EDITORIALE – Considerazioni (dubbiose) sul nuovo contributo per gli interpelli.
Di Giuseppe Zizzo
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I. In tema di interpelli, la legge delega n. 111/2023, alla lett. c) dell’art. 4, ha fissato al Governo l’obiettivo di ridimensionare i numeri di questo strumento. L’impulso al suo utilizzo, peraltro alimentato negli ultimi decenni dallo stesso legislatore, mediante l’ampliamento delle ipotesi che lo richiedono o lo consentono, ne ha infatti progressivamente deteriorato la compatibilità con le risorse che l’Agenzia delle Entrate può dedicargli, con inevitabili ricadute sulla capacità delle risposte ad esprimere posizioni chiare ed uniformi.
Tra le misure da adottare la legge delega annovera quella di «subordinare l’ammissibilità delle istanze di interpello al versamento di un contributo, da graduare in relazione a diversi fattori, quali la tipologia di contribuente o il valore della questione oggetto dell’istanza…». In attuazione di questo criterio direttivo, l’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, per come riformulato dal D.Lgs. n. 219/2023, al comma 3, subordina la presentazione dell’interpello «al versamento di un contributo, destinato a finanziare iniziative per implementare la formazione del personale delle agenzie fiscali, la cui misura e le cui modalità di corresponsione sono individuate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze in funzione della tipologia di contribuente, del suo volume di affari o di ricavi e della particolare rilevanza e complessità della questione oggetto di istanza».
Non pochi sono i profili di dubbio associati a questa previsione. Tre, in particolare, sono dotati di carattere generale, ed è di essi che intendo, sia pure per grandi linee, esprimere alcune prime considerazioni.
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II. Il primo profilo di dubbio riguarda la sua aderenza al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. Costringere il contribuente a versare un contributo per risolvere una situazione di incertezza normativa, ascrivibile ad una imperfetta, o comunque inadeguata, formulazione della pertinente legislazione, alla quale l’Amministrazione non ha saputo, o avuto occasione di, sopperire fornendo i necessari chiarimenti mediante un documento di prassi o una risoluzione, non solo è sicuramente inopportuno, persino odioso, in quanto funzionale a guidare lo stesso fuori da una condizione che non gli permette di adempiere correttamente l’obbligazione tributaria, ma anche di dubbia compatibilità con detto principio.
Si consideri al riguardo che nessun onere grava, ovviamente, sul contribuente che affronta una incertezza normativa sulla quale l’Amministrazione è intervenuta preventivamente con detti strumenti, e può dunque avvalersi, per superare detto stato, delle indicazioni offerte in materia da quest’ultima. Ne consegue che l’incertezza normativa comporta (può comportare, se il contribuente si rivolge all’Amministrazione finanziaria per risolverla) un concorso alle pubbliche spese per il contribuente che nella suddetta documentazione non trova una soluzione al dubbio interpretativo e non per quello che invece la trova, con una differenziazione che difficilmente può essere giudicata ragionevole, nella misura in cui dipende esclusivamente dall’attività dell’Amministrazione, e precisamente dall’ampiezza raggiunta dall’area delle fattispecie coperte dalle soluzioni interpretative offerte, di iniziativa o su sollecitazione dei contribuenti, da quest’ultima nell’esercizio della funzione di indirizzo.
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III. Posto che il contributo, stante la sua fonte, è certamente da ascrivere alla categoria delle prestazioni patrimoniali imposte, il secondo profilo di dubbio attiene all’osservanza del principio di riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione. In effetti, né la destinazione assegnata alle risorse da acquisire per il suo tramite («finanziare iniziative per implementare la formazione del personale delle agenzie fiscali») né i criteri di graduazione indicati («in funzione della tipologia di contribuente, del suo volume di affari o di ricavi e della particolare rilevanza e complessità della questione oggetto di istanza») hanno la capacità di fissare un preciso limite al potere attribuito al Ministro dell’Economia e delle Finanze di determinarne la misura.
Tuttavia, poiché per la Corte costituzionale l’art. 23 richiede (soltanto) che la legge contenga criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore nell’esercizio del potere attribuitogli, e riconosce che questi ultimi possano essere (tra l’altro) desumibili dalla semplice destinazione delle entrate conseguite (tra le altre, Corte cost., 10 giugno 1994, n. 236), è assai probabile che, nonostante quanto osservato, gli elementi richiamati (ossia la specificazione delle spese pubbliche alla cui copertura è devoluto il gettito del contributo e i criteri di graduazione dello stesso) siano considerati sufficienti dalla Corte a salvaguardare la base legislativa richiesta dalla disposizione.
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IV. Il terzo profilo di dubbio investe la natura del contributo. Se è vero che si tratta di una prestazione di fonte legislativa, funzionale al concorso alle spese pubbliche, il suo versamento dipende dalla scelta, liberamente compiuta dal contribuente, di «interpellare l’amministrazione finanziaria per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali», di richiedere, quindi, a quest’ultima la fornitura a suo favore un servizio. Non solo, posto che il versamento deve precedere la richiesta, e ne condiziona l’efficacia («La presentazione dell’istanza di interpello è in ogni caso subordinata al versamento di un contributo»), l’omessa effettuazione dello stesso non prelude alla riscossione coattiva e alla irrogazione di sanzioni, ma semplicemente impedisce la realizzazione del presupposto del dovere dell’Amministrazione di provvedere.
Questo meccanismo richiama lo schema dell’onere. Il contribuente effettua la prestazione pecuniaria per mettere in moto l’Amministrazione finanziaria, ed ottenere dalla stessa un parere sulla questione dubbia prospettata. Correlativamente, la prestazione non è strutturata per, né intesa a, coprire il costo del servizio (anche se la «particolare rilevanza e complessità della questione oggetto di istanza» incide sulla sua graduazione). Di più, a ben vedere, neppure attribuisce al contribuente il diritto a pretendere dall’Amministrazione il suo espletamento, tanto da essere previsto (al comma 5 dell’art. 11) che, scaduto il termine a disposizione dell’Amministrazione per rispondere, «il silenzio equivale a condivisione della soluzione prospettata dal contribuente».
Insomma, la normativa considerata associa al contributo, non una controprestazione, ma l’accesso ad un modulo procedurale idoneo ad assicurare al contribuente il conseguimento dell’utilità cercata, con o senza il concorso attivo dell’Amministrazione. Ne consegue che, nonostante le peculiarità rilevate, se, insieme alla doverosità e alla funzione finanziaria, è la mancanza di sinallagmaticità a segnare il confine tra concorso realizzato attraverso strumenti tributari e quello realizzato mediante meccanismi privatistici (in questo senso, tra le altre, Corte cost., 4 maggio 2009, n. 141), il contributo deve essere collocato nel campo dei primi anziché dei secondi.
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