Sul diritto di rimborso delle sanzioni da ravvedimento secondo il principio di legalità
Di Giuseppe Mercuri
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(commento a/notes to Cass. civ., sez. V, sent. 26 gennaio 2024, n. 2518; Cass. civ., sez. V, ord. 5 maggio 2023, n. 11993; Cass. civ., sez. VI-5, ord. 16 dicembre 2020, n. 28844; Cass. civ., sez. V, sent. 30 marzo 2016, n. 6108)
Abstract (*)
Il principio di legalità impone di riconoscere il diritto di rimborso delle sanzioni indebitamente versate dal contribuente anche in caso di un ravvedimento operoso errato. La giurisprudenza più recente nega tale diritto, salvo il caso in cui il ravvedimento sia dipeso da errore determinante e qualificato ex art. 1428 c.c. Questa ricostruzione risulta discutibile sotto molteplici profili e richiede un’adeguata riconsiderazione alla luce di premesse corrette.
On the right of refund concerning penalties based on voluntary correction of tax return according to the principle of legality – The principle of legality requires recognizing the right to refundof penalties unduly paid by the taxpayer even if voluntary correction of tax return is wrong. The most recent case law denies this right, unless the correction was due to a determining and qualified error according to art. 1428 of Italian civil code. This theory is controversial in several aspects and requires adequate review in light of sound basis.
Sommario: 1. Oggetto dell’analisi e premesse. – 2. Le tesi che negano il rimborso delle sanzioni da ravvedimento. – 3.Case history di un errore giuridico. – 4. Le principali differenze fra il ravvedimento operoso e il condono: assenza di un espresso divieto normativo o di condizioni. – 5. La mancanza di una dimensione negoziale: il ravvedimento o è dichiarazione di scienza oppure mero atto dovuto. – 6. L’assenza di un “riconoscimento” della violazione. – 7. Riflessioni conclusive per la revisione dell’orientamento.
1. Se l’emenda della dichiarazione è riconosciuta dalla legge anche in sede giudiziale (art. 2, comma 8-bis, D.P.R. n. 322/1998), la giurisprudenza riconosce il diritto al rimborso delle maggiori imposte versate, salvo il caso in cui la modifica non si appunti su profili aventi connotazione negoziale rispetto ai quali – secondo l’attuale giurisprudenza – potrebbero venire in rilievo i vizi del consenso e, in specie, l’errore essenziale e riconoscibile (artt. 1428 c.c. ss.).
Sul punto, la dottrina ha puntualmente messo in luce i limiti di tale ricostruzione, contestando l’asserita irretrattabilità delle opzioni (art. 1 D.P.R. n. 442/1997) per ragioni di coerenza con le premesse sistematiche della nostra materia retta anzitutto dal principio di capacità contributiva (Beghin M., L’irretrattabilità della dichiarazione tributaria nella ‘matrioska’ degli errori, in Corr. trib., 2019, 1, 52; Gaffuri A.M., Dichiarazioni fiscali e scelte: il rebus delle facoltà di modifica, in Riv. trim. dir. trib., 2023, 1, 137-156) e per la peculiare forma di partecipazione del contribuente nella funzione pubblica (Randazzo F., Le opzioni nel diritto tributario, in Riv. dir. trib., 2023, 3, 1, 277-297; Nussi M., La dichiarazione tributaria, Torino, 2008, 118- 120).
Sulla base di queste osservazioni, si può aggiungere che la dichiarazione tributaria non può seguire le norme civilistiche previste per i negozi unilaterali inter vivos (art. 1324 c.c.) e, quindi, le norme in tema di errore (art. 1428 c.c.), proprio perché essa deve essere conforme a legalità (art. 23 Cost.) e capacità contributiva (art. 53 Cost.) alla luce dei fatti che, sotto il profilo economico e giuridico, integrano la situazione-base per l’imposizione.
Lo scostamento dalla dimensione sostanziale “deve e può” essere oggetto di rettifica da parte dell’Amministrazione finanziaria, quand’anche il risultato dell’intervento sia a sé sfavorevole (come nel caso di un minore imponibile o dell’accertamento di una maggiore perdita o di una minore imposta dovuta). Ciò deriva dall’idea ampiamente condivisa secondo cui nell’accertamento dei tributi l’Amministrazione finanziaria dispone di un potere vincolato.
In questo quadro, l’estensione delle norme civilistiche non appare una scelta apprezzabile, in quanto tale disciplina è stata concepita per tutelare l’affidamento fra soggetti in posizione equiparata (i privati), i quali creano nuovi assetti di interessi tramite il contratto avente “forza di legge” (art. 1372 c.c.) e sono “legislatori” dei propri rapporti (ovviamente entro limiti in cui può muoversi l’autonomia privata ex art. 1322 c.c.).
Nel diritto tributario è invece la legge a “predeterminare” gli effetti secondo una scelta discrezionale del legislatore in relazione ai fatti indice di capacità contributiva. Manca quindi un’esigenza di affidamento analoga a quella dei privati, proprio perché contribuenti e Amministrazione finanziaria soggiacciono entrambi alla disciplina sostanziale e rimangono vincolati a quegli effetti una volta accertati i fatti (in sede amministrativa e/o giurisdizionale).
Ferme le critiche al tema dell’irretrattabilità della parte negoziale della dichiarazione (dovendo rinviare per ragioni di sintesi – quivi e così – ai pregevoli contributi su tale argomento), in questa sede si vuole approfondire il tema del rimborso delle sanzioni per errato ravvedimento operoso. Si tratta di capire cosa accade alle somme apprese dall’Amministrazione finanziaria precedentemente ad una “correzione al quadrato” tramite istanza di rimborso.
Sul versante delle imposte, la giurisprudenza ammette la restituzione dei tributi versati sulla scorta di una rettifica errata, in quanto il contribuente deve essere ammesso a correggere «ogni tipo di errore». Sicché, anche il ravvedimento operoso, così come la stessa dichiarazione dei redditi (Cass. nn. 29738/2008, 4238/2004) o dell’IVA (Cass. nn. 3904/2004, 18774/2003) e come ogni altra dichiarazione del contribuente (Cass. n. 1128/2009), è ritrattabile o modificabile, nella misura in cui è affetto da errore, non essendo lo stesso contribuente tenuto a pagare più di quanto deve rimanere per legge a suo carico (Cass. n. 28844/2020; Cass. n. 23177/2010).
Se ciò vale per le imposte, sul rimborso delle sanzioni si registrano due tesi: una fortemente “restrittiva” e una seconda “permissiva, ma condizionata”.
Entrambe appaiono discutibili per molteplici profili. Per comprendere meglio questi aspetti, occorre, dapprima, passare in rassegna gli argomenti delle due tesi e, dipoi, compiere un vero e proprio case history per cogliere l’origine del problema e risolverlo nel suo “naturale sistema”.
2. Quanto alla tesi restrittiva, con essa la giurisprudenza di legittimità ha negato la spettanza del rimborso delle sanzioni, facendo leva sull’asserita analogia fra il ravvedimento e le forme di definizione agevolata (ossia i condoni).
Al riguardo, si sostiene che il pagamento delle sanzioni da ravvedimento sarebbe frutto di una «scelta» con «riconoscimento» della violazione e dei presupposti per l’applicabilità della sanzione (condotta illecita), «salvo il caso di errori formali essenziali e riconoscibili». La sentenza che afferma questo principio (Cass. n. 6108/2016 con note di Tortorelli M., Escluso il rimborso della sanzione versata dal contribuente tramite ravvedimento operoso, in il fisco, 2017, 6, 585-587; Antico G., Il ravvedimento operoso non è rimborsabile, in il fisco, 2016, 18, 1776-1777; Ferranti G., Ravvedimento operoso: alcune questioni aperte, in il fisco, 2016, 38, 3612-3614) richiama la giurisprudenza sui condoni e, in specie e fra l’altro, Cass. SS.UU. n. 14828/2008 (in questo senso anche Cass. n. 4324/2021; Cass. n. 26545/2016).
Questa ricostruzione poi si è evoluta più di recente con un’ulteriore stretta. E difatti, il ravvedimento integrerebbe una dichiarazione di volontà, quand’anche l’atto dovuto oggetto di rettifica si riferisse ad una dichiarazione di scienza. Sulla base di questa premessa, il negozio unilaterale potrebbe essere oggetto di «annullamentoper errore determinante» a prescindere dalla natura (formale o sostanziale) della violazione e indipendentemente dalla «mancanza ab origine dei presupposti sanzionatori». Detto in altri termini, l’apprensione delle sanzioni da parte dello Stato sarebbe definitiva, in quanto «il sistema del ravvedimento» consisterebbe in una «libera scelta» del contribuente il quale beneficia di una riduzione sanzionatoria. Sicché, potrebbe essere rilevante solo l’errore determinate (ex art. 1428 c.c.) in cui sia caduto il contribuente nel momento in cui ha attivato il ravvedimento stesso (Cass. n. 11993/2023, con nota di Antonini M. – Piantavigna P., Ravvedimento operoso: ripetibilità delle somme indebitamente versate tra violazioni sostanziali e formali, in Corr. trib., 2023, 5, 453-460; Cass. n. 24216/2023; Cass. n. 2518/2024).
In particolare, tale sentenza dichiara espressamente di volersi porre in una posizione di discontinuità rispetto alla precedente (parziale) apertura della Cassazione al rimborso delle sanzioni per “correzione della correzione”.
E difatti, secondo la tesi permissiva, ma condizionata, si deve riconosce il diritto di rimborso anche delle sanzioni in assenza dei presupposti, ma sol ove si tratti di violazioni di natura meramente formale (art. 10, comma 3, Statuto dei diritti del contribuente), in quanto esse non risultano dovute in assenza di danno (non avendo la condotta inciso né sulla base imponibile, né sull’imposta, né sul versamento) e in mancanza di pregiudizio all’azione di controllo (Cass. n. 28844/2020). Per le violazioni sostanziali, parrebbe che la Suprema Corte ritenga di dover mantenere fermo l’orientamento restrittivo che predica la dimensione negoziale del riconoscimento della violazione e la sua irretrattabilità salvo errore essenziale (art. 1428 c.c.).
3. Entrambe le tesi appaiono errate in quanto poggiano su un sistema, anzitutto, inattuale (non tenendo conto dell’evoluzione degli istituti) e, oltretutto, non congruente con la materia quivi in rilievo.
Anche la tesi permissiva-condizionata affonda le proprie radici nell’art. 9 L. n. 289/2002 e sull’interpretazione che di tale norma è stata resa dalle Sezioni Unite (Cass. n. 14828/2008).
Si tratta di un esempio di quel fenomeno di isomorfismo giurisprudenziale in cui il precedente – originatosi su una fattispecie del tutto particolare – trova poi sbocco in un’altra materia, tuttavia smarrendo il proprio addentellato normativo e non rispondendo alle caratteristiche proprie del diverso istituto di ultimo riferimento.
È una tendenza alla risoluzione delle questioni in modo grezzamente probabilistico, in quanto la “diuturnitas giurisprudenziale” conduce ad un appiattimento sulla stratificazione di massime, replicandone il contenuto senza un’adeguata ponderazione dei diversi presupposti e dei limiti di estensione di quel dato principio di diritto. È già così in base ai copia-incolla di quanto è ricavabile dalle banche dati, ma il fenomeno potrebbe aggravarsi mediante l’applicazione dell’intelligenza artificiale che applica un calcolo probabilistico o stocastico alla luce delle massime già esistenti. La mera “autorità” dei precedenti (pur in difetto di una loro autorevolezza) è già ritenuta sufficiente per non approfondire l’argomento e, quindi, per adeguarsi sull’assunto che “se è stato detto nel passato, vuol dire che sarà corretto”, acuendo così la pigrizia mentale e riducendo gli stimoli alla curiosità dell’uomo.
Per superare le problematiche di questo trend negativo, occorre uno sforzo da parte degli studiosi e degli operatori del diritto vivente (avvocati e giudici) per discernere circostanze e limiti di una data soluzione interpretativa.
A tal fine, sembra corretto ripercorrere il case history dell’orientamento quivi in esame risalendo alle Sezioni Unite n. 14828/2008 (secondo la catena Cass. n. 4324/2021; n. 28844/2020; n. 6108/2016; n. 26545/2016; n. 27067/2017; n. 4566/2015; n. 1967/2012) e ancor prima alle sentenze n. 3682/2007 e n. 6504/2007.
Quanto ai contenuti, la radice comune delle tesi restrittiva e permissiva risiede nella sussistenza di una “scelta” del contribuente preclusiva del rimborso. Questa soluzione trovava la sua base legale nell’art. 9, comma 9, L. n. 289/2002, là dove si stabiliva che, nel quadro del condono, la dichiarazione integrativa non costituisce titolo per il rimborso. E difatti, la legge sul condono pone il contribuente dinnanzi ad un bivio: da un lato, la coltivazione del contenzioso nei modi ordinari (ottenendo se del caso anche il rimborso delle somme indebitamente versate) e, dall’altro lato, la definizione agevolata, ma senza riflessi o interferenze con quanto già corrisposto in precedenza. Le Sezioni Unite richiamano a loro volta i principi enucleati con riferimento ad analoga norma di matrice condonistica (art. 33 L. n. 413/1991) e con identica preclusione (Cass. n. 195/2004; n. 15635/2004; n. 3163/1997; n. 3273/1996), facendo risalire l’origine della ricostruzione sbagliata ad una disciplina ancor più risalente del tempo.
Il condono – secondo tale giurisprudenza – assolverebbe la funzione di definire «transattivamente» una controversia, talché la preclusione del rimborso dovrebbe essere strutturalmente correlata alla logica deflattiva della misura.
Nel 2016 si ha una svolta. La giurisprudenza di legittimità – pur prestando adesione alle premesse riferite alla normativa condonistica – esclude il rimborso delle sanzioni da ravvedimento errato in ragione della “scelta”, ma introduce en passant un’eccezione all’irretrattabilità, facendo «salvo il caso di errori formali essenziali e riconoscibili» (Cass. n. 6108/2016). Da quel momento, le successive sentenze del 2016 si sono poste il problema della natura delle violazioni (distinguendo fra quelle formali o sostanziali) con un salto logico rispetto alla verifica dell’errore formale (Cass. n. 26545/2016).
Questo passaggio dall’accertamento dell’errore formale a quello della natura della violazione non è molto comprensibile, ma sta di fatto che viene ripresa dalla tesi permissiva-condizionata (Cass. n. 28844/2020) probabilmente sulla scorta dell’esclusione di addebiti sanzionatori a fronte di violazioni meramente formali ex art. 10, comma 3, L. n. 212/2000.
È verosimile che la confusione concettuale sia stata determinata da una svista nel riportare la massima concernente l’eccezione all’irretrattabilità del condono, là dove quella disciplina (art. 51 L. n. 413/1991) ammette la rettifica solo per «errore materiale manifesto e riconoscibile» (Cass. n. 8555/2019) che, però, è qualcosa di diverso dall’«errore essenziale» (v. Melis G., Note minime su talune questioni interpretative in tema di ravvedimento operoso, in Dir. prat. trib., 2021, 4, 1570-1588), quale vizio del consenso (ex artt. 1428 ss. c.c.). C’è parziale assonanza, ma si tratta di due concetti differenti.
L’errore materiale concerne una discordanza tra l’intendimento dell’autore e la sua concreta esteriorizzazione, tale da dover essere immediatamente rilevabile dal testo dell’atto, non essendo possibile invocarlo come ripensamento rispetto alla scelta di accedere al condono (Cass. n. 19871/2022; n. 22966/2018; Cass. n. 20790/2016, Cass. n. 15295/2015).
L’errore essenziale è vizio del consenso, se è anche riconoscibile. Resta da capire quale sia l’effettiva compatibilità dei presupposti civilistici dell’essenzialità e della riconoscibilità nei rapporti fra l’Amministrazione finanziaria e i contribuenti. Le difficoltà sono molteplici. Ci si dovrebbe chiedere se sia possibile invocare anche nella nostra materia quelle categorie di essenzialità (art. 1429 c.c.) in relazione all’error in negotio (predicabile quando l’errore sulla natura del negozio), all’error in corpore (ossia quello che cade sull’oggetto per scambio aliud pro alio), all’error in substantia (cioè sulla qualità della cosa che costituisce oggetto del negozio), all’error in persona (ovvero quello che cade sull’identità o sulle qualità della controparte), all’error in quantitate (cioè quello che si appunta sulla quantità della prestazione che sia determinante per il consenso) o all’error iuris (cioè quello riferibile alla vigenza o all’interpretazione di una norma, ove sia stata la ragione unica o principale del negozio).
Ma quand’anche si ritenessero applicabili (in tutto o in parte) queste categorie secondo la clausola di compatibilità, rimarrebbe da comprendere se il requisito della riconoscibilità sia correttamente riferibile anche al rapporto fra il Fisco e il contribuente. Secondo la disciplina codicistica, è riconoscibile se la controparte – usando la normale diligenza – avrebbe potuto rilevare l’errore essenziale alla stregua delle circostanze o alla qualità dei contraenti.
È vero che la giurisprudenza ha affermato la compatibilità del requisito della riconoscibilità anche ai negozi unilaterali (art. 1324 c.c.), ma si tratta di ambiti in cui la controparte può avere contezza delle circostanze (come nel caso del datore di lavoro in relazione alle dimissioni del dipendente secondo Cass. n. 7629/1996; oppure come nella fattispecie del concorso a sorte – quale promessa al pubblico – in cui i concorrenti potevano riconoscere l’errore, potendo individuare i simboli vincenti prima della raschiatura della cartolina annessa al prodotto venduto; v. Cass. n. 24685/2009) oppure di fattispecie procedimentali in cui vengono allegati documenti dai quali sarebbe stato possibile desumere l’errore (come nel caso della stazione appaltante per quanto concerne la domanda di partecipazione ad una procedura di gara; v. Cons. St. n. 4198/2019).
Nell’attuazione del rapporto tributario, ormai da tempo è venuto meno l’obbligo di allegazione dei documenti alla dichiarazione (originariamente prevista dagli artt. 3, 5 e 6 D.P.R. n. 600/1973) e ovviamente l’Amministrazione finanziaria non è a stretto contatto con le circostanze in cui il contribuente si trova a compiere la scelta negoziale. Quindi, la riconoscibilità non sarebbe mai possibile e, quindi, il vizio non potrebbe mai essere fatto valere (salvo casi limite), vanificando così qualsiasi sforzo interpretativo volto a cogliere profili di compatibilità con le categorie dell’essenzialità in ambito tributario.
4. Una volta ripercorso il case history, si possono cogliere i profili di criticità che stanno alla base della giurisprudenza quivi in discorso.
Anzitutto, non ha molto senso equiparare il ravvedimento operoso alla disciplina condonistica per poter ritrarre l’esistenza di asseriti effetti preclusivi di richieste di rimborso.
Se una volta l’equiparazione poteva essere affermata in ragione della eccezionalità del ravvedimento, a partire dal 2015 e a tutt’oggi, l’art. 13 D.Lgs. n. 472/1997 ha perso una funzione eminentemente deflattiva del contenzioso che giustificherebbe la necessità di una netta cesura con gli effetti cristallizzati in un atto negoziale del contribuente.
Con la L. n. 190/2014, infatti, vi è stato un rafforzamento dell’istituto per favorire la resipiscenza del contribuente in un’ottica “educativa”, agevolando il riallineamento alla legalità violata nella prospettiva di “abituarlo” anche al futuro adempimento spontaneo. Si tratta di un approccio basato sulla psicologia behavioristica che, applicata al difficile problema dell’evasione, vuole cogliere le opportunità sul piano empirico del nesso esistente fra alcuni “stimoli ambientali” e le “risposte comportamentali” (Giovannini A., Evasione, equità e consenso fra Antigone e Creonte, in Rass. trib., 2023, 3, 464-478).
In questo nuovo spirito, la scelta del legislatore è stata quella di ridurre i limiti al ravvedimento per promuovere la trasparenza fiscale mediante un rapporto fra Amministrazione e contribuente improntato alla comunicazione e alla collaborazione (v. Melis G., op. cit.; Cordeiro Guerra R., La riforma del ravvedimento operoso: dal controllo repressivo alla promozione della “compliance, in Corr. trib., 2015, 5, 325-332; Carinci A., Modifiche al ravvedimento operoso: un nuovo modello di collaborazione Fisco-contribuenti, in il fisco, 2014, 1, 4338-4342; Pizzonia G., Il ravvedimento 2.0, tra deflazione del contenzioso, fiscalità negoziata e cripto-condonismo. Prime note, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, 1, 72). In questo senso depongono l’eliminazione dei precedenti termini e della preclusione della conoscenza delle attività di verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Il ravvedimento oggi non è solo “spontaneo”, ma può essere anche “spintaneo”, in quanto può seguire ad un processo verbale di constatazione, ma deve essere realizzato anteriormente ad un atto di accertamento o di liquidazione. Ciò viene accettato nella prospettiva di promuovere un’adesione del singolo anche ai futuri adempimenti, ma anche nella consapevolezza che – oltre ai casi di volontario occultamento di imponibile (evasione tout court) o di deliberato omesso versamento delle somme liquidate in dichiarazione (evasione da riscossione) – vi è anche una consistente quota di “evasione interpretativa” causata dall’affastellarsi della normativa tributaria.
Lo Zeitgeist del “ravvedimento istituzionalizzato”, quindi, deve indurre ad escludere l’applicazione analogica della disciplina condonistica, in quanto l’attuale senso dell’istituto deve essere individuato nella prospettiva di favorire l’adeguamento del contribuente alla norma, cioè in una logica di rinnovamento del rapporto Fisco-contribuente. È del tutto riduttivo (se non proprio errato) ricondurre l’art. 13 D.Lgs. n. 472/1997, quale strumento con funzione esclusivamente deflattiva.
Sicché, nessun effetto preclusivo può essere ritratto dal “ravvedimento ordinario” con riferimento al pagamento di sanzioni, non potendo essere equiparato all’eccezionalità del condono disposto dal legislatore per chiudere definitivamente le liti pendenti (art. 9 L. n. 289/2002; art. 33 L. n. 413/1991).
Né è possibile richiamare – in senso contrario – l’art. 1, comma 177, L. n. 197/2022, alla cui stregua si stabilisce che restano validi i ravvedimenti già effettuati al 1° gennaio 2023 (quale data di entrata in vigore della Legge di Bilancio per il 2023), aggiungendo che «non si dà luogo a rimborso». Come è stato correttamente rimarcato da attenta dottrina (Antonini M. – Piantavigna P., op. cit.), si tratta di una norma che esaurisce la propria portata nell’ambito della disciplina della “regolarizzazione speciale” che ha una portata più limitata rispetto al “ravvedimento ordinario”, riferendosi ai solo tributi diversi da quelli periodici e, fra questi, solo a quelli amministrati dall’Agenzia delle Entrate, con l’esclusione di molteplici tipi di violazioni (ad esempio, quelle relative all’emersione di attività finanziarie e patrimoniali estere).
Quindi, la preclusione del rimborso – anche qui e in stretta continuità con le normative condonistiche – trova la propria ragion d’essere nel carattere eccezionale della norma sulla “regolarizzazione speciale” e, segnatamente, nel coordinamento degli effetti premiali rispetto a quelli ricollegati al ravvedimento ordinario. E difatti, posto che la riduzione delle sanzioni (1/18 del minimo edittale) è di maggior favore rispetto a quella prevista dall’art. 13 D.Lgs. n. 472/1997 per il ravvedimento ordinario, il legislatore ha voluto escludere la possibilità di chiedere il rimborso onde evitare che il contribuente potesse accedere al miglior trattamento sanzionatorio accordato in via eccezionale. L’assenza dell’art. 1, comma 177 avrebbe vanificato l’obiettivo perseguito tramite questa misura sostanzialmente condonistica e cioè quello di fare cassa rapidamente chiudendo qualsiasi possibilità di apertura di contenziosi. Sicché, la norma si spiega pur sempre in una funzione latamente deflattiva e cioè per prevenire una possibile lite.
È quindi da escludere l’esistenza di qualsiasi addentellato normativo che possa essere validamente invocato per giustificare ragioni ostative per il rimborso di sanzioni da ravvedimento ex art. 13 cit., salvo invocare la massima tralaticia riferita al condono in termini di un (insoddisfacente) ipse dixit.
Anzi, la necessità di dover specificare la previsione di un divieto nelle discipline condonistiche speciali e, da ultimo, nell’art. 1, comma 177 conferma a contrario l’esistenza del diritto di rimborso rispetto all’istituto del ravvedimento ordinario per ragioni di coerenza logica nell’ambito di un rapporto di genus a species.
5. Oltre all’errata ripetizione di massime non pertinenti al tema, la critica alla tesi restrittiva può essere rivolta alla premessa della “scelta” del contribuente e, quindi, alla (pretesa) irretrattabilità.
Il ravvedimento vale come emenda della dichiarazione e, a sua volta, è dichiarazione suscettibile di rettifica ove non sia conforme alla disciplina sostanziale a fronte dei fatti realmente verificatisi.
Ciò può avvenire non solo con una dichiarazione integrativa, ma anche solo sulla scorta del versamento della maggior tributo e delle sanzioni ridotte (v. Melis G., op. cit.).
Sicché, in caso di un’integrativa, rispetto ai presupposti oggetto di correzione si tratta pur sempre di una dichiarazione di scienza, in quanto si corregge un dato formale viziato (la precedente dichiarazione) con riallineamento alla situazione sostanziale mediante versamento delle maggiori imposte e sanzioni.
Nel caso del versamento, non vi è neppure una dichiarazione, ma il “mero atto” del pagamento con cui si rimedia ad una condotta omissiva (ad es. perché il contribuente non ha assolto l’acconto entro i termini di legge) oppure alla legalità violata (si pensi alla restituzione di un credito di imposta).
Valorizzare la “scelta” in una logica negoziale non ha senso, altrimenti si dovrebbe arrivare a riconoscere detta natura anche con riferimento alla prima dichiarazione rispetto alla quale il contribuente “sceglierebbe” di presentarla. Sappiamo bene che non può essere così, perché la situazione giuridica è di obbligo a carico del contribuente di presentare la dichiarazione (art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997, art. 5 D.Lgs. n. 74/2000) e di presentala in modo fedele alla realtà giuridico-economica (art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 471/1997; art. 4 D.Lgs. n. 74/2000), nonché di obbligo a carico dell’Amministrazione finanziaria di accertare l’obbligazione tributaria (o un suo segmento) secondo il reale modo d’essere del fatto-presupposto (Cass. pen. n. 9079/2013). Entrambi soggiacciono, quindi, ad obblighi cui corrispondono reciproche pretese all’attuazione della normativa sostanziale, proprio perché la materia è retta dai principi di legalità e capacità contributiva (artt. 3, 23 e 53 Cost.).
Men che mai si potrebbe attribuire valore negoziale al mero atto del pagamento (oltretutto dovuto) che avrebbe un significato esclusivamente satisfattivo per l’Erario se nell’F24 il versamento non venisse accompagnato dal codice tributo previsto proprio per ciascun tipo di ravvedimento operoso.
Il contribuente – pur con un atto unilaterale a contenuto patrimoniale (il versamento) – non “crea” diritto (come con il negozio giuridico), ma lo “applica” adempiendo ad un obbligo che deriva già dal fatto imponibile ex lege. Egli non dispone una trasformazione del mondo giuridico in base alla sua volontà unilaterale, ma realizza un atto giuridico in senso stretto al quale poi l’ordinamento ricollega l’effetto della riduzione sanzionatoria, quale giusto premio da riconoscere per la meritevolezza della condotta resipiscente.
Questi fondamentali profili consentono quindi di recuperare l’argomento più volte richiamato nel presente contributo (parr. 1 e 3) ed avente ad oggetto il particolarismo della dichiarazione fiscale e delle sue successive rettifiche al fine di escludere l’applicazione del diritto dei contratti (in considerazione dell’erronea equiparazione del ravvedimento ad un negozio unilaterale ex art. 1324 c.c.) e, in specie, delle norme sull’errore come vizio del consenso (art. 1428 c.c.).
In ogni caso, lo stesso art. 1324 c.c. prevede l’estensione diretta di quella disciplina ai negozi unilaterali, ma facendo salve le diverse disposizioni di legge (nel nostro campo di indagine si tratterebbe delle norme sul rapporto tributario e sulla sua attuazione) e, comunque, con il limite della loro “compatibilità” (quand’anche si ritenesse possibile l’applicazione analogica di quella disciplina).
Come già ricordato, nel nostro ambito non si tratta di tutelare l’affidamento di privati aventi posizione pariordinata, ma si tratta di assicurare la legalità e l’equità secondo un superiore, universale e intramontabile principio basato sul suum cuique tribuere ulpianeo.
Nessuna locupletazione deve essere ritenuta ammissibile né in favore del contribuente, né in favore dell’Amministrazione finanziaria alla luce della situazione-base oggetto di imposizione, salvo ovviamente la cristallizzazione di rapporti esauriti per decadenza o prescrizione a tutela della certezza del diritto.
Ciò detto, la rilevanza dell’errore essenziale (secondo i requisiti individuati dalla disciplina civilistica) muove da una premessa non condivisibile, in quanto il ravvedimento non è riferibile ad un’attività negoziale (concernente una “scelta”), ma ad una dichiarazione di scienza o ad un mero atto (oltretutto dovuto).
Né si deve dimenticare che l’emenda della dichiarazione è sempre ammessa (addirittura anche in sede giudiziale ex art. 2, comma 8-bis, D.P.R. n. 322/1998). Va da sé che si debba attribuire rilevanza al “contenuto dichiarativo” (cioè al fatto rappresentato), piuttosto che alla “scelta” (ossia all’atto presentato).
Viceversa, tale ricostruzione può valere in relazione ai condoni, là dove la definizione della lite si ricollega effettivamente alla manifestazione di volontà di voler chiudere o di evitare un contenzioso in relazione ad un dato rapporto, ma in questo caso la finalità è esclusivamente deflattiva. Quindi non ha davvero senso equiparare analogicamente il ravvedimento alle definizioni agevolate, richiamando una disciplina che – anche per ulteriori ragioni di carattere speciale e contingente (ossia quella di cassa) – prevedono l’irripetibilità di quanto versato in precedenza.
Né potrebbe valere l’applicazione analogica di un divieto di rimborso in ragione dell’ottenimento di un beneficio in termini di riduzione delle sanzioni. Infatti, la giurisprudenza della tesi restrittivaevoca questo tema, ma si tratta di un fuor d’opera. Il pagamento delle sanzioni in misura ridotta – come accennato – non è presupposto, ma è l’effetto della resipiscenza (sia pur premiale quale riconoscimento per la meritevolezza della condotta del contribuente). Sicché, la riduzione sanzionatoria non può essere ritenuta elemento sufficiente per intravedere una dimensione volontaristica della vicenda e, quindi, per sostenere la rilevanza negoziale del ravvedimento ordinario.
Inoltre, il processo di integrazione dell’art. 13 D.lgs. n. 472/1997 per analogia alle norme condonistiche (art. 9 L. n. 289/2002; art. 33 L. n. 413/1991; art. 1, comma 177, L. n. 197/2022) trova anzitutto un limite logico. Manca la possibilità di dare luogo ad un “argomento a simili” in ragione dell’ordinarietà del ravvedimento (quand’invece il condono ha carattere eccezionale) e in considerazione dell’evoluzione della sua funzione promozionale della trasparenza fiscale (mentre il condono ha esclusivamente finalità deflattiva del contenzioso o risponde più pragmaticamente ad un’esigenza di gettito). Né è possibile far derivare una norma da una disciplina eccezionale (come quella condonistica) per applicarla ad una generale (qual è quella sul ravvedimento ordinario ex art. 13 D.Lgs. n. 472/1997).
Oltre a ciò si potrebbe anche rilevare un limite assiologico . Il divieto di rimborso è insuscettibile di estensione oltre l’ambito proprio di quella disciplina eccezionale, in quanto – comportando una restrizione di un diritto alla ripetizione dell’indebito già esistente secondo il principio di legalità – non potrebbe giammai varcare il solco tracciato dalla funzione deflattiva ritraibile dalle norme condonistiche. L’art. 13 cit. presenta già una formulazione “chiusa” circa gli effetti del ravvedimento, non prevedendo preclusioni in ordine alla restituzione di sanzioni non dovute. Sicché, la portata della norma rende non necessario ricorrere all’applicazione analogica, atteso che manca la lacuna e non è tollerabile alcuna giustificazione per poter estendere una norma di divieto, altrimenti si finirebbe per restringere – oltremodo e irragionevolmente – la sfera giuridica del contribuente.
Queste due argomenti (logico e assiologico) rendono strutturalmente ostativa l’analogia di norme recanti un divieto, come nel caso delle norme penali e di quelle eccezionali (art. 14 prel.).
6. Latesi restrittiva accompagna al tema della scelta anche quello del “riconoscimento della violazione” da parte del contribuente, ricollegandovi l’asserita definitività di tale atto (Cass. n. 6108/2016; n. 26545/2016; n. 29299/2018; n. 4324/2021).
Questo aspetto merita una diversa ponderazione sul piano della disciplina sanzionatoria, posto che – come detto – è da negare la possibilità di invocare una radice condonistica e, quindi, quell’addentellato normativo anche per il ravvedimento ordinario.
Il “riconoscimento” deve essere visto nella diversa ottica del diritto sanzionatorio se si accoglie la premessa secondo cui la spiccata afflittività delle sanzioni amministrative tributarie impone di assoggettarle alle garanzie stabilite per la matière pénale secondo i noti criteri Engel.
Al versamento delle sanzioni in occasione del ravvedimento non corrisponde alcun definitivo riconoscimento della violazione analogamente alla dichiarazione di colpevolezza statunitense (guilty plea). Il nostro sistema è basato, anzitutto, sul principio di legalità (art. 3 D.Lgs. n. 472/1997, artt. 23 e 25 Cost., art. 49 CDFUE, art. 7 CEDU) e di colpevolezza (nullum crimen, nulla poena sine culpa).
Sicché, da questo punto di vista, se il contribuente dà luogo ad un ravvedimento operoso sulla scorta di un’errata qualificazione fattuale (magari causata a sua volta da un’obiettiva incertezza normativa), l’eventuale errore commesso nel pagamento della sanzione (per mancanza dell’illecito fiscale) non può essere tale da giustificare un irragionevole arricchimento senza causa da parte dello Stato.
Se essa fosse consentita (secondo la criticabile giurisprudenza sopra rammentata), significherebbe ammettere la possibilità per lo Stato di ricevere prestazioni pecuniarie in difetto di presupposti di legge (artt. 23 e 25 Cost.), in quanto – se la violazione non c’è stata – non ci può essere neppure la debenza delle somme a titolo di sanzione in sede di ravvedimento. Quindi, la spettanza (o meno) del rimborso della sanzione deve essere valutata, dapprima, dall’Amministrazione finanziaria (nel procedimento attivato a fronte dell’istanza di rimborso del contribuente) ed – eventualmente e in caso di diniego – dal giudice tributario, i quali devono accertare l’insussistenza della violazione erroneamente dichiarata con il ravvedimento operoso.
Sicché, in ragione della riconducibilità della questione alla matière pénale, allora occorrerebbe dare uno sguardo non alla disciplina civilistica, ma a quella del codice di procedura penale in tema di applicazione della pena su richiesta (art. 444c.p.p.).
Anzitutto, essa non implica né «ammissione di responsabilità» né tantomeno «confessione per fatti concludenti», ma solamente «rinuncia a difendersi» e «accettazione di una pena scontata in cambio delle energie e del tempo fatto risparmiare nell’interesse generale della amministrazione della giustizia» (Cass. pen. n. 649/1995).
Oltretutto, in quella sede, pur potendosi riconoscere la natura negoziale della richiesta, si ammette addirittura il ricorso per cassazione avverso la sentenza sul patteggiamento per «erronea qualificazione giuridica del fatto» e per «illegalità della pena o della misura di sicurezza» (art. 448, comma 2-bis, c.p.p.), oltre che per motivi attinenti all’«espressione della volontà» e per «difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza».
Detto in altri termini, anche in un ambito in cui ci si aspetterebbe una chiusura definitiva dopo la manifestazione di volontà (analogamente a quanto previsto per il condono in ragione della comune ratio deflattiva), si ammette una possibilità di revisione (sia pur entro i limiti tracciati dalla giurisprudenza onde evitare eventuali abusi del processo penale in chiave dilatoria), perché il fatto non è conforme alla sua corretta qualificazione giuridica oppure perché la sanzione non risponde a legalità.
Se tanto vale nella disciplina processual-penalistica, a fortiori, non si vede ragione per cui le sanzioni tributarie versate in misura superiore a quanto previsto dalla legge non dovrebbero essere restituite in assenza di un espresso divieto normativo in tal senso, là dove il contribuente in sede di autoliquidazione della sanzione sia incorso in un errore nella qualificazione del fatto o proprio in mancanza della condotta illecita.
A questo riguardo, la giurisprudenza citata (Cass. n. 6108/2016) pone a suffragio delle proprie conclusioni l’asserita distinzione fra sanzioni irrogate dall’Amministrazione finanziaria, e quelle versate spontaneamente dal contribuente per negare la rilevanza dell’obiettiva incertezza normativa in occasione dell’errore che abbia determinato il ravvedimento.
Tale ragionamento non appare condivisibile.
L’obiettiva incertezza normativa, così come il legittimo affidamento, sono esimenti sanzionatorie che derivano giustappunto dallo “stato oggettivo” delle interpretazioni esistenti in relazione ad una determinata norma. Quindi, può ben accadere che, ove il contribuente – a fronte di una prima dichiarazione – dia luogo ad una rettifica a sfavore alla luce di una iniziale giurisprudenza o circolare, ma quelle soluzioni interpretative siano dipoi contraddette da una successiva sentenza a Sezioni Unite o da altri documenti interpretativi di prassi confermativi della soluzione esegetica originaria.
Ciò posto, non è dato comprendere quale possa essere la ragionevolezza della distinzione fra il ravvedimento e l’irrogazione della sanzione da parte dell’Ufficio.
Non appare sufficiente attribuire esclusiva rilevanza alla differenza sul piano soggettivo in considerazione di “chi” sia a determinare la sanzione, perché l’incertezza rilevante ex art. 10 Statuto dei diritti del contribuente riguarda tutti indistintamente.
E ben noto che la ratio dell’esimente poggia su profili “oggettivi” e cioè sulla difficoltà nell’interpretazione della legge tributaria, ove essa sia ritraibile da determinati indici sintomatici enucleati dalla Suprema Corte, quali ad esempio, il contrasto fra orientamenti giurisprudenziali, la contraddittorietà di informazioni amministrative, l’adozione di una norma di interpretazione autentica, ecc. ecc. (Cass. n. 7247/2024).
Se la causa di esclusione di punibilità ha carattere obiettivo in presenza dei “fatti indice”, il rimborso spetta tanto nel caso in cui sia l’Amministrazione finanziaria ad irrogare la sanzione, quanto nel caso in cui il contribuente abbia spontaneamente (ma erroneamente) assolto le sanzioni. Se non fosse così, si ammetterebbe una soluzione difforme rispetto ai presupposti del sistema sanzionatorio, in quanto si assoggetterebbe a sanzione un fatto che non costituisce una violazione per mancanza di antigiuridicità e, quindi, si ammetterebbe un arricchimento erariale privo di titolo.
Oltre ai principi di legalità e colpevolezza, la tesi restrittiva si risolve altresì in una violazione del principio di proporzionalità anche nella prospettiva del favor verso la collaborazione del contribuente. E difatti, se la sanzione oggetto di ravvedimento non è rimborsabile in caso di sopravvenuta revisione dell’interpretazione di una disciplina, in ogni caso in cui ricorra una situazione dubbia, i contribuenti potrebbero essere indotti ad evitare il ravvedimento a causa dell’incertezza e della possibile revisione degli orientamenti interpretativi. Ciò comporta un danno per lo stesso Stato, in quanto tale modus opinandi rischia di far smarrire la “ratio pedagogica” del ravvedimento che volge nel senso della promozione della collaborazione spontanea e della trasparenza fiscale.
Val quanto dire che la posizione assunta tramite la tesi restrittiva genera disorientamento nei contribuenti, in quanto il carattere ondivago della giurisprudenza sull’interpretazione, da un lato, e il divieto di rimborso delle sanzioni di matrice (esclusivamente) pretoria, dall’altro lato, possono costituire due validi disincentivi al ravvedimento operoso (sia a quello spontaneo che a quello spintaneo), con conseguenze negative a danno dell’evoluzione del sistema anche sul versante socio-culturale.
7. In conclusione, comerimarcato dalla dottrina, ad un’attenta analisi le due tesi (restrittiva e permissiva-condizionata) non si pongono in una netta discontinuità (Melis G., op. cit.).
Entrambe trovano origine in un errore comune e cioè in quello di confondere la manifestazione di volontà (ossia il concetto di negozio giuridico unilaterale) con i reali connotati del ravvedimento ordinario che, invece, consentono di riferirlo ad una dichiarazione di scienza idonea a portare a conoscenza del Fisco la corretta situazione sostanziale (ove si proceda con una dichiarazione integrativa) oppure ad un “atto giuridico in senso stretto” oltretutto dovuto ex lege e satisfattivo per l’erario (ossia il versamento della pretesa con le sanzioni ridotte nei casi diversi dalla presentazione dell’integrativa).
Se la rettifica è dovuta per un errore causato a sua volta dall’obiettiva incertezza o anche sotto il profilo oggettivo per mancanza del fatto-violazione, è giusto far valere il diritto al rimborso delle sanzioni, onde evitare che lo Stato possa locupletare su un “situazione normativa” obiettivamente incerta o anche solo su una falsa rappresentazione della realtà in cui è incorso il contribuente.
Le norme quivi in rilievo (art. 3 D.Lgs. n. 472/1997, artt. 23 e 25 Cost., art. 49 CDFUE, art. 7 CEDU) pongono un vero e proprio diritto pubblico soggettivo contro lo Stato che nasce direttamente dal principio di legalità e che si concretizza nel diritto al rimborso di quanto versato in eccesso rispetto a quanto strettamente necessario per riallineare la situazione formale (dichiarazione) a quella sostanziale (al fatto realmente verificatosi) oppure per adeguarsi agli obblighi di versamento.
L’esistenza di questo diritto rispetto al ravvedimento ordinario è confermata a contrario proprio dal divieto di rimborso previsto da norme eccezionali come quella dell’art. 1, comma 177, L. n. 197/2022.
In questo senso, non appare accettabile che lo Stato possa avvantaggiarsi di una situazione di errore – magari invocando un’esigenza di affidamento secondo le regole civilistiche dell’art. 1428 c.c. – quando la principale causa dei ravvedimenti erronei è determinata essenzialmente dalla caoticità della normativa tributaria.
È fuor di dubbio che la tutela dell’affidamento non possa essere invocato dallo stesso soggetto che causa la situazione di incertezza giuridica, ossia lo Stato.
Per questa ragione, la questione sul diritto al rimborso delle sanzioni dovrebbe essere rimessa alle Sezioni Unite affinché decidano nel senso di una revisione del principio di diritto, riconoscendo il diritto al rimborso delle sanzioni versate ogniqualvolta il ravvedimento si riveli errato per mancanza della violazione, prescindendo dalle categorie civilistiche dell’errore essenziale e riconoscibile (art. 1428 c.c.), siccome non compatibili con l’ambito della disciplina sanzionatoria.
Sarebbe una soluzione esegetica conforme allo spirito dei tempi e, in specie, coerente con l’attuale funzione del ravvedimento ordinario volto a favorire la compliance dei contribuenti.
Tale diritto dovrebbe essere esercitato entro il termine di 5 anni dall’auto-irrogazione della sanzione e, quindi, con un dies a quo coincidente con il versamento non dovuto (art. 20 D.Lgs. n. 472/1997).
In sede amministrativa e giurisdizionale, il ravvedimento operoso darebbe luogo solo ad un’inversione dell’onere probatorio. E difatti, se di regola è l’Amministrazione finanziaria a dover provare le violazioni contestate (art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992), nel giudizio di rimborso spetta al contribuente fornire le ragioni della propria domanda. Sicché, questi deve dimostrare i fatti costitutivi dell’indebito e cioè: (i) l’insussistenza del fatto-violazione (ad esempio, il contribuente riteneva di aver omesso il versamento e, invece, lo aveva eseguito tempestivamente, ritrovando la quietanza); oppure (ii) l’erronea qualificazione giuridica del fatto (ad esempio, la norma di legge accordava un credito di imposta a fronte di condizioni sostanziali in concreto soddisfatte, ma oggetto di un errore di sussunzione da parte del contribuente, con la conseguenza che il riversamento di quel credito tramite F24 non era dovuto); (iii) oppure la sussistenza di esimenti che privano di antigiuridicità quella stessa condotta come nel caso di un’incertezza normativa il cui carattere “obiettivo” deve essere provato dal contribuente alla luce degli indici sintomatici stabiliti dalla giurisprudenza; (iv) o ancora la sussistenza di circostanze che rendono manifesta l’eccesso sanzionatorio in violazione del principio di proporzionalità (Corte cost. n. 46/2023), dovendosi riconoscere anche la possibilità di ridurre la sanzione anche al di sotto del minimo edittale in ragione dell’effetto diretto del principio europeo (CGUE, C-205/20, NE) o per mancanza di offensività in concreto (secondo il nuovo art. 10-ter, comma 3, Statuto dei diritti del contribuente); (v) oppure per invocare la retroattività in mitius.
L’esistenza di un termine per l’esaurimento del rapporto (5 anni) e una chiara distribuzione dell’onere probatorio consente quindi un ordinato esercizio del diritto di rimborso dell’indebito sanzionatorio.
L’attuale soluzione esegetica sposata dalla giurisprudenza, invece, merita di essere superata, rivelandosi in contrasto con gli obiettivi del legislatore: e difatti, quella tesi disincentiva il ravvedimento operoso nel rischio di perdere le sanzioni in caso di successivo overruling giurisprudenziale o di un ripensamento da parte dei documenti interpretativi di prassi.
È venuto il momento per riordinare il quadro secondo un parametro di coerenza interno al sistema sanzionatorio.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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