Forma, contenuto e pubblicità delle sentenze dopo la riforma del processo tributario

Di Federico Rasi -

Abstract (*)

Il D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220 ha proceduto ad aggiornare le norme che il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 dedica alla “sentenza”, andando non solo a precisarne meglio il suo contenuto, ma anche offrendo al giudice la possibilità di redigerla in forma semplificata. Sono state così introdotti elementi che per il processo tributario costituiscono una novità assoluta, ma che, invece, sono noti già rodati nel processo civile e in quello amministrativo. Scopo delle presenti note è valutare l’impatto di tali interventi evidenziandone opportunità e criticità.

Form, content and publicity of judgements after the reform of the tax process –Legislative Decree No. 220 of December 30, 2023, updated the rules that Legislative Decree No. 546 of December 31, 1992, sets out for the “judgment”, not only better specifying its content, but also offering the judge the possibility of drafting it in a simplified form. These elements constitute a complete novelty for the tax trial, but on the other hand, are already well known in the civil and administrative trials. The purpose of these notes is to assess the impact of these new rules and highlight the opportunities they offer and critical issues they raise.

Sommario: 1. Considerazioni sulle fonti normative di riferimento. – 2. Considerazioni sulla motivazione “in forma ordinaria” della sentenza. – 3. Considerazioni sulla motivazione “in forma semplificata” della sentenza. – 4. Considerazioni sula possibilità di censurare la novella normativa per eccesso di delega.

1. Il D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220, ha proceduto ad aggiornare le norme che il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 dedica alla “sentenza”. Il legislatore risulta essere intervenuto sotto più punti di vista:

  • richiedendo anche ai giudici di procedere alla redazione dei loro atti «in modo chiaro e sintetico» (art. 17-ter D.Lgs. n. 546/1992);

  • prevedendo che al termine dell’udienza sia data «lettura immediata del dispositivo, salva la facoltà di riservarne il deposito in segreteria e la sua contestuale comunicazione ai difensori delle parti costituite entro il termine perentorio dei successivi sette giorni» (art. 35 D.Lgs. n. 546/1992);

  • puntualizzando che la sentenza rechi la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto «di accoglimento o di rigetto, relativi alle questioni di merito ed alle questioni attinenti ai vizi di annullabilità o di nullità dell’atto» (art. 36 D.Lgs. n. 546/1992);

  • adeguando le regole del deposito della sentenza all’avvento del processo tributario telematico e, dunque, prevedendo che la pubblicità della sentenza sia assicurata dal deposito «telematico» della stessa cui provvede il segretario della Corte «apponendovi la propria firma digitale e la data, dandone comunicazione alle parti costituite entro tre giorni dal deposito» (art. 37 D.Lgs. n. 546/1992);

  • consentendo, infine, al giudice solo in sede cautelare e solo a condizione che la causa risulti “matura” per la decisione (ovverosia una volta «accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria», nonché «sentite […] le parti costituite») di procedere all’immediata definizione del merito della causa «con sentenza in forma semplificata». Il giudice, più precisamente, vi può procedere «quando ravvisa la manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso»; in tal caso «la motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme» (art. 47-ter D.Lgs. n. 546/1992).

Si tratta di una serie di previsioni di respiro anche più ampio di quello che si poteva ipotizzare scorrendo la legge delega 9 agosto 2023, n. 111. L’art. 19 di tale legge, per quanto qui di interesse, più genericamente, si limitava a prevedere che il Governo fosse delegato solo a:

  • «b) ampliare e potenziare l’informatizzazione della giustizia tributaria mediante:

1) la semplificazione della normativa processuale funzionale alla completa digitalizzazione del processo;

2) l’obbligo dell’utilizzo di modelli predefiniti per la redazione degli atti processuali, dei verbali e dei provvedimenti giurisdizionali»;

  • «e) prevedere la pubblicazione e la successiva comunicazione alle parti del dispositivo dei provvedimenti giurisdizionali entro sette giorni dalla deliberazione di merito, salva la possibilità di depositare la sentenza nei trenta giorni successivi alla comunicazione del dispositivo»:

  • «f) accelerare lo svolgimento della fase cautelare anche nei gradi di giudizio successivi al primo».

Dal confronto tra le norme del decreto delegato e quelle della legge delega, risulta evidente come il primo non si sia solo limitato a dare attuazione alla seconda, ma abbia inteso farlo in modo alquanto ampio andando oltre quelli che potevano risolversi in meri interventi tecnici. Il D.Lgs. n. 220/2023 presenta norme sostanzialmente coerenti con quelle della L. n. 111/2023, ma allo stesso tempo dotate di una certa autonomia. Ciò pone il problema di valutare se le scelte del legislatore delegato possano essere censurate per eccesso di delega. Non ci si intende sottrarre a tale analisi, ma la si rinvia alle conclusioni del presente intervento una volta analizzata la novella normativa.

Quanto al metodo adottato per la revisione del D.Lgs. n. 546/1992, si può sin d’ora osservare come il legislatore abbia proceduto attingendo a moduli decisori ed esperienze di altri processi. Sotto questo punto di vista, l’elemento di maggiore novità è rappresentato dal fatto che non abbia agito, “secondo la tradizione” (e secondo l’art. 1 D.Lgs. n. 546/1992), facendo riferimento al codice di procedura civile, ma, “in modo innovativo”, guardando al codice del processo amministrativo.

2. L’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, come anticipato, è stato modificato per aggiungere al comma 2, n. 4), le parole «di accoglimento o di rigetto, relativi alle questioni di merito ed alle questioni attinenti ai vizi di annullabilità o di nullità dell’atto» andando così a puntualizzare l’oggetto della «succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto» che il giudice è tenuto a redigere. La norma solleva diversi dubbi interpretativi.

Deve essere valutata la portata pratica di tale innovazione comprendendo innanzitutto il significato del termine «questioni».

Si ritiene che per attribuire ad esso il corretto significato si debba procedere secondo un approccio sistematico richiamandosi al significato che la stessa nozione ha in altre norme del D.Lgs. n. 546/1992. Essa ricorre in varie disposizioni, ma sicuramente quella di maggior rilievo è l’art. 56, dove viene menzionata già nella rubrica della norma. Si tratta, come noto, della disposizione che regola la sorte in appello delle «questioni ed eccezioni non riproposte». Per la Cassazione tale vocabolo, «non ha un’accezione più ampia di quella contenuta nell’art. 346 c.p.c., il quale si riferisce alle “domande”, e non comprende quindi, per l’effetto, anche le mere “argomentazioni giuridiche”» (Cass., ord. 12 dicembre 2023, n. 34775; Cass., ord. 12 luglio 2023, n. 19904; Cass., 20 ottobre 2010, n. 21506). In questa prospettiva, il termine “questioni” va, dunque, inteso quale sinonimo di “domande” (cfr. sul tema Pistolesi F., Il processo tributario, Torino, 2023, 265; Id., Il giudizio di appello, in Baglione T. – Menchini S. – Miccinesi M. et Al., Il nuovo processo tributario. Commentario, Milano, 1997, 726; Id., Art. 56. Questioni ed eccezioni non riproposte [voce], in Consolo C. – Glendi C., a cura di, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2023, 868. Cfr. anche Russo P., L’appello, in Russo P., Manuale di diritto tributario. Il Processo tributario, Milano, 2013, 303; Corrado Oliva C. – Teodoldi A., L’appello nel processo tributario, in Consolo C. – Melis G. – Perrino A.M., a cura di, Il giudizio tributario, Milano, 2022, 518; Dalla Bontà S., Art. 56. Questioni ed eccezioni non riproposte [voce], in Consolo C. – Glendi C., a cura di, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2023, 868).

Ai fini che qui interessano, va, inoltre, rilevato come il legislatore richieda che la motivazione della sentenza tributaria sia la più ampia possibile e riguardi tutti i profili in cui si articola l’obbligazione tributaria (la pretesa in quanto tale e l’atto attraverso cui è fatto valere) e tutti i possibili esiti di tali approfondimenti (il loro accoglimento o il loro rigetto).

Con riferimento, invece, alla specificazione per cui l’oggetto della motivazione è tanto l’accoglimento delle domande, quanto il rigetto, a una prima lettura si potrebbe ritenere la modifica normativa “banale”, dal momento che, anche prima della riforma, l’obbligo motivazionale del giudice concerneva gli stessi profili; all’atto pratico si può, invece, provare a dare un diverso significato all’intervento normativo. I chiarimenti offerti dal legislatore vogliono probabilmente essere un “richiamo”, anzi un “monito”, ai giudici affinché non tralascino alcun profilo di quelli portati alla loro attenzione e redigano sentenze puntuali. L’intenzione del legislatore sembrerebbe, dunque, quella di incrementare la qualità delle sentenze dei giudici tributari puntualizzando i confini entro cui gli stessi dovranno esprimersi. Così facendo, dovrebbe ridursi il numero dei casi in cui, soprattutto innanzi alla Corte di Cassazione, le sentenze di merito sono impugnate eccependo il difetto di omessa pronuncia o di violazione del principio del chiesto e pronunciato delle sentenze di merito. Si vogliono evitare le note (e ricorrenti) ipotesi di motivazione “apparente” o “perplessa e incomprensibile” che ricorrono quanto la motivazione della sentenza, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguìto per la formazione del convincimento (Cass., ord. 22 dicembre 2023, n. 35851).

Proseguendo nell’analisi del novellato testo dell’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, va osservato come esso si ponga in continuità con l’obiettivo della legge delega di definire (finalmente) una disciplina generale delle cause di invalidità degli atti impositivi e degli atti della riscossione.

Il legislatore, in sede di modifica dello Statuto dei diritti del contribuente, è, infatti, intervenuto inserendo nella L. 27 luglio 2000, n. 212, gli artt. 7-bis e seguenti i quali prevedono che, in relazione agli atti dell’Amministrazione finanziaria (impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria), possano essere eccepiti i vizi di:

  • «annullabilità» per violazione di legge, ivi incluse le norme sulla competenza, sul procedimento, sulla partecipazione del contribuente e sulla validità degli atti. Lo prevede l’art. 7-bis, il quale, oltre a riferirsi nella sua rubrica testualmente solo al vizio dell’«annullabilità» e a ribadirlo nel primo comma, nel secondo comma disciplina anche i vizi di «infondatezza» dello stesso atto. La stessa norma precisa, infine, che non comporta annullabilità la mera «irregolarità» nel fornire nell’atto talune indicazioni operative;

  • «nullità» per difetto assoluto di attribuzione, se gli atti in questione sono adottati in violazione o elusione di giudicato, ovvero se gli stessi sono affetti da altri vizi di nullità qualificati come tali dal legislatore.

L’art. 7-quinquies prevede inoltre l’“inutilizzabilità” nell’atto impositivo degli elementi di prova acquisiti in violazione di legge. Ai fini che qui interessano va ricordato che, operativamente, il giudice, qualora ritenga integrata tale evenienza, la dovrà dichiarare nella sentenza.

L’art. 7-sexies, infine, elenca i vizi delle notificazioni disponendo, conformemente al codice di procedura civile e alla giurisprudenza, che possa essere accertata e dichiarata:

  • l’“inesistenza” della notifica in presenza di talune specifiche ipotesi che determinano l’«inefficacia» della procedura;

  • la «nullità» della medesima notifica in tutte gli altri casi, salvo il raggiungimento dello scopo della stessa.

Mentre nella L. n. 212/2002 si rinviene un’articolata casistica, nel D.Lgs. n 546/1992 le stesse ipotesi si riducono alla nullità e alla annullabilità. È certamente vero che queste due categorie sono quelle che effettivamente esauriscono i possibili effetti sull’atto tributario di una violazione delle norme impositive o delle norme procedimentali, ma appunto si tratta degli effetti delle violazioni. L’obbligo motivazionale del giudice non potrà limitarsi a riguardare gli effetti della violazione di una norma, dovrà piuttosto concentrarsi sulle cause delle violazioni poste in essere dall’Amministrazione che generano tali effetti. Si pensi al caso in cui venga dichiarato il vizio dell’inutilizzabilità di una prova illegittimamente acquisita; la Corte non potrà non dare atto delle ragioni per cui la riterrà sussistente e allo stesso modo non potrà non dare atto delle ragioni per cui dichiarerà o meno il conseguente annullamento dell’atto impositivo (o la parte dello stesso) che si fonda su tali elementi.

Continuando ad analizzare i vizi oggetto di motivazione, va rilevata la circostanza che la norma non sembrerebbe richiedere alcun obbligo di fornire una succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto che determinano la nullità o l’annullamento del ricorso.

Testualmente la norma riferisce l’obbligo di motivazione ai vizi dell’“atto” e non a quelli del “ricorso” e nemmeno alle eventuali “vicende processuali” che si possono verificare. Inoltre, la norma in questione ha una portata generale idonea a trovare applicazione anche nel giudizio di appello, ove, ai sensi dell’art. 53 D.Lgs. n. 546/1992, l’oggetto della domanda posta al giudice è la riforma o l’annullamento della «sentenza impugnata» (Dalla Bontà S., Art. 53. Forma dell’appello [voce], in Consolo C. – Glendi C., Commentario breve alle leggi del processo tributario, Consolo C. – Glendi C., a cura di, Padova, 2023, 838).

Non pare accettabile una lettura della norma in esame per la quale non debba essere motivato l’accoglimento o il rigetto dei vizi relativi alla notifica del ricorso, all’inammissibilità dello stesso, all’estromissione di una parte o, in generale, ai vizi di annullabilità o nullità della procedura e, infine, ai vizi della decisione impugnata in grado di appello. Benché l’art. 36 in esame faccia testuale riferimento ai vizi «dell’atto», un’interpretazione restrittiva dello stesso che escluda tutte le predette patologie è inammissibile.

La conclusione per cui l’onere motivazionale del giudice dovrà coprire tanto i vizi dell’accertamento, quanto quelli del processo è altresì l’unica possibile in quanto discende dai principi generali del diritto processuale. Il giudice tributario non è stato in alcun modo svincolato dal rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato che si declina, tra gli altri, nel dovere di pronunciarsi su ogni questione e domanda formulata dalle parti e non oltre i limiti di essa (Pistolesi F., Il processo tributario, cit., 187).

Non vale a contrastare tale conclusione nemmeno la prassi delle Corti, avallata dalla Cassazione, di decidere secondo il principio della “ragione più liquida”.

Tale principio va piuttosto correttamente definito e va ricordato come, secondo la giurisprudenza della Cassazione, esso possa essere invocato «solo per decidere la controversia in base alla questione di merito che, pur se logicamente subordinata ad altre questioni di merito, venga ritenuta più “liquida”; ma non può ritenersi operante nel rapporto tra questioni di rito e questioni di merito» (Cass., sez. II, ord. 29 settembre 2020, n. 20557). Per la Cassazione, l’esigenza del giudicante di definire il processo celermente può valere a mettere sullo stesso piano questioni aventi uguale natura, ma non questioni aventi natura diversa. Ne consegue che il criterio della ragione più liquida non può ritenersi operante proprio nel rapporto tra questioni pregiudiziali di rito e questioni di merito, ma trova applicazione solo nel rapporto tra questioni preliminari di merito e altre questioni di merito o anche tra questioni di merito equi-ordinate.

Declinando tale criterio secondo la prospettiva tributaria, ne deriva che questioni relative alla pretesa, questioni relative all’atto, questioni relative al ricorso e questioni relative allo svolgimento della fase processuale dovranno essere tutte valutate separatamente le une dalle altre e tutte le soluzioni offerte dovranno essere motivate in modo adeguato rispetto a ciascuna delle questioni prospettate. Il nuovo art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, dal momento che distingue le varie patologie dell’atto (del ricorso e della sentenza), dovrebbe essere interpretato proprio nel senso di richiedere che sia espressamente motivato l’accoglimento o il rigetto di ciascuna categoria di patologia.

La necessità di procedere a un allargamento dell’onere motivazionale non solo alle vicende relative all’atto, ma anche a quelle relative al ricorso, deriva poi dal confronto “interno” con l’art. 47-ter D.Lgs. n. 546/1992. Secondo tale norma il giudice decide con sentenza in forma semplificata della manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del «ricorso».

Nonostante l’evidente differenza di formulazione letterale, le due norme non potranno essere interpretate nel senso di imporre al giudice ambiti di indagine diversi. Ciò che distinguerà l’azione del giudice da un caso all’altro non sarà l’oggetto della sua decisione, ma l’immediatezza con cui tale decisione sarà resa in quanto potrà ricorrere alla sentenza in forma semplificata solo se la questione sarà di pronta soluzione e l’esito “manifesto”, potendosi rinvenire un profilo immediatamente “risolutivo”. In altri termini, in entrambe le ipotesi il giudice potrà decidere delle questioni di merito della pretesa, potrà valutare la nullità o l’annullamento tanto dell’atto quanto del ricorso, ma potrà ricorrere alla sentenza in forma semplificata solo se l’accoglimento o il rigetto dei vizi denunciati sarà evidente.

Gli oneri motivazionali richiesti al giudice vanno, infine, valutati anche alla luce dell’introduzione nel D.Lgs. n. 546/1992 dell’art. 17-ter che pone l’obbligo di redigere gli atti del processo in modo chiaro e sintetico (Muleo S. – Vozza A., Modifiche al processo tributario: più ombre che luci, in il fisco, 2023, 47/48, 4464 ricordano che la norma agisce «in sintonia con la riforma del rito civile (c.d. Riforma Cartabia)» e che: – la chiarezza va riferita alla “qualità” della narrazione del fatto e del diritto, che deve essere intellegibile e non oscura; la sinteticità va riferita alla “quantità” dei fatti e delle argomentazioni giuridiche impiegate che devono essere quelli rilevanti ai fini della decisione). È previsto che tale regola valga per «gli atti del processo, i verbali e i provvedimenti giurisdizionali», dunque, anche per gli atti del giudice. Essa va, pertanto, coordinata con l’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, laddove richiede che il giudice proceda a un’esposizione «succinta».

La giurisprudenza (Cass., sez. III, ord. 15 novembre 2019, n. 29721; Cass., 5 aprile 2017, n. 8768) ha da tempo chiarito che il requisito della “motivazione concisa” non significa né una motivazione sbrigativa, né una motivazione incomprensibile; deve restare ferma la ratio dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziali, ovverosia quella di chiarire il ragionamento del giudice al fine di consentirne l’eventuale impugnazione. Ne risulterà, dunque, che una motivazione concisa sarà accettabile a condizione che dalla decisione siano, comunque, deducibili le ragioni della decisione alla luce degli elementi normativi che regolano la fattispecie. Laddove, invece, il ragionamento del giudice non renderà chiare le ragioni dell’organo giudicante, si verterà in un caso di motivazione apparente, incomprensibile o apodittica, che sarà causa di nullità della sentenza.

Le predette modifiche apportate dal legislatore alle regole che presiedono alla motivazione della sentenza devono, infine, essere coordinate con le modifiche già apportate all’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 dall’art. 6 L. n. 130/2022, in tema di ripartizione dell’onere della prova. Come noto, è ora previsto che il giudice fondi la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulli l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Gli artt. 7, comma 5-bis, 13-ter e 36, D.Lgs. n. 546/1992 creano, così, il corpus normativo cui il giudice dovrà riferirsi nel redigere la sentenza (sul tema cfr. Russo P., Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 2, XV, 1013; Melis G., Sul nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: sui profili temporali e sui rapporti con l’art. 2697 c.c. e con il profilo di vicinanza della prova, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 211; Muleo S., Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in Giustiziainsieme.it, 20 settembre 2022; Id., Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in Carinci A. – Pistolesi F., a cura di, La riforma della giustizia e del processo tributario, Milano, 2023, 85; Della Valle E., La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel processo tributario, in il fisco, 2022, 40, 3807; Viotto A., Prime riflessioni sulla riforma dell’onere della prova nel giudizio tributario, in Rass. trib., 2023, 2, 336; Sartori N., I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, passim; Donatelli S., L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 2023, 1, 25; Golisano M., Riflessioni in ordine all’impatto del nuovo comma 5-bis, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento alle imposte indirette, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 173 ss.). Si tratta di un insieme di regole alquanto ampio e dettagliato che concorrono a fare definitiva chiarezza sulle tecniche di redazione di tale atto.

3. Un’ulteriore novità, anzi una delle principali novità, della riforma attuata con il D.Lgs. n. 220/2023 è l’inserimento nel D.Lgs. n. 546/1992 dell’art. 47-ter. Questo prevede che il giudice (collegiale o monocratico) possa definire la causa nel merito già in sede di decisione della domanda cautelare purché:

  1. accerti prima la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria;

  2. senta sul punto le parti costituite;

  3. nessuna delle stesse parti dichiari di voler proporre motivi aggiunti o regolamento di giurisdizione.

In tal caso, la decisione potrà essere resa con sentenza in forma semplificata se verrà dichiarata la manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il che comporta altresì che «la motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme».

La norma rappresenta una pressoché pedissequa trasposizione dell’art. 60 c.p.a. relativo alla “Definizione del giudizio in esito all’udienza cautelare” e dell’art. 74 del medesimo codice, che disciplina “La sentenza in forma semplificata” (sul tema Ferrari G., Sentenza in forma semplificata e rinuncia al cautelare, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016) con l’unica differenza che, nonostante un diverso intendimento iniziale, nel processo tributario, queste due norme sono “fuse” in una norma unica.

Nella versione originale del testo normativo che poi è divenuto il D.Lgs. n. 220/2023, risulta come il legislatore tributario avesse voluto replicare nel processo tributario la medesima struttura e introdurre due distinte previsioni poi sintetizzate in una sola. Era, infatti, prevista l’introduzione:

  • di una norma con cui veniva fornita la nozione di sentenza in forma semplificata, destinata a divenire una modalità generale di risoluzione di tutte le controversie tributarie valida per tutti i casi in cui il giudice avesse ravvisato la manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso. Questa norma veniva introdotta con «l’obiettivo […] di rendere il processo più rapido in presenza di evidenti elementi che consentono una definizione immediata del giudizio sia per questioni processuali che di merito» (così la Relazione illustrativa a commento della proposta di introduzione di un art. 34-bis nel D.Lgs. n. 546/1992 – cfr. Atto del governo n. 99, recante “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contenzioso tributario”, trasmesso alla Presidenza del Senato il 5 dicembre 2023);

  • di un’altra norma con cui veniva concessa la possibilità di procedere alla definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata in esito alla domanda di sospensione, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e sentite sul punto le parti costituite. Questa norma veniva introdotta «nell’ottica di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario» (così la Relazione illustrativa a commento della proposta di introduzione di un art. 47-ter nel D.Lgs. n. 546/1992 – cfr. Atto del governo n. 99, recante “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contenzioso tributario”, trasmesso alla Presidenza del Senato il 5 dicembre 2023).

Scopo del presente intervento è concentrarsi esclusivamente sull’articolo in questione nella parte in cui autorizza l’impiego di un nuovo modello di redazione della sentenza (Piantavigna P., Sentenza tributarie in forma semplificata: perché non è una buona novella, in Ipsoa Quotidiano, 16 dicembre 2023 e in generale Melis G., La riforma della tutela cautelare, in Carinci A. – Pistolesi F., a cura di, La riforma della giustizia e del processo tributario, Milano, 2023, 110).

Una critica che può essere mossa all’istituto in esame deriva dalla scelta di consentire che la motivazione della sentenza dichiarativa della manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, possa esaurirsi in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo o a un precedente conforme. Il rischio che viene ravvisato in un simile approccio è il proliferare di decisioni sommarie, fondate su precedenti isolati che non sono espressione degli “orientamenti maggioritari”. Il legislatore, testualmente, non fa, infatti, riferimento a un simile parametro, pur avendolo potuto impiegare come ha fatto in altri casi.

Basta porre mente all’art. 48-bis.1 D.Lgs. n. 546/1992, come novellato proprio dallo stesso D.Lgs. n. 220/2023 (sulla versione previgente della norma cfr. Stevanato D. – Bianchi L., Art. 48 Conciliazione fuori udienza. Art. 48-bis Conciliazione in udienza. Art. 48-bis.1 Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria. Art. 48-ter Definizione e pagamento delle somme dovute [voci], in Consolo C. – Glendi C., a cura di, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2023, 659. Cfr. anche Trivellin M., La sospensione cautelare nel processo tributario. Itinerari di riflessione sui presupposti di concessione della misura, in Consolo C. – Melis G. – Perrino A.M., a cura di, Il giudizio tributario, Milano, 2022, 655; Colli Vignarelli A., La riforma della conciliazione giudiziale in Carinci A. – Pistolesi F., a cura di, La riforma della giustizia e del processo tributario, Milano, 2023, 122). Tale norma, concernente l’istituto della conciliazione proposta dalla Corte di giustizia tributaria, prevede che, ove i giudici decidano di formulare alle parti una proposta conciliativa, lo possano fare avendo riguardo, oltre che all’oggetto del giudizio, «ai precedenti giurisprudenziali». In questo caso, dunque, al giudice viene richiesto di articolare la sua proposta in base a qualcosa di più, almeno dal punto di vista quantitativo, di «un precedente conforme».

Il legislatore avrebbe certamente potuto impiegare nel testo del nuovo art. 47-ter, D.Lgs. n. 546/1992 una formulazione non dissimile da quella dell’art. 48-bis.1, ha preferito, invece, “sedersi” sul tenore letterale della corrispondente norma del processo amministrativo.

Ai fini di una migliore comprensione dell’istituto della sentenza in forma semplificata, può poi essere utile verificare come lo stesso sia impiegato nel processo amministrativo.

A tal fine assume rilievo l’articolata sentenza del Consiglio di Stato 30 ottobre 2021, n. 7045, che ha affermato che «la sentenza in forma semplificata non costituisce per il giudice un metodo alternativo o, peggio ancora, spicciativo o frettoloso di risolvere la controversia, ma rappresenta […] un modo ordinario di definizione del giudizio» operante in modo del tutto fisiologico in alcuni riti speciali. Per il Consiglio di Stato si tratta di «un modulo decisorio più rapido e semplificato adoperabile tutte le volte in cui il giudice ritenga di potersi pronunciare sulla controversia, senza ulteriori approfondimenti istruttori o adempimenti processuali, in quanto di pronta soluzione». In questa occasione, il Consiglio di Stato insiste sulla circostanza che lo schema della sentenza in forma semplificata sia adottabile, in sede cautelare e all’esito di un’apposita camera di consiglio, soltanto nel rispetto del principio del contraddittorio, ovverosia a condizione che vengano sentite tutte le parti e che il giudice accerti la presenza di quelle necessarie.

Il fatto che al ricorso a tale modello procedimentale si leghi il ricorso al modello di sentenza dell’art. 74 c.p.c. che, come detto, può esaurirsi in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme, non lede, per la giurisprudenza amministrativa, alcuna posizione delle parti coinvolte.

Il Consiglio di Stato fonda tale conclusione sulla considerazione che la sentenza semplificata abbia «una ratio, insieme, acceleratoria del giudizio e semplificatoria della motivazione, consentendo la rapida definizione, in sintonia con il generale principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di quelle controversie che non presentano profili di complessità, in fatto e in diritto, tali da richiedere una motivazione articolata, bastando uno schema argomentativo snello che si limiti ad indicare le poche essenziali questioni della controversia e cioè, come prevede in via generale l’art. 74 c.p.a., un sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme». Peraltro, tali esigenze di brevità sono ritenute connaturate al processo amministrativo in quanto le stesse sono ritenute rinvenirsi anche negli artt. 3, comma 2, e 88, comma 2, lett. d) del medesimo codice, le quali si qualificano come norme generali rivolte a tutte le parti, ivi compreso il giudice.

In definitiva, per la giustizia amministrativa, la decisione in forma semplificata non costituisce un modulo sommario o affrettato di decisione, ma uno strumento generale di risoluzione della controversia; essa va intesa quale un modulo decisorio di estesa applicazione vincolato dal legislatore a specifici presupposti.

Ricorda ancora il Consiglio di Stato che «l’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola, in quanto la sinteticità è “un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole, da un lato, delle questioni da esaminare e, dall’altro, la consistenza dell’atto – ricorso, memoria o, infine, sentenza – chiamato ad esaminarle” (Cons. St., sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900) ed è, si deve qui aggiungere, sul piano processuale un bene-mezzo, un valore strumentale rispetto al fine ultimo, e al valore superiore, della chiarezza e della intelligibilità della decisione nel suo percorso motivazionale»

Nell’ambito del processo amministrativo risulta, dunque, adottata un’impostazione che legittima tale modalità decisoria in quanto essa risponde a un’esigenza di chiarezza e di economia processuale «che è intrinseca al sistema» (Cons. St., 8 settembre 2010, n. 6514).

A chiusura del sistema viene, poi, ritenuto non esservi alcuna violazione dei diritti delle parti in causa dal momento che la sinteticità della motivazione non può mai rilevare di per sé come vizio della sentenza, poiché «l’effetto devolutivo del ricorso in appello fa perdere di rilievo la contestazione della sinteticità della motivazione della sentenza di primo grado, emessa in forma semplificata, potendo ogni aspetto non trattato dal T.A.R. essere esaminato dal Consiglio di Stato» (Cons. St., 4 settembre 2018, n. 5194; Cons. St., 15 febbraio 2010, n. 835; Cons. St., 24 febbraio 2009, n. 1081).

In sintesi, con riferimento all’operatività del modello decisionale della sentenza in forma semplificata, risulta che la giurisprudenza amministrativa non lo consideri violare alcun precetto costituzionale a condizione che non si confonda “momento decisorio” e “momento redazionale”. La formulazione del giudizio dovrà avvenire con l’ordinaria pienezza senza che il giudice possa imboccare alcuna scorciatoia; una di queste gli sarà disponibile solo al momento della stesura della sentenza, purché la causa si presenti matura per la decisione e la questione di immediata soluzione. Anche in questo caso, il giudice dovrà, però, accertare con l’ordinario rigore tutta la vicenda processuale.

Si auspica che anche i giudici tributari adottino il medesimo metro di giudizio.

4. Esaurita l’analisi della normativa, si possono in conclusione formulare alcune osservazioni sulla possibilità di censurare le modifiche apportate agli artt. 36 e 47-ter per eccesso di delega.

Quanto all’intervento operato sull’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, esso può essere ricondotto all’auspicio della legge delega di introdurre «l’obbligo dell’utilizzo di modelli predefiniti per la redazione degli atti processuali, dei verbali e dei provvedimenti giurisdizionali». Così facendo, si corre, però, il rischio di interpretare la novella normativa in senso formale visto che questo principio di delega è collegato all’obiettivo del potenziamento dell’informatizzazione della giustizia tributaria. Si è visto, invece, come la novella normativa, nella sua funzione di “monito”, abbia un senso ben più sostanziale e una portata ben più ampia. Vi è così il rischio di una non perfetta corrispondenza biunivoca tra legge delega e decreto delegato che si ritiene, però, non infici la legittimità della norma dal momento che l’intervento normativo, oltre a essere in linea con le più recenti evoluzioni del processo tributario e con la riforma attuata in precedenza, non è lesivo di alcun principio costituzionale. Con esso il legislatore aumenta le tutele riconosciute a tutte le parti del processo, piuttosto che diminuirle.

Quanto all’introduzione dell’art. 47-ter D.Lgs. n. 546/1992, essa può, invece, essere più facilmente ricondotta all’obiettivo della delega di «accelerare lo svolgimento della fase cautelare anche nei gradi di giudizio successivi al primo». Anche in tal caso si pone un problema di lettura della norma in quanto, almeno formalmente, il legislatore ha accelerato la fase cautelare al punto di eliderla. Dalla lettura della legge delega l’intenzione di pervenire a tale superamento non risulta in modo immediato. Inoltre, questa volta neppure le più recenti riforme del processo possono essere chiamate in soccorso della scelta del legislatore, così come più elevato è il rischio di una compressione dei diritti dell’attore. Militano in senso favorevole al legislatore delegato la giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte cost., sent.10 novembre 1999, n. 427, che ha riconosciuto la legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2 e 3, D.L. 25 marzo 1997, n. 6, nella parte in cui prevedeva che, nei giudizi amministrativi relativi ad opere pubbliche e materie connesse, il T.A.R., chiamato a pronunciarsi sulla istanza di sospensione, potesse definire immediatamente il giudizio nel merito con motivazione in forma abbreviata) e quella amministrativa (cfr. la giurisprudenza illustrata in precedenza) secondo le quali fornire alle parti del processo nei tempi più ristretti possibili la decisione finale è una scelta legittima dal punto di vista costituzionale. L’eventuale accoglimento di una simile prospettiva suggerisce sia di formulare l’auspicio che le norme già vigenti in tema di immediata esecutività delle sentenze trovino rigorosa applicazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, sia di ribadire quello già formulato, ovverosia che la scelta di superare la fase cautelare per accedere a quella decisoria sia una scelta ancorata alla più rigorosa possibile valutazione del quadro probatorio.

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(*) Testo della relazione presentata in occasione del Ciclo di webinar in materia di “Riforma fiscale” organizzato dall’AIPSDT: “Webinar n. 1. Riforma del processo tributario: la sentenza, la conciliazione e la tutela cautelare”, 28 febbraio 2024.

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