Imposta evasa, profitto del reato tributario, il mito del doppio binario della prova tra penale e amministrativo e le nuove frontiere del profitto confiscabile

Di Alberto Marcheselli -

Abstract (*)

Il diritto tributario e il diritto penale tributario rispondono a regole di prova realmente diverse, come normalmente si afferma? Si esaminano alcune questioni relative all’accertamento della imposta evasa e determinazione del profitto del reato, nei fatti di criminalità economica e organizzata.

Evaded tax, profit from tax crime, the myth of the double track of proof between criminal law and administrative law and the new frontiers of confiscable profit – Do tax law and criminal tax law respond to really different rules of evidence, as is normally stated? Some issues relating to the assessment of evaded tax and determination of the profit from the crime are examined, in cases of economic and organized crime.

Sommario: 1. Premessa: un altro doppio binario penale-tributario, quello delle prove? Imposta e profitto. – 2. Uso e abuso del concetto di prova: prova, stime e qualificazione giuridiche ed economiche. Inesistenza, non spettanza, inerenza, abuso, sostanza economica. – 3. Il c.d. doppio binario istruttorio si fonda sull’art. 654 c.p.p? – 4. “Più probabile che non” vs. “oltre ogni ragionevole dubbio”. – 5. Slittamenti e deragliamenti sul concetto di documento e presunzione tributaria. – 6. Misteri che invece non lo erano: l’enigma delle presunzioni semplicissime e la sua soluzione. – 7. La trasandatezza della determinazione amministrativa della imposta ha da finire. – 8. Profitto del reato tributario e imposta, interessi e sanzioni. Il delitto di sottrazione fraudolenta. – 9. Considerazioni eterodosse sul profitto delle frodi carosello. – 10. (Segue). Il cliente negligente e il cliente in dolo eventuale: una questione sottile o la spia di una rottura di sistema? – 11. L’evasione fiscale come strumento di conquista illegittima del mercato: il profitto allargato.

1. Oggetto di queste riflessioni è se esista tra diritto penale tributario e diritto amministrativo tributario un altro doppio binario rispetto a quello abitualmente considerato. In particolare, rifletteremo sul fatto se ci siano criteri diversi per la determinazione dell’imposta evasa, dal lato amministrativo, e del profitto del reato tributario, dal lato penale.

Particolare oggetto di riflessione sarà se, ammesso che esistano delle differenze, queste siano determinate da diverse regole di apprezzamento del materiale probatorio o ammissibilità di diverse prove tra i due sistemi, o da altre ragioni.

In buona sostanza, il presente lavoro sarà scandito in due fasi: nella prima, la verifica della verità della seguente affermazione: “i paradigmi e i criteri probatori sono diversi tra la materia tributaria amministrativa e la materia penale”.

L’opinione corrente – e assolutamente mainstream – è, appunto, che esista una larga discrasia tra i metodi, i criteri e gli standard dell’istruttoria amministrativa e dell’istruttoria penale. Qui analizzeremo se ed in che misura ciò sia vero. Ci domanderemo, cioè, se sia veramente diverso il modo in cui si accerta il tributo evaso e il profitto da un lato e, dall’altro, se ciò dipenda veramente solo da differenze nelle regole di apprezzamento del materiale istruttorio e nelle regole istruttorie.

Posso anticipare subito la mia conclusione, che è nel senso che esista effettivamente un diverso standard di valutazione della prova tra diritto amministrativo e diritto penale tributario, ma che ciò dipenda dal comando della legge e da ragioni propriamente giuridiche soltanto in una misura molto minore di quanto normalmente si ritenga. Detto altrimenti, la conclusione che qui anticipo è che tale disarmonia sia in gran parte frutto di una patologia, già a legge vigente, che sarebbe opportuno correggere.

Per altro verso vedremo anche come non è detto che sempre il concetto di profitto del reato tributario – ed è questo l’oggetto della seconda parte – coincida con quello di imposta evasa.

2. Naturalmente si tratta di combinare punti di vista diversi: il punto di vista tributario e quello penale, e di verificare l’esito di incroci che sono simmetrici: dal tributario al penale e dal penale al tributario. Si tratta di incroci e transiti che si muovono in diversi sensi di marcia e che, a ben vedere, si possono muovere anche a diverso livello. Quanto a questa differenza di livello, per esempio, sono diversi i profili della circolazione delle fonti di prova, della valutazione della prova e dell’effetto del giudicato.

In questa sede mi occuperò esclusivamente dei profili che concernono gli elementi di prova e soprattutto la valutazione della prova, facendo solo un brevissimo accenno e solo per quanto rileva a questo proposito, alla materia dell’effetto del giudicato.

Nella seconda parte, invece, tratteremo del rapporto tra profitto del reato e imposta evasa.

Preliminarmente, tuttavia, osservo che la questione viene spesso riportata impropriamente al settore della prova: non sempre, ad essere rigorosi, la questione si pone a livello probatorio.

Beninteso, in molti casi si tratta sicuramente della prova di fatti: ad esempio verificare se si sono conseguiti dei ricavi o dei compensi che non sono stati dichiarati è – sicuramente – una questione di fatto da provare. Stabilire se quei costi siano in tutto o in parte fittizi, cioè se si è fatto finta di pagarli ma non sono stati sostenuti realmente, è una questione di fatto e probatoria. Stabilire se quei determinati crediti si riferiscono a lavori effettuati o non effettuati, o conformi o diversi da quelli effettivamente effettuati è, ugualmente, una questione probatoria.

Ma, in altri casi, non si tratta, altrettanto certamente, di fatti da provare, in senso proprio, non si tratta di verificare la l’accadimento difatti materiali.

Ad esempio, quando si tratta di determinare il valore di un bene, ipotesi che può verificarsi in tanti casi, tipicamente quando si tratti di un’imposta patrimoniale, non si agita propriamente una questione di prova: il prezzo è un fatto, ma il valore è una proprietà di un bene. Il primo, il prezzo, si prova. Il valore, invece, si misura, si stima. A volte i tributaristi evocano impropriamente il concetto di stima anche con riferimento a ipotesi nelle quali si tratta della prova di un fatto.

Però, concettualmente, si tratta di cose ben diverse: una cosa è stimare il valore, cosa corretta, non si tratta di verificare un accadimento; un’altra cosa è provare il prezzo. Perché allora spesso si parla di stimare l’ammontare dei ricavi o dei compensi evasi?

Perché esiste un problema pratico, rilevante ed endemico nella materia tributaria e, cioè, la difficoltà o, a volte, addirittura l’impossibilità di accertare il valore puntuale: molto spesso le conclusioni di un’istruttoria portano a un valore approssimato e non a un valore puntuale e preciso, a un ordine di grandezza e non a un numero. Può, per esempio, essere certo che Tizio ha evaso, essere ragionevolmente certo che ha evaso una somma compresa tra 100 e 200, ma essere impossibile stabilire l’importo esatto dell’evasione.

Questa precisazione è estremamente importante perché è la base per risolvere un problema pratico, quello della determinazione presuntiva – analitica o approssimata – su cui ci troveremo a tornare poco più avanti.

Ugualmente, rimanendo alla corretta distinzione tra ipotesi in cui è proprio parlare di prova oppure è improprio, non è una questione di prova, di solito, quella che concerne la non spettanza di un credito d’imposta: qui i fatti sono pacifici, il punto è stabilire se quei fatti rientrano o meno nella portata di una norma. Cosa, invece, diversa è la questione della inesistenza di un credito, qui si tratta di stabilire se i fatti allegati al suo fondamento sono successi o meno. Almeno questo è il significato di “inesistenza” che parrebbe semanticamente più corretto, anche se anche la recente bozza di riforma del sistema penale tributario continua a pervicacemente mantenere una certa ambiguità in materia, quando afferma che sarebbe “inesistente” anche il credito privo delle qualità giuridiche di sua pertinenza.

In altri casi, infine, se si tratti di un problema di prova o di una valutazione può essere dubbio. Viene in mente l’ipotesi della inerenza di un costo o di un IVA a monte. In effetti, si deducono e detraggono costi e oneri relativi all’attività che produce il reddito, non quelli estranei. Si può considerare che si tratti di un fatto da provare, se si ipotizza che l’inerenza corrisponda a un fatto positivo, a un fatto psicologico: la ragione per la quale si sostiene un costo. Ma, altrimenti, se si considera una relazione oggettiva di collegamento o di estraneità, essa non è effettivamente un qualcosa di materiale o fisico, che propriamente possa essere oggetto di un’attività probatoria. In effetti, l’inerenza concetto inutilmente complicato dalla pratica amministrativa, corrisponderebbe, un po’ grezzamente, a una qualità piuttosto semplice, almeno a mio avviso: se si tratta di consumare la ricchezza non si tratta di costo, non si tratta, per così dire, di investimento ma di erogazione di reddito e patrimonio. Se, invece, si tratta di un onere sostenuto nella prospettiva di far funzionare l’attività produttiva del reddito, si tratta di un investimento, cioè di costo o onere inerente.

La questione, come noto, viene poi ulteriormente complicata in qualche caso particolare. per esempio nel caso del pagamento di tangenti o, in generale, di costi e oneri illeciti. In effetti, a rigore, in termini di logica economica, si tratta di costi e oneri economicamente inerenti ma di cui è immorale consentire la deduzione o detrazione.

Il diniego di deduzione o detrazione non ha una corrispondenza nella logica economico-tributaria ma in una logica punitiva. La giurisprudenza, in proposito, ha sdoganato il concetto di inerenza in senso etico – qualitativo, per negare la deduzione e detrazione. Si tratta, a ben vedere di un ennesimo tentativo, lodevole nei fini, di superare un deficit legislativo: quello della disciplina dei cosiddetti costi di reato. Questa disciplina prevede, alla lettera, restrittivamente, la non deducibilità dei soli costi sostenuti per l’acquisto di beni o servizi destinati direttamente alla commissione degli illeciti. Si tratta di una dizione non soddisfacente, perché, se preclude la deduzione del costo dello spacciatore per acquistare la droga, a rigore non preclude il costo per il corruttore di pagare la tangente per ottenere l’appalto, per la semplice ragione che la tangente non compra un bene o un servizio utilizzato direttamente per commettere l’illecito: è essa stessa l’illecito.

Finalità ortopedica e meritoria della giurisprudenza, ma, a rigore, priva di base legale.

Altro caso dubbio, di dubbia riconducibilità alla materia della prova, è quello dell’abuso del diritto. Esso, in senso proprio, è un’operazione vera e reale, è rappresentata in modo genuino, che, semplicemente, non rientra nella dizione legislativa ma è perfettamente equivalente, sul piano economico, alle fattispecie tassate.

Qui, propriamente, non si tratta di provare che cosa è successo, il problema non è tanto fattuale, ma di ragionamento ipotetico, economico e, poi, giuridico: quella fattispecie ha una efficacia equivalente, economicamente, a quella tassata dalle norme? E, se così è, il risparmio può definirsi giuridicamente indebito? Ugualmente, non sembra un problema probatorio, ma nuovamente valutativo quello della mancanza di sostanza economica: si tratta di stabilire se la strada seguita ha un suo oggettivo fondamento in qualche utilità economica diversa dal risparmio di imposta. Al limite, potrebbe essere oggetto di un ragionamento e di una traiettoria probatoria quella della assenza di valide ragioni economiche, se esse vengono intese come un fenomeno psicologico: il movente dell’agire.

3. In ogni caso, anche ridotta l’area delle questioni probatorie alla sua portata fisiologica il problema resta: veramente le regole probatorie amministrative e penali sono diverse?

Lo si afferma tranquillamente e se ne desume la logica conseguenza che i due procedimenti potrebbero avere esiti diversi, che i materiali probatori e istruttori possono essere valutati diversamente, e che le decisioni definitive, dell’uno e dell’altro procedimento, non hanno efficacia di giudicato nell’altro.

Orbene, che l’apprezzamento dei fatti e la prova siano diversi in sede amministrativa tributaria e penale appare innegabile, nei fatti, ma è assai dubbio che ciò dipenda da prescrizioni legali.

In effetti un differente standard probatorio dovrebbe trovare fondamento in norme di legge.

Ma la relativa ricerca è, sorprendentemente, molto più laboriosa di quanto non possa ipotizzarsi, vista la facilità con cui l’affermazione della differenza dei due regimi viene fatta.

Un primo possibile fondamento legale virgole ipotetico, per tale affermata differenza di standard potrebbe ipotizzarsi di cercarsi nella regola art. 654 c.p.p. nel testo ancora attualmente vigente.

Qui non vogliamo trattare del giudicato, ma solo prendere atto del fatto che la norma appena citata, nell’escludere l’efficacia del giudicato penale negli altri giudizi considerati, valorizza la eventuale presenza di limiti alla prova del diritto controverso. La giurisprudenza, assunto che nel processo tributario è vietata la prova testimoniale, ha sempre ritenuto che ne ne dovesse risultare escluso l’effetto di giudicato.

Quale che sia l’opinione che si ha sulla portata di questa norma, sul permanere della conclusione ora che la prova testimoniale, almeno in forma scritta, è stata sdoganata in materia tributaria, sta il fatto che la norma in questione non prescrive differenze di valutazione del materiale probatorio ma, semmai, le presuppone, in astratto.

Essa non dice affatto che le prove nel processo tributario e nel processo penale sono diverse e, a ben vedere, neanche lo presuppone propriamente, perché si occupa solo del caso in cui nel processo diverso da quello penale ci siano delle limitazioni che non ci sono nel processo penale. Incidentalmente, notiamo che a questa norma viene fatta dire, allora, una cosa che essa non dice. Si afferma, spesso, che il giudicato penale non varrebbe in materia tributaria perché in materia tributaria sono possibili anche prove diverse, le presunzioni. Ma, ammesso che ciò sia vero (e vedremo che non lo è del tutto), a rigore l’art. 654 c.p.p. di questo non si occupa, perché si occupa solo della ipotesi, diversa e più restrittiva, in cui il penale possa utilizzare più prove, non meno.

È, poi, il caso di notare chi se la regola del giudicato è una dimostrazione dell’identità o della differenza delle regole istruttorie, la mal formulata riforma del diritto penale penale tributario del 2024, in corso di pubblicazione, per coerenza, si avvierebbe ad avere conseguenze paradossali. Visto che viene prescritto che il giudicato di assoluzione a seguito di dibattimento vale anche in materia tributaria, ciò vorrà dire che le prove sono identiche e ugualmente valutabili in sede penale tributaria e in sede amministrativo tributaria? E perché solo nel caso di dibattimento? Come si vede, ricercare nelle norme sul giudicato delle regole sulla prova crea un guazzabuglio inestricabile.

4. Un secondo possibile argomento sul cui fondamento desumere un diverso standard probatorio tra giudizio penale e diritto tributario amministrativo e processuale si trova nella massima giurisprudenziale secondo la quale, mentre in materia tributaria ai fini di prova sarebbe necessaria una probabilità nella forma del più probabile che non, in materia penale, ai sensi dell’art. 533 c.p.p., sarebbe necessario il raggiungimento della soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Indubbiamente, se fossero prescritti dalle norme questi due diversi standard ai fini del raggiungimento della soglia della prova, la differenza avrebbe una fonte legale. Il problema è che, mentre per la materia penale, la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio è positivamente e inequivocabilmente sancito all’art. 533 c.p.p., la regola del più probabile che non non trova un fondamento espresso legislativo.

Innanzitutto, va osservato che, atteso che con le parole e i concetti non si può giocare, la tesi che qui si analizza implicherebbe che l’evasione potrebbe essere provata a fini tributari pur in presenza di … ragionevoli dubbi.

In effetti si tratta di un’affermazione che, a sua volta, suscita più che ragionevoli dubbi.

In primo luogo, essa pare francamente insostenibile ed eretica in materia di sanzioni amministrative tributarie. Non vi è dubbio che esse abbiano la natura “penale”, nel significato che a queste espressioni si dà nel diritto internazionale e costituzionale, e che, in materia penale, viga la presunzione di non colpevolezza di cui, tra l’altro, all’art. 6 CEDU. È affermazione consolidata che, corollario della presunzione di non colpevolezza, è che la colpevolezza potrebbe affermarsi soltanto in assenza di ogni ragionevole dubbio ovvero, per dirla in latino, che in dubio pro reo.

Ne consegue, per via logica inattaccabile, che non può essere vero che esiste uno standard probatorio differente tra sanzioni amministrative tributarie e sanzioni penali tributarie: a entrambe si applica la regola della colpevolezza solo oltre ogni ragionevole dubbio. Del resto a identiche conclusioni giunge la giurisprudenza, quanto alle sanzioni amministrative. Di recente, quanto alle sanzioni in materia Consob, nel novembre del 2023, la Corte d’Appello di Milano ha avuto modo di affermare che alle sanzioni amministrative pertiene, come al diritto penale generale, la regola probatoria della necessità di prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Si può, allora e in proposito, registrare la siderale distanza dai principi della disinvoltura, quasi automatica con cui la giurisprudenza afferma, in materia tributaria, che la colpa – horribile auditu! – si presumerebbe.

Giunti a questo punto, si potrebbe ritenere, logicamente, che il differente standard probatorio non riguardi, genericamente, il diritto tributario e il diritto penale ma solo il diritto penale e il diritto tributario sostanziale, non quello sanzionatorio. La conseguenza, logica, sarebbe, però, una cosa finora inaudita in materia tributaria, e cioè che esisterebbe un doppio standard, nei processi tributari e negli atti amministrativi tributari, perché la parte relativa all’imposta potrebbe fondarsi solo sul più probabile che non, mentre la parte sanzionatoria dovrebbe attingere il livello dell’oltre ragionevole dubbio.

Tale distinzione, di cui non vi è alcuna traccia nella giurisprudenza tributaria appare, poi piuttosto difficile da giustificare sul piano costituzionale. Sarebbe congruo e costituzionalmente giustificato pretendere dal contribuente il pagamento di un tributo di cui è … ragionevolmente dubbio che sussista il presupposto giustificativo? O, per ricorrere a considerazioni di logica e di semantica, come potrebbe sostenersi che si accerta un tributo quando esso, invece che certo, è ragionevolmente dubbio?

Finora, insomma, la conclamata e abituale differenza di standard probatorio tra penale e tributario sembra non avere né base legale né fondamento sistematico e costituzionale.

5. Non solo, si potrebbe aggiungere che, nella disciplina dell’accertamento tributario, l’ipotesi base è quella secondo cui, quando si tratta di utilizzare indizi, o meglio presunzioni semplici, esse debbono essere gravi precise e concordanti. Si può notare che questo è, esattamente, lo stesso standard prescritto dal codice di procedura penale all’art. 192, per l’utilizzo della prova indiziaria in materia penale. Poiché, salva l’ipotesi in vero scolastica di Pubblici Ufficiali che assistano al fatto imponibile, o di contribuente che maldestramente conservi la prova documentale delle proprie evasioni fiscali, quasi tutte le prove in materia tributaria sono prove presuntive, parrebbe doversene desumere che lo standard probatorio, contrariamente all’ipotesi di partenza (sic!) è esattamente lo stesso, tra diritto tributario e diritto penale.

In effetti, in materia tributaria, molto spesso si parla in modo assai scorretto di prova documentale, per riferirsi a ipotesi nelle quali non c’è la documentazione dell’evasione fiscale, ma solo la documentazione di un indizio di evasione fiscale, che è cosa completamente diversa. Un processo verbale di constatazione nel quale si rilevino gli incassi di una giornata non è una prova documentale degli incassi annuali, ma solo la prova di un fatto che serve a presumerli. Un estratto conto da cui risultino i movimenti bancari non è la prova di ricavi e compensi, ma la prova del fatto da cui questi potrebbero presumersi, e così via.

6. Resta, tuttavia, da dar conto, il fatto che esistono, accanto alle regole base fin qui considerate, anche delle regole eccezionali, in materia tributaria. Si tratta in particolare, degli artt. 39 e 41 D.P.R. n. 600/1973, a mente dei quali, nel caso in cui manchi la dichiarazione dei redditi, ovvero nella dichiarazione dei redditi non siano indicati i redditi d’impresa, ovvero la contabilità per gli imprenditori o professionisti non sia tenuta o sia tenuta in modo completamente inattendibile, ovvero in altri casi di particolari violazioni, sarebbe possibile accertare ricavi e compensi anche utilizzando delle presunzioni non gravi precise e concordanti.

A tutta prima, in effetti, questa sembrerebbe proprio la norma che prevede il doppio standard probatorio tra materia tributaria e penale: queste norme appaiono facoltizzare l’uso, solo in materia tributaria, di presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 192 c.p.p.

L’apparenza, tuttavia, inganna almeno in larga parte.

Ciò, non tanto per il fatto che tali regole riguardino casi limite (omessa dichiarazione, violazioni contabili, ecc.): in effetti si può ritenere che siano casi che si verificano in presenza di reati tributari.

L’apparenza inganna perché tale riferimento alle presunzioni cosiddette semplicissime ha una portata molto meno rilevante di quanto non possa apparire a prima vista.

In primo luogo esse non possono certamente significare che al contribuente si può attribuire un reddito sulla base di elementi deboli o discordanti, perché ciò sarebbe un manifesto contrasto con una imposizione parametrata all’art. 53 della Costituzione.

Quelle presunzioni servono a risolvere un problema, pratico, completamente diverso. Non il problema del se ci sia stata evasione, ma il problema di quanta sia stata l’evasione, quando essa sia provata ma non sia possibile determinarla in un valore puntuale e sicuro. Si tratta, esattamente, delle norme che risolvono il problema, sopra citato, della necessaria approssimazione, in molti casi, dell’accertamento dell’evasione fiscale. Essa non è come il furto, dove c’è una vittima che può indicare esattamente cosa gli è stato sottratto, ma, è spesso la sottrazione di un qualcosa che non si può determinare in modo preciso.

Ebbene, a fronte della sicurezza dell’evasione fiscale, non avrebbe certo senso non recuperare alcuna imposta, per il solo fatto che non si riesce a stabilire esattamente e puntualmente quanta essa sia.

È, allora, necessario un criterio di approssimazione. E tale criterio è, appunto, proprio quello fornito dagli disposizioni in materia di presunzioni semplicissime. Esse significano solo che, quando è sicuro che esista un’evasione fiscale, ma essa si può determinare soltanto come compresa in una fascia di valori, si può accertare un valore compreso in tale fascia, anche se spesso non è determinato in modo preciso.

Per dirlo altrimenti, si ipotizzi che il contribuente Tizio dichiari 0 come reddito. Si può immaginare che tale valore sia del tutto inverosimile, e che resti non verosimile fino al valore 100, che sia, cioè, ragionevolmente certo che il reddito sia almeno 100. Si ipotizzi che la probabilità però si mantenga la stessa fino a 200, per poi decrescere, diventando via via sempre più inverosimile. La regola sulle presunzioni semplicissime facoltizza, semplicemente, un accertamento fiscale nella fascia tra 100-200 (quello con il rischio statistico di errore minore, a parità di probabilità sarebbe 150), mentre un accertamento oltre ogni ragionevole dubbio sarebbe quello del valore 100, visto che è ragionevolmente certo non possa essere di meno, mentre potrebbe essere ragionevolmente dubbio, per ogni valore superiore, che possa essere di meno.

Come si vede, insomma, il disallineamento tra standard probatori penali i tributari è, in realtà, assai meno rilevante di quanto non si affermi normalmente.

Esso non può, innanzitutto, concernere la materia sanzionatoria amministrativa.

Inoltre, anche nella materia dell’imposta, esso non può che riguardare i limitati casi in cui siano previste le presunzioni semplicissime.

E, anche rispetto a questi casi, esso si riduce solo al problema di quale valore individuare, tra quelli ugualmente probabili, in presenza della prova positiva e concreta della evasione.

7. Ne pare conseguire che la trasandatezza con cui si procede in sede tributaria alla determinazione dell’imposta evasa non ha una base legale, perché gli standard tributari e quelli penali, in realtà, sarebbero molto più vicini di quanto non si ritiene.

Ne consegue, altresì, che la diffidenza con cui il giudice penale e i Pubblici Ministeri approcciano le valutazioni tributarie sono molto fondate, ma perché il diritto tributario soffre di una patologia, non di un diverso regime legale.

Tra l’altro, sarebbe interessante domandarsi quanto, anche di quella limitata differenza di cui ci siamo intervenuti intrattenuti poco sopra, quanto alle presunzioni semplicissime, sopravviva alla nuova formulazione, introdotta nel 2022, dell’art. 7 del decreto sul contenzioso tributario. Il nuovo comma 5-bis di tale norma virgola prevede che l’accertamento tributario debba essere annullato se la prova della sua fondatezza manca, è contraddittoria o se è comunque insufficientemente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale la fondatezza delle contestazioni. In effetti, il riferimento alla prova circostanziata e puntuale parrebbe costituire proprio un ulteriore Requiem per le presunzioni semplicissime intese nel senso sciatto della corrente prassi.

8. Resta da occuparsi della seconda parte del programma di queste riflessioni e, cioè, del rapporto tra imposta evasa e profitto del reato.

Alcuni punti fermi in proposito possono ritenersi acquisiti.

In primo luogo, il fatto che come profitto del reato può configurarsi non solo l’incremento positivo nelle disponibilità del reo ma anche un mancato decremento, cioè un illecito risparmio di spesa. Tale, tipicamente, l’imposta che il contribuente reo dovrebbe versare e non versa per effetto del reato. In maniera altrettanto pacifica è da escludersi che possa considerarsi profitto del reato tributario l’eventuale importo della sanzione amministrativa pecuniaria conseguente al reato. Ciò, per la ovvia ragione che la sanzione è conseguenza del reato: non è un importo che, in assenza di evasione fiscale, si sarebbe dovuto pagare.

Il problema si era posto, in passato, perché si era pensato di poter procedere al sequestro alla confisca non solo dell’imposta ma anche delle sanzioni, con ciò confondendo l’ottica preventiva con quella conservativa o di soddisfazione di un credito.

La giurisprudenza più recente esclude anche che nel profitto del reato possano rientrare gli interessi quali accessori dell’imposta. Se, in effetti, essi sono il ristoro del danno patito dal creditore per il ritardato pagamento, essi sono una conseguenza della violazione e non corrispondono a un profitto o a un risparmio di spesa per il reo. Volendo, ci si potrebbe, semmai, domandare, a proposito di interessi in senso lato, se, nell’ambito dei profitti del reato tributario, non potrebbe ricomprendersi anche il provato conseguimento di vantaggi finanziari sulle somme che si sarebbero dovute versare per l’imposta e che, invece, si sono investite.

Quanto procede vale, ovviamente per la determinazione del profitto rispetto ai reati di evasione. Un discorso parzialmente diverso, per completezza, concerne invece i delitti che riguardano la dispersione della garanzia patrimoniale e, in particolare, quello di cui l’art. 11 D.Lgs. n. 74/2000. Esso punisce, come noto, chi compie atti fraudolenti sul proprio patrimonio per sottrarsi agli obblighi di pagamento che derivano dalle leggi tributarie. Questo delitto potrebbe anche avere l’effetto di sottrarsi illecitamente al pagamento, non solo del tributo, ma anche di interessi e sanzioni ed è, quindi, logico ritenere che rientri nel concetto di profitto a differenza che nei reati di evasione, anche il risparmio di spesa per interessi e sanzioni.

9. Un caso particolarmente problematico, a mio avviso, su cui concentrarsi per formulare qualche ulteriore considerazione, pratica e critica, è quello delle cosiddette frodi carosello IVA. Intendiamo riferirci, come è chiaro, non alle ipotesi di acquisti da cartiere, ipotesi nelle quali si procede a un acquisto finto, per fabbricarsi un costo o un’IVA altrettanto finti, da dedurre o detrarre, quando, invece, non si è sostenuto alcun onere, ma all’ipotesi in cui sia acquistato veramente da un soggetto che, però, omette di versare l’IVA.

Nella pratica si afferma correntemente che si tratterebbe di ipotesi di acquisti per operazioni inesistenti e che sia il venditore, sia il compratore realizzerebbero un profitto corrispondente all’IVA evasa perché non versata.

A mio avviso, queste ipotesi richiederebbero una maggiore attenzione.

Intanto distinguendo casi diversi.

Una prima fattispecie è quella nella quale compratore e venditore sono d’accordo che quella che viene esposta in fattura come IVA, in realtà, non sarà versata. Oppure, anche senza un esplicito accordo, nel caso in cui il compratore sappia che quella che viene esposta come IVA, in realtà, non sarà versata.

In effetti, in questo caso, vi è, anche civilisticamente, una sorta di IVA simulata. Se nella fattura è scritto un corrispettivo di 100 e un’IVA di 22 ma è convenuto o risaputo che il venditore tratterrà tutti i 122, è evidente che i 122 sono tutto prezzo e non è versata alcuna IVA, quindi è corretto, mi sembra, affermare che anche il compratore la sta evadendo: finge di pagarla ma in realtà è tutto prezzo.

Ne consegue, però, anche, a rigore di logica, e sempre che non mi inganni, che, a differenza di quanto si fa nella prassi consolidata, l’IVA evasa non è 22, ma il 22% di 122. La diversa soluzione che mi risulta si adotti spesso nella pratica è parallela a quella che si adotta rispetto al caso in cui siano accertate vendite in nero di 100: si considera il prezzo comprensivo di IVA. E ciò si fa, credo, per parallele ragioni di semplicità, per evitare che, se dopo che hai scoperta la vendita in nero, si chiede di pagare al venditore, esso possa poi andare a esercitare la rivalsa tardiva nei confronti del suo cliente, creando problemi a cascata. Nel caso della frode carosello, però, se è così, tale cautela, avrebbe un esito paradossale: si riscuote meno imposta per evitare i problemi di rivalsa successiva.

La cosa, se non mi inganno, è paradossale perché si riscuote meno imposta per tutelare la neutralità di essa tra soggetti delinquenti. Non è chi non veda la disarmonia: tali preoccupazioni non ci sono nel caso, meno grave, di cliente che acquisti, fuori dai casi di frode carosello consapevole, da un fornitore che omette il versamento dell’IVA: si nega, senza alcun problema la detrazione, se non è stato negligente: ma allora perché invece preoccuparsi della rivalsa del fornitore delinquente?

Se, in sede penalistica, si seguisse questa logica (il profitto è l’IVA calcolata su tutto il prezzo effettivo, compresa l’IVA simulata), si avrebbe un’altra differenza tra materia tributaria e penale.

10. Esiste, però, anche un’altra ipotesi, quella nella quale il compratore non sa che l’IVA non sarà versata. In tal caso a livello tributario, gli viene negata la detrazione, se non dimostra di essere stato diligente. Ma qui egli ha già pagato l’IVA al suo fornitore: gli viene chiesto di pagarla una seconda volta per punire la sua negligenza. Ne consegue che il diniego di detrazione per il cliente negligente non è la richiesta di un’imposta evasa, ma è, nella sostanza, una sanzione per la sua negligenza. Ne consegue, ancora, che, sul piano tributario, non sembra assolutamente giustificato sanzionare il cliente negligente, oltre che col diniego di detrazione, anche con una sanzione amministrativa pecuniaria, perché sarebbe un caso evidentissimo di bis in idem, del tutto sproporzionato. La detrazione viene negata non perché si evade, ma per punire del fatto che non si è controllata l’evasione altrui, per un IVA che si è regolarmente pagata. Si tratta di un profilo ancora inesplorato nella giurisprudenza tributaria.

Ma ne potrebbero conseguire anche effetti in sede penale: se l’IVA di cui si nega la detrazione e una sanzione, essa non è un profitto e, quindi non può essere sequestrata confiscata.

Mi aspetto, a questo proposito, un’obiezione, e cioè: ma stiamo trattando di ipotesi in cui il cliente non sa che l’IVA non sarà versata, come fa a esserci un reato se il cliente non lo sa?

Qui si aprirebbe il tema del possibile concorso, nel reato commesso dal venditore che non versa l’IVA, del cliente che agisca con dolo eventuale, che, cioè, non sappia che l’IVA non sarà versata, ma ne accetti il rischio. Che si possa concorrere a titolo di dolo eventuale in un delitto, a dolo specifico, quale l’art. 8 D.Lgs. n. 74/2000 commesso dal venditore è dubbio.

Non c’è qui spazio per approfondire il tema ma è comunque opportuno sottolineare che a mio avviso, pur trattandosi di opinioni isolata, qui si sconta un’evidente errore di prospettiva. Nell’ipotesi di frode carosello ci si trova di fronte a una frode nella riscossione. I reati fraudolenti di cui agli artt. 2 e 8 D.Lgs. n. 74/2000 sono reati nei quali l’evasione fiscale è celata dietro un’apparenza artificiosa e ingannevole, e solo per questo sono puniti così gravemente. Nell’ipotesi di frode carosello l’evasione non è affatto celata dietro un’apparenza ingannevole e fraudolenta: l’evasione è completamente alla luce del sole e consiste nel fatto che l’IVA esposta in fattura non viene versata. Non siamo, per usare una simmetria tratta dal diritto penale generale, nel campo della truffa di cui all’art. 640 c.p.p., ma siamo nel campo dell’insolvenza fraudolenta, di cui all’art. 641 c.p.p. I reati che qui si commettono non sono – lo dicono consapevole del fatto che si tratta di tesi isolata, ma sono convinto che sia assolutamente esatta – gli artt. 2 e 8, ma, molto più semplicemente, e con molta maggior facilità di prova, tra l’altro, degli omessi versamenti, per la parte di inadempimento del debito, e, per la parte in cui si utilizzino società schermo, buffer e missing trader, che sono coinvolti semplicemente per ostacolare la ricostruzione dei flussi finanziari e dei profitti, dei delitti di riciclaggio o autoriciclaggio.

11. Resta, infine, un ultimo profilo, che corrisponde all’interrogativo se il profitto del reato tributario possa talvolta essere anche qualcosa di diverso e di ulteriore rispetto l’imposta evasa. Abbiamo già visto una ipotesi, ed è quella delle violazioni di cui all’art. 11, la sottrazione fraudolenta al pagamento di debiti tributari, ma vale la pena di domandarsi se non ci sia anche qualcosa di più ampio e strutturale.

In effetti, in ipotesi estreme, i delitti di evasione fiscale possono essere non tanto lo strumento per ottenere un risparmio indebito e illecito e, cioè, l’imposta evasa, ma lo strumento per ottenere un obiettivo ben più ampio, cioè la conquista di posizioni di mercato, magari di dominio del mercato, altrimenti non ottenibili. Così come il delitto di corruzione può essere lo strumento per procacciarsi affari non altrimenti ottenibili, in casi estremi la commissione di diritti fiscali può essere lo strumento per inserirsi o conquistare fette di mercato che senza l’illecito non sarebbero raggiungibili.

In questa ipotesi, non sarebbe possibile affermare che profitto del reato non è solo l’imposta evasa ma anche l’utile delle quote di mercato conquistate illecitamente attraverso l’uso sistematico di evasioni fiscali?

A me sembra che la risposta positiva sia corretta, con una importante precisazione.

Tale condizione si realizza non nel caso in cui ci sia un operatore economico con occasionali evasioni fiscali, e nemmeno nel caso in cui le evasioni fiscali siano sistematiche, abituali, e nemmeno, di per sé nel caso di un evasore cosiddetto totale.

Ma solo nel caso in cui sia positivamente dimostrato che, senza evasioni fiscali, non si sarebbe potuto avere accesso al mercato, o a quelle quote di mercato. Se si condivide la premessa che l’evasione fiscale come strumento di concorrenza sleale e di dolosa e illecita conquista di fette di mercato abbia come profitto tutto l’utile illecitamente acquisito, sarebbe comunque necessaria una particolare prudenza.

Questo strumento, applicato con il vetusto canone previsto per i per le misure cautelari reali e, cioè, la astratta riconducibilità del fatto di reato prescritto ha un’ipotesi criminosa, avrebbe effetti devastanti e irreparabili, da evitare.

Occorrerebbe un prudente e rigoroso vaglio degli indizi è una attenta individuazione di quelli effettivamente significativi di una dolosa strumentalizzazione dell’evasione fiscale alla concorrenza sleale, normalmente tipici di strutture di criminalità sostanzialmente organizzata.

In questo senso uno appare l’indizio principe, nella galassia di quelli, spesso ambigui e insignificanti individuati dalla prassi (mancanza di mezzi, magazzini, dipendenti, tutte elementi incongrui) e, cioè, la conclamata ed esclusiva o sistematica vendita sottocosto: chi vende effettivamente sottocosto, e non episodicamente e nella esecuzione di una manovra pubblicitaria iniziale, ma finanziandosi sistematicamente e inequivocabilmente con l’evasione, solo in questo modo conquistando fette di mercato e di utili abnorme, potrebbe incorrere nelle conseguenze, rigorose, di tale innovativa impostazione.

Si tratta di una delicata ipotesi di lavoro, da verificare.

(*) Relazione tenuta al Corso della Scuola Superiore della Magistratura “Accertamento tributario e procedimento penale”, tenutosi in Genova il 23 e 24 maggio 2024.

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