al requisito della continuità della prestazione lavorativa all’estero, in linea con quanto valeva in presenza dell’abrogato art. 3, comma 3, lett. c)[4], si rende necessario che al dipendente sia contrattualmente affidato uno specifico incarico non occasionale, che risponda a crismi di stabilità e permanenza[5]. Secondo quanto chiarito dall’Amministrazione finanziaria, in particolare, ciò che si richiede è che «venga stipulato uno specifico contratto che preveda l’esecuzione della prestazione in via esclusiva all’estero[6]».

Il requisito della esclusività, invece, fa riferimento alla circostanza che l’incarico sia integralmente svolto all’estero. Deve pertanto ritenersi che ai fini dell’applicazione del regime delle retribuzioni convenzionali, nel corso dell’assegnazione all’estero, il dipendente non possa svolgere la propria prestazione lavorativa anche in Italia. Ciò, tuttavia, non esclude che il lavoratore rientri ed eventualmente soggiorni nel nostro Paese; ciò che conta difatti, ai fini di cui si discute, è che non vi eserciti alcuna attività lavorativa connessa con il rapporto di lavoro da cui trae origine l’invio nello Stato estero. Ne deriva che il requisito in questione si considera generalmente rispettato ove il lavoratore interessato faccia periodicamente rientro in Italia al solo fine di trascorrervi un periodo di vacanza, ma non anche nelle ipotesi in cui l’attività lavorativa sia svolta in parte all’estero e, per la restante parte in Italia.

Quanto, infine, al requisito relativo al periodo minimo di permanenza del lavoratore nello Stato estero – superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi – va subito rilevato come tale periodo debba essere verificato non in relazione al singolo periodo d’imposta, bensì nell’ambito di qualsivoglia periodo di dodici mesi, anche a cavallo tra due distinti anni solari[7]. Peraltro, il soggiorno all’estero non deve essere necessariamente continuativo e, ai fini della verifica della soglia di 183 giorni, rilevano anche il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e agli altri giorni lavorativi.

Ad ogni modo, a prescindere dalle modalità di determinazione del reddito di lavoro dipendente prestato all’estero, va evidenziato come, in prospettiva internazionale, la citata potestà impositiva italiana sui redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero dai contribuenti fiscalmente residenti in Italia risulti coerente con quanto previsto dall’art. 15, comma 1 del Modello OCSE.

La norma convenzionale appena citata, ricalcata fedelmente nella gran parte delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, prevede difatti, in ipotesi in cui l’attività lavorativa sia svolta in uno Stato diverso da quello in cui è fiscalmente residente il lavoratore, la potestà impositiva concorrente di entrambi gli Stati coinvolti, con conseguente esposizione al fenomeno della doppia imposizione internazionale.

In deroga a tale principio, tuttavia, onde evitare che brevi periodi di lavoro all’estero diano luogo alla doppia imposizione internazionale ed alle complicazioni amministrative che ne derivano, il paragrafo 2 del citato art. 15, prevede la potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza del lavoratore (con conseguente esenzione totale da parte del diverso Stato in cui l’attività lavorativa viene resa) al ricorrere di tutte le seguenti condizioni:

  • l’attività lavorativa è svolta nell’altro Stato per un periodo non superiore a 183 giorni nell’arco del periodo d’imposta;
  • le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro residente nello Stato di residenza del lavoratore;
  • l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nello Stato in cui è svolta l’attività lavorativa.

L’art. 15, paragrafo 2 del Modello OCSE consente quindi di risolvere a monte il fenomeno della doppia imposizione internazionale, vietando allo Stato della fonte di tassare i redditi di lavoro dipendente ivi prodotti da un soggetto fiscalmente residente nell’altro Stato contraente[8].

Qualora detta disposizione non possa trovare applicazione, la doppia imposizione internazionale ingeneratasi sul reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero dovrà essere alleviata facendo ricorso al credito per le imposte pagate all’estero, ai sensi dell’art. 23 B del Modello OCSE e dell’art. 165 TUIR[9].

La norma domestica appena citata prevede infatti, al comma 1, che «se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione», fermo restando che, in base al comma 10 del medesimo art. 165 «Nel caso in cui il reddito prodotto all’estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l’imposta estera va ridotta in misura corrispondente[10]».

Per poter beneficiare del credito per le imposte pagate all’estero, pertanto, è innanzitutto necessario che i redditi prodotti all’estero abbiano effettivamente concorso alla formazione del reddito complessivo del soggetto fiscalmente residente in Italia. Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 9/E/2015, infatti, «l’istituto non è quindi applicabile in presenza di redditi assoggettati a ritenuta a titolo di imposta, a imposta sostitutiva o a imposizione sostitutiva operata dallo stesso contribuente in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi ai sensi dell’art. 18 del TUIR[11]».

Orbene, tale intervento ministeriale, in concreto, è suscettibile di dar luogo ad evidenti distorsioni e, potenzialmente, a vanificare il divieto della doppia imposizione in relazione a tutti gli elementi reddituali sottratti all’ordinaria tassazione progressiva IRPEF, mortificando, per l’effetto, i principi costituzionali di uguaglianza e capacità contributiva.

Ciò che non è sfuggito alla più recente giurisprudenza di legittimità che, con la sentenza 1° settembre 2022, n. 25698, ha affermato che, ai sensi dell’art. 75 D.P.R. n. 600/1973, il disposto di cui all’art. 165, comma 1 citato deve soccombere in presenza di Convenzioni contro le doppie imposizioni che riconoscano la spettanza del credito per le imposte pagate all’estero a prescindere dalle effettive modalità di tassazione del reddito prodotto all’estero, con il solo limite di quegli elementi di reddito che, per espressa scelta del contribuente, sono assoggettati a tassazione con ritenuta alla fonte ovvero a regimi di tassazione sostitutiva[12].

Estendendo il criterio interpretativo espresso dalla Suprema Corte, quindi, se previsto dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni, il credito per le imposte pagate all’estero deve ritenersi spettante a prescindere dall’effettiva concorrenza alla formazione del reddito complessivo del reddito prodotto all’estero, quando lo stesso sia soggetto ad un regime di tassazione sostitutiva per espressa previsione normativa e senza possibilità, per il contribuente, di optare per la tassazione ordinaria.

Ne deriva che siffatto principio difficilmente potrebbe applicarsi, per esempio, agli interessi di fonte estera, visto che in tal caso (a differenza degli utili di fonte estera) è rimessa al contribuente la possibilità di optare per la tassazione ordinaria, in luogo del regime di tassazione sostitutiva previsto dall’art. 18 TUIR.

Allo stesso modo, tale principio difficilmente potrebbe applicarsi in relazione alle somme che, per le loro peculiari caratteristiche, sono assoggettate a tassazione separata ai sensi dell’art. 17 TUIR. Ciò in quanto l’art. 17, comma 3, TUIR prevede che tali somme possano essere assoggettate alla tassazione ordinaria se questa risulta più favorevole per il contribuente, dietro richiesta dello stesso, nel caso delle somme di cui alle lettere da d) a f) del comma 1 e di quelle indicate alle lettere da g) a n-bis) non conseguite nell’esercizio di imprese commerciali, ovvero d’ufficio, in sede di riliquidazione della tassazione effettivamente applicabile alle somme di cui alle lettere a), b), c) e c-bis).

Con particolare riguardo a tale ultima ipotesi, quindi, in caso di indennità di fine rapporto maturate in contesti cross-border ed assoggettate ad imposizione anche all’estero in base all’art. 15, par. 1 del Modello OCSE, in sede di riliquidazione della tassazione separata effettivamente dovuta, l’Amministrazione finanziaria, dovrebbe raffrontare il carico fiscale da questa risultante con quello che sarebbe stato sofferto se le medesime indennità avessero concorso alla formazione del reddito complessivo del contribuente e se, per l’effetto, fosse stato possibile alleviare la doppia imposizione internazionale tramite il recupero del credito per le imposte pagate all’estero[13].

Più in generale, anche alla luce delle limitazioni previste dal citato art. 165 TUIR, non è raro che la doppia imposizione internazionale non sia del tutto eliminata dallo strumento del credito per le imposte pagate all’estero che solitamente consente, al più, di alleviarne gli effetti.

3. Si è visto come l’attività lavorativa prestata all’estero sia foriera del rischio, per il lavoratore interessato, di soffrire livelli impositivi difformi rispetto a quelli cui sarebbe stato soggetto se avesse prestato la propria attività lavorativa in Italia.

Ed infatti, per un verso, in caso di mantenimento della residenza fiscale in Italia, il disposto di cui all’art. 165 TUIR non assicura l’integrale eliminazione della doppia imposizione internazionale ma, al più, consente di alleviarla; per altro verso, in ipotesi di trasferimento della residenza fiscale all’estero, il contribuente potrebbe essere assoggettato ad un prelievo impositivo più elevato (o più favorevole) rispetto a quello previsto in Italia.

Per ovviare a siffatti fenomeni, la gran parte delle multinazionali che ricorre alla movimentazione internazionale del personale dipendente suole adottare meccanismi in grado di neutralizzare eventuali differenze impositive tra il Paese di origine e quello di destinazione del lavoratore[14].

Tra queste, si annovera la c.d. Tax Equalization cui era soggetto anche il lavoratore interessato dall’annotata sentenza, che si fonda sull’assunto secondo cui, da un punto vista fiscale, il dipendente non deve trarre alcun vantaggio, né subire alcuno svantaggio dall’assegnazione all’estero.

Tale risultato è conseguito richiedendo al lavoratore di sostenere un carico fiscale esattamente in linea con quello che avrebbe sofferto se fosse rimasto in Italia, tramite l’applicazione di una ritenuta operata sulla retribuzione lorda (c.d. Hypothetical withholding tax o Hypotax), di ammontare pari alle ritenute IRPEF ipoteticamente dovute in Italia; viene in tal modo “equalizzato” in via convenzionale l’onere tributario che deve sostenere il lavoratore (allineandolo a quello che avrebbe subito se fosse rimasto a lavorare in Italia), lasciando la gestione ed il costo della fiscalità effettiva estera del dipendente in carico al datore di lavoro[15]; la provvista da quest’ultimo conseguita (derivante dalle trattenute effettuate per Hypotax) alimenta, infatti, un apposito fondo da destinare al versamento delle imposte dovute all’estero sul reddito di lavoro dipendente ivi prodotto dal dipendente espatriato.

Generalmente, quindi, il versamento delle imposte pagate all’estero viene materialmente finalizzato dal datore di lavoro (o attraverso lo schema di sostituzione di imposta applicato anche nello Stato di assegnazione, o mediante versamento in nome e per conto del dipendente delle imposte estere dovute), che si fa carico anche delle eventuali somme aggiuntive rispetto all’Hypotax trattenuta al dipendente.

Al contempo, se il lavoratore mantiene la propria residenza fiscale in Italia durante il periodo di lavoro all’estero, l’azienda implementa appositi meccanismi di anticipo dell’IRPEF dovuta in Italia, attivando una “linea di credito” nei confronti del dipendente, che verrà compensata tramite l’incasso del credito per le imposte pagate all’estero a questi spettante ai sensi dell’art. 165 TUIR[16].

Orbene, come evidenziato in premessa, il caso oggetto dell’annotata sentenza traeva origine dal disconoscimento del credito per le imposte pagate all’estero di cui il contribuente aveva beneficiato in Italia ai sensi dell’art. 165 TUIR in quanto, a detta dell’Ufficio, questi non era stato effettivamente inciso dalla fiscalità estera, visto era stata materialmente versata alle competenti Autorità estere dal datore di lavoro, in nome e per conto del contribuente, come previsto dalla policy di tax equalization sopra descritta.

4. Nell’accogliere il ricorso proposto dal contribuente per veder confermare la correttezza del proprio operato e la piena spettanza del credito per le imposte pagate all’estero, la sentenza in commento offre interessati spunti, in quanto si sofferma diffusamente sul funzionamento delle policy di tax equalization, affermando che le stesse non ostano affatto alla spettanza del rimedio previsto dall’art. 165 TUIR contro la doppia imposizione internazionale.

I giudici meneghini, infatti, osservano come «in sostanza, il gruppo si preoccupa – attraverso la policy in commento – che il proprio dipendente che presta la sua attività all’estero non abbia in ragione di tale particolare condizione alcun onere, sia di ordine amministrativo che di ordine finanziario. La soluzione individuata è particolarmente complessa, in quanto sono tanti gli elementi da disciplinare: prevede che la multinazionale – datore di lavoro operi una sorta di ritenuta ipotetica (cd. Hypotax), calcolata sulla base dei compensi pattuiti al dipendente come se avesse lavorato in Italia, rendendo per lui indifferente, almeno per quanto concerne il suo compenso netto, prestare l’attività in Italia o all’estero; tale ritenuta – che evidentemente non trova causa in un obbligo di legge – riduce il netto a pagare risultante dalla busta paga mensile e viene accantonata dalla Società come provvista da utilizzare per il pagamento delle imposte dovute nel paese estero (nel nostro caso, in Belgio) sui redditi di lavoro dipendente ivi prodotti. In questo modo, per effetto del predetto accordo di stretta natura privatistica tra il contribuente e la Società, la Società si obbliga al versamento delle imposte dovute all’estero in nome e per conto del suo lavoratore, utilizzando la provvista incamerata sui suoi compensi tramite la predetta trattenuta operata – appunto – a titolo di Hypotax».

La Corte di Giustizia tributaria, quindi, correttamente inquadra la policy in parola in ambito strettamente privatistico ed extra-fiscale, ricollegando all’effettuazione della ritenuta Hypotax il sorgere dell’obbligo, per il datore di lavoro, di assolvere alla fiscalità estera in nome e per conto del proprio dipendente. In altre parole, ferma restando l’obbligazione di carattere fiscale, che continua ad insistere unicamente in capo al lavoratore, la policy di tax equalization e le ritenute Hypotax operate in osservanza della stessa, traslano sul datore di lavoro l’obbligo materiale di versare le imposte alle competenti Autorità fiscali, facendosi carico delle maggiori somme eventualmente dovute.

Ed infatti, «in sintesi, l’accordo previsto dalla policy in commento libera il lavoratore distaccato all’estero dall’impatto della variabile fiscale […] che consegue al suo trasferimento lavorativo all’estero, […] il lavoratore infatti riceve immediatamente una emolumento mensile corrispondente al compenso decurtato dall’Hypotax, che corrisponde alle imposte che avrebbe pagato se quel reddito fosse stato prodotto in Italia, mentre il datore di lavoro assume l’obbligo contrattuale di assolvere, in nome e per conto del dipendente agli obblighi fiscali italiani ed esteri e di tenerlo indenne da eventuali differenziali che potrebbero sorgere a distanza di tempo”

A ben vedere, quindi, il versamento delle imposte estere da parte del datore di lavoro in nome e per conto del dipendente rappresenta una modalità di assolvimento dell’obbligo retributivo datoriale assunto a fronte dell’applicazione della policy di tax equalization; infatti, sia le trattenute per Hypotax che l’eventuale integrazione necessaria a coprire la fiscalità estera del dipendente, costituiscono erogazione di retribuzione, non potendosi erroneamente ritenere – come sostenuto dall’Agenzia – che tale schema operi una sorta di traslazione dei tributi esteri dal dipendente al datore di lavoro. Ad essere inciso della fiscalità estera è e rimane sempre il dipendente che ne sostiene l’onere attraverso parte della retribuzione percepita; né può ingenerare confusione l’aspetto meramente operativo che prevede che il versamento delle imposte estere venga eseguito – utilizzando gli emolumenti dovuti al dipendente – dalla società, poiché a livello fiscale nulla sarebbe cambiato se i predetti emolumenti fossero stati pagati direttamente al dipendente e questi avesse poi provveduto ad eseguire il pagamento all’Amministrazione fiscale estera. In tal senso la Corte rileva che: «è pertanto priva di fondamento, ad esempio, l’obiezione dell’Ente impositore circa il non effettivo sostenimento delle imposte estere da parte del contribuente perché versate  da un terzo (la società distaccataria belga); infatti, in ottemperanza alla policy di cui si discute, nella fattispecie le imposte estere sono state sostenute dal ricorrente attraverso il versamento in suo nome e per suo conto da parte della società estera, la quale in tale modo ha estinto l’obbligo retributivo a carico del contribuente».

Ne deriva che tali accordi, che sono senz’altro validi da un punto di vista civilistico, devono ritenersi totalmente ininfluenti sull’obbligazione tributaria, così come sulla spettanza del credito per le imposte pagate all’estero, in ipotesi di doppia imposizione internazionale.

Ed invero, come affermato dalla Corte di Giustizia tributaria di Milano la policy in questione è da ritenersi «neutrale fiscalmente, e non incide sul riconoscimento del credito per le imposte pagate all’estero, almeno fino a quando sono correttamente determinati – secondo l’equilibrio segnato in tale accordo contrattuale – tutti i valori coinvolti».

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Assonime, circolare 16 marzo 2001, n. 17

Contrino A., Redditi transnazionali parzialmente imponibili in Italia e riduzione corrispondente dei tributi esteri detraibili: profili di irragionevolezza sistematica, illiceità convenzionale e incostituzionalità, in Dir. prat. trib., 2021, 1, 1 ss.

Contrino A., Contributo allo studio del credito per le imposte estere, Torino, 2012

Crovato F., Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001

Lollio C., Lo statuto fiscale della mobilità temporanea all’estero del lavoratore dipendente, Napoli, 2020, 197 ss.

Marianetti G. – Delli Falconi F., La gestione del personale all’estero, Milano, 2008, 80 ss.

Mocarelli A. – Battistini S., Lavoro dipendente all’estero e gestione doppia imposizione, in Dir. prat. del lavoro, 2022, 47/48, 2901 ss.

Stizza P., Il quadro normativo relativo ai redditi di lavoro dipendente transnazionale, in Della Valle E. – Perrone L. – C. Sacchetto C. – Ukmar V. (a cura di), La mobilità transnazionale dei lavoratori dipendenti: profili tributari, Padova, 2006, 459 ss.

Tinelli G., La nuova disciplina fiscale del reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero, in Riv. dir. trib., 2000, 3, 271 ss.

Valente P. – Salvatore M. – Burragato G., Expatriates all’estero e esteri in Italia, Milano, 2019

[1] L’obbligo di sostituzione d’imposta in capo al datore di lavoro italiano riguarda anche eventuali emolumenti corrisposti dall’estero in relazione al rapporto di lavoro, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 51 TUIR e 23 del citato D.P.R. n. 600/1973.

[2] Ne deriva che, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate con la circ. n. 20/E/2011 «La mancata previsione nel decreto ministeriale del settore economico nel quale viene svolta l’attività da parte del dipendente costituisce motivo ostativo all’applicazione del particolare regime». Ciò che, come rilevato da Mocarelli A. – Battistini S., Lavoro dipendente all’estero e gestione doppia imposizione, in Dir. prat. del lavoro, 2022, 47/48, 2901, potrebbe condurre ad evidenti discriminazioni a danno dei lavoratori che assunti da datori di lavoro stabiliti all’estero che operino in settori economici non inclusi nelle apposite tabelle annualmente pubblicate con decreto ministeriale.

[3] Ai fini della individuazione della fascia di retribuzione convenzionale applicabile, occorre fare riferimento alla retribuzione complessivamente dovuta al lavoratore per l’attività svolta in Italia, con esclusione delle indennità e dei benefit al medesimo riconosciuti in considerazione dell’incarico estero, rapportata a dodici mensilità. Si veda in merito la Circolare Inps n. 72/1990. Naturalmente, nel caso in cui la retribuzione “nazionale” del lavoratore subisca delle variazioni, occorre procedere alla verifica di congruità della fascia di retribuzione convenzionale precedentemente individuata, con eventuale adeguamento della stessa.

[4] Nell’originario impianto normativo del TUIR il trattamento fiscale dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestata continuativamente all’estero era disciplinato dall’art. 3, comma 3, lett. c), che prevedeva l’esclusione dalla base imponibile italiana dei «redditi derivanti da lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto». Tale regime di esenzione, in particolare, trovava la propria ratio principale nell’esigenza di compensare il disagio delle condizioni di lavoro che il dipendente espatriato si trova ad affrontare. Pertanto, nella vigenza dell’art. 3, comma 3, lett. c) citato, al ricorrere dei requisiti ivi previsti, i lavoratori operanti all’estero potevano beneficiare della totale esenzione dalla tassazione italiana dei redditi di lavoro dipendente e ciò a prescindere dal loro status di residenza fiscale. Sul punto Tinelli G., La nuova disciplina fiscale del reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero, in Riv. dir. trib., 2000, 3, 271, nonché, Crovato F., Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001 e Stizza P., Il quadro normativo relativo ai redditi di lavoro dipendente transnazionale, in Della Valle E. – Perrone L. – C. Sacchetto C. – Ukmar V. (a cura di), La mobilità transnazionale dei lavoratori dipendenti: profili tributari, Padova, 2006, 459.

[5] In questo senso, cfr. Assonime, circolare 16 marzo 2001, n. 17.

[6] Cfr. circ. 16 novembre 2000, n. 207/E.

[7] Cfr. circ. n. 207/E/2000. Secondo quanto recentemente affermato dalla Commissione tributaria provinciale di Milano con la sentenza 11 novembre 2020, n. 2611, in particolare, l’applicazione delle retribuzioni convenzionali presuppone che, per l’intero periodo di 183 giorni nell’arco di dodici mesi, il lavoratore mantenga la qualifica di soggetto fiscalmente residente in Italia; ne deriva che, in ipotesi in cui tale periodo si svolga a cavallo di due diversi anni fiscali, il regime in questione risulta applicabile a patto che il lavoratore sia fiscalmente residente in Italia per entrambe le annualità. In senso conforme con tale linea interpretativa anche la Risposta ad interpello 17 gennaio 2023, n. 50 dell’Agenzia delle Entrate.

[8] Sul punto si veda Lollio C., Lo statuto fiscale della mobilità temporanea all’estero del lavoratore dipendente, Napoli, 2020, 197 ss.

[9] Per una disamina della disciplina in materia di credito per le imposte pagate all’estero, si veda Contrino A., Contributo allo studio del credito per le imposte estere, Torino, 2012.

[10] È questo il caso in cui, ad esempio, il reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero venga determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali di cui all’art. 51, comma 8-bis citato, posto che il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 ha disposto (con l’art. 36, comma 30) che «In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, le disposizioni di cui al comma 10 dell’articolo 165 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi riferite anche ai crediti d’imposta relativi ai redditi di cui al comma 8-bis dell’articolo 51 del medesimo testo unico». In tal senso, cfr. anche la circ. n. 28/E/2006 nonché la citata circ. n. 9/E/2015; sul punto, si vedano le osservazioni critiche e ricostruttive di Contrino A., Redditi transnazionali parzialmente imponibili in Italia e riduzione corrispondente dei tributi esteri detraibili: profili di irragionevolezza sistematica, illiceità convenzionale e incostituzionalità, in Dir. prat. trib., 2021, 1, 1.

[11] Sul punto, giova ricordare che, in base all’art. 18 TUIR, «i redditi di capitale corrisposti da soggetti non residenti a soggetti residenti nei cui confronti in Italia si applica la ritenuta a titolo di imposta o l’imposta sostitutiva di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, sono soggetti ad imposizione sostitutiva delle imposte sui redditi con la stessa aliquota della ritenuta a titolo d’imposta. Il contribuente ha la facoltà di non avvalersi del regime di imposizione sostitutiva ed in tal caso compete il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle distribuzioni di utili di cui all’articolo 27, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600».

[12] Secondo la Suprema Corte, di fatti, «Per i redditi di capitale di fonte estera, direttamente percepiti dal contribuente, persona fisica, titolare di una partecipazione non qualificata in una partnership di diritto internazionale (nel caso, statunitense), qualora l’assoggettamento a imposizione mediante ritenuta a titolo d’imposta – come nell’ipotesi di cui all’art. 27, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, mediante imposta sostitutiva, del tutto sovrapponibile alla prima in ragione dell’identità di funzione, di cui all’art. 18, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 – avvenga non “su richiesta del beneficiano del reddito” ma obbligatoriamente, non potendo il contribuente chiedere l’imposizione ordinaria, l’imposta sul reddito pagata in un Paese estero (nel caso, Stati Uniti d’America) si deve considerare detraibile. Ciò in quanto, l’interpretazione conforme della locuzione “anche su richiesta del contribuente”, che figura nel testo di vari accordi internazionali (tra cui nel testo della Convenzione Italia – Stati Uniti di America), conferma che quando l’Italia ha inteso negare il credito d’imposta – non solo nei casi in cui l’assoggettamento dell’elemento di reddito a imposta sostitutiva o a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta avvenga su richiesta del contribuente, ma anche nei casi in cui esso sia obbligatorio in base alla legge italiana – lo ha previsto espressamente».

[13] Il che, tuttavia, difficilmente avviene in concreto, con la conseguenza che non è affatto infrequente che le spettanze di fine rapporto restino assoggettate alla doppia imposizione internazionale.

[14] Per una disamina delle più diffuse, si rimanda a Marianetti G. – Delli Falconi F., La gestione del personale all’estero, Milano, 2008, 80 ss. Si veda inoltre Valente P. – Salvatore M. – Burragato G., Expatriates all’estero e esteri in Italia, Milano, 2019.

[15] A volte, come nel caso della sentenza in commento, per fini di semplificazione amministrativa (o in assolvimento di un obbligo di sostituzione d’imposta previsto nello Stato di assegnazione), avviene che l’effettivo versamento dei tributi esteri venga eseguito direttamente dalla società estera distaccataria; ciò non modifica ovviamente – dal lato del dipendente – lo schema previsto nella policy di tax equalization.

[16] Resta inteso che qualora la somma tra Hypotax trattenuta e credito per le imposte pagate all’estero incassato dalla società fosse inferiore agli esborsi da questa effettivamente sostenuti in relazione alla fiscalità effettivamente dovuta in Italia e all’estero, l’eccedenza rappresenterebbe un benefit imponibile in capo al dipendente.

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