Editoriale – Formalità, formalismo ed efficienza della giustizia, spunti a margine del “caso Patricolo”: proporzionalità e processo.

Di Alberto Marcheselli -

I. La sentenza 23 maggio 2024 della Cedu (Patricolo vs Italia) è lo spunto per qualche brevissima riflessione.

La Corte condanna l’Italia per eccessivo formalismo giudiziario per una interpretazione e applicazione dell’art. 369 c.p.c., nel senso che il ricorso per cassazione sarebbe improcedibile, in difetto di deposito della copia autentica della sentenza nei termini di deposito del ricorso, non ammettendosi che la prova della autenticità possa essere data anche successivamente e prima della decisione.

Il caso specifico è interessante, ma lo sono ancora di più alcuni corollari e spunti.

Nel merito, appare bilanciato e condivisibile che l’efficienza della giustizia è un valore fondamentale, la risorsa giurisdizionale preziosa e scarsa (e quindi da utilizzare con parsimonia) e che ogni misura che renda concentrato ed efficiente il giudizio (anche evitando contenziosi inutili) sia apprezzabile. Ciò tuttavia non deve trasmodare in una sproporzionata limitazione del diritto di azione e difesa in giudizio.

E, probabilmente, ancorare a un termine giugulatorio la autentica della sentenza (forse addirittura il fatto di ritenerla necessaria in assenza di contestazioni), era sproporzionato: l’importante è che in assenza di autentica si possa efficientemente dichiarare l’improcedibilità.

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II. La questione è settoriale.

Probabilmente essa è anche in via di progressiva sdrammatizzazione: viene da domandarsi che ne possa restare, ragionevolmente, con la informatizzazione progressiva di tutti i fascicoli, per esempio, visto che il controllo si può fare direttamente dalle cancellerie e dai giudici, e va registrato con favore il fatto che la recente riforma abbia stabilito il principio che le caratteristiche informatiche degli atti debbono essere rispettate ma, di regola, non a pena di inammissibilità o improcedibilità o nullità, ma semmai solo ai fini della determinazione delle spese di lite.

Essa, anche se settoriale, è interessante per due motivi.

Il primo è che mette in evidenza la differenza tra formalità e formalismi e la portata del principio di proporzionalità anche in sede processuale. Ogni regola procedimentale andrà scrutinata alla luce di questa importante lente.

Il secondo motivo è che induce a qualche riflessione sul modo migliore per tutelare il bene giustizia. A fronte di una litigiosità piuttosto accentuata in materia tributaria (ma, per vero, ormai grandemente scemata nelle fasi di merito, per cui quella emergenza pare decisamente superata, almeno allo stato), soprattutto in Cassazione, si può riflettere sui rimedi.

La via maestra, per la verità, sarebbe estranea alla giurisdizione e più strutturale: legiferare bene e amministrare in modo efficiente e non capzioso; se le le leggi continuano ad essere poco lucide (perché poco lucida è la comprensione dei problemi, anche per colpa di noi della dottrina) e/o l’Amministrazione assomiglia a quella di “un Fiorino” di “Non ci resta che piangere”, pensare di risolvere i problemi operando solo sul lato giustizia equivarrebbe a soccorrere gli alluvionati aumentano il numero di cucchiai per raccogliere l’acqua in dotazione ai soccorritori.

Ciò non toglie che qualche riflessione si potrebbe fare.

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III. La mia convinzione in proposito è che il problema non sia tanto processare meno (anche se è una reazione di legittima difesa, a fronte di un assalto di fascicoli, che il giudice, e non solo l’imputato, cerchi di “difendersi dal processo”).

Ma che la soluzione sia, come ripeto spesso, processare meglio. Decisioni meditate, giuste, solide, veramente nomofilattiche, scoraggiano il contenzioso. Questa è la migliore efficienza, non quella delle quantità (decisioni veloci, ma con il rischio di essere frettolose, poco stabili). Questa seconda è una pseudoefficienza.

E qualcosa si potrebbe fare.

Per esempio rendersi conto del fatto che una gran parte del contenzioso tributario in Cassazione passa per il grimaldello dell’abuso del concetto di onere della prova. Le parti, scontente di come il giudice ha apprezzato la prova, che è una questione di mero fatto, attraverso l’utilizzo della abile espressione “ha assolto/non ha assolto all’onere della prova” travestono la questione del raggiungimento della prova sotto la forma seducente di una inesistente violazione dell’onere della prova. Quando, invece, in giudizio l’onere della prova non è se la prova ci sia o chi la deve dare o se la ha data, ma solo cosa succede se, alla fine dell’istruttoria, il caso rimane incerto.

Questa è la porta per cui passano decine di migliaia di ricorsi inammissibili, che sono tra i maggiori azionisti dell’arretrato in Cassazione. Una porta che resta socchiusa anche per la diffusa percezione di una certa superficialità (a partire nella fase amministrativa) nel valutare la prova. Superficialità che andrebbe sterilizzata.

Ma questa è la porta per cui si crea un enorme fatica per la Corte: stabilire del parametri per determinare se la prova c’è o non c’è. Enorme fatica, del tutto estranea all’Alto Ruolo della Suprema Corte (nomofilachia: interpretazione suprema della legge, ma non stabilire regole standard per determinare se i maggiordomi abbiano ucciso la contessa, Tizio sia un ricettatore o Caio un evasore). Estranea al ruolo della Corte e creativa di un carico di lavoro enorme. E, alla fine, creatrice di mostri giuridici: come pretese inversioni giurisprudenziali di regole legali, quando invece il tema è solo se la prova nel singolo processo esista o meno. Da una espressione malandrina dei ricorrenti “non ha assolto l’onere della prova” riportata sotto l’ombrello della violazione dell’art. 2697 c.c. è nato il mostro, anzi due mostri: un numero mostruoso e decisioni a volte frettolose.

Forse, anche prendendo spunto dal testo, assai più pregevole di quanto non si pensi, del comma 5 bis dell’art. 7 del d.lgs. 546/1992, si possono coltivare dei begli anticorpi a difesa della giustizia e della giurisdizione, rimettendo al centro del villaggio la funzione solo nomofilattica della Corte, a fronte di un adeguato piglio istruttorio dei giudici di merito.

Per altro verso, una ulteriore semplificazione proporzionata, potrebbe essere estendere la proposta di decisione ex art. 380 bis c.p.c. anche ai casi di accoglimento del ricorso (ipotizzando una decisione semplificata, per punti o riproduzione degli atti di parte necessari a formulare l’eventuale principio di diritto, nel caso di rinvio). Ciò non solo allargherebbe la possibilità di decisioni rapide, ulteriormente aggredendo in modo rapido efficiente l’arretrato, ma rimedierebbe alla vistosa anomalia di uno “scivolo asimmetrico” come quello attuale: dove è molto semplificata solo la decisione di rigetto o inammissibilità, con tutti gli immanenti rischi di “strabismo giudiziario” che ne conseguono.

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