Sui rapporti fra principio di proporzionalità, ne bis in idem e specialità nel riformato sistema punitivo tributario
Di Alessandro Giovannini
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Abstract (*)
Il saggio si sofferma in particolare sui rapporti fra proporzionalità, divieto del bis in idem sostanziale e specialità, nel contesto nuovi rapporti fra sistema sanzionatorio amministrativo e sistema penale sostanziale e processuale alla luce del D.Lgs. n. 87/2024.
On the relationships between the principle of proportionality, ne bis in idem and specialty in the reformed punitive tax system – The work focuses, in particulary, on proportionality, on the prohibition of the substantial bis in idem, on the specialty, in the context of the new relationships between the administrative sanctioning system and the substantive and procedural penal system in the light of Legislative Decree no. 87 of 2024.
Sommario: 1. Il nuovo direttore d’orchestra e il nuovo spartito: proporzionalità e identità materiale del fatto. – 2. Il principio di realtà e la giustizia sostanziale. – 3. Il “completo adeguamento” del sistema al ne bis in idem. – 4. Proporzionalità e ne bis in idem come princìpi e come regole. – 5. La proporzionalità come principio costituzionale immanente di diretta applicazione. – 6. La specialità come regola della proporzionalità e la materialità del fatto nel concorso apparente di norme. – 7. La regola applicativa del ne bis in idem.
1. Il principio cardine della riforma del diritto punitivo in materia tributaria attuata con il D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, è quello di proporzionalità. Il cuore, in particolare, di quella del sistema penale e dei rapporti fra procedimenti, procedimenti e processi, e fra pene, oltre alla proporzionalità, è l’identità del fatto materiale della violazione.
Se mi si consente di utilizzare una metafora, il principio di proporzionalità è il nuovo direttore d’orchestra e l’identità materiale del fatto, nell’ambito prescelto per questa indagine, è il nuovo spartito, nel quale campeggiano le note della specialità, del divieto del bis in idem, dell’efficacia delle sentenze in altri processi, della resipiscenza del trasgressore, tutte scritte con l’inchiostro non più o non soltanto delle qualificazioni formali, ma della materialità.
È mia convinzione che le modifiche introdotte consentano di guardare al nuovo sistema come ad un avamposto di civiltà giuridica. Non dico che il decreto legislativo sia immune da critiche tecniche, dico un’altra cosa: che gli architravi da esso inseriti esprimono princìpi e regole di progresso concreto delle tutele dei diritti e delle libertà individuali.
E siccome, per me, è la giustizia intesa in senso sostanziale lo scopo stesso del diritto, il radicale cambio di modello concettuale volto a digradare le qualificazioni formali e ad esaltare la materialità dei fatti non può che essere apprezzato come un avanzamento di civiltà. Vediamo i motivi sui quali si fondano queste affermazioni.
2. Ho appena detto che l’unione tra fatto materiale della violazione e principio di proporzionalità è divenuta l’asse portante dell’intervento riformatore.
È possibile, o almeno così io auspico, che questo passo sia il primo di un cammino che possa dare ampio respiro alla materialità dei fatti e porre il diritto positivo al servizio della persona che di essi è autore e, solo per suo tramite, al servizio della collettività (ne ho scritto in più occasioni e da ultimo nel volume Per princìpi, Torino, 2022). Il diritto inteso come ricerca della sua essenza e del suo stesso contenuto “nella materialità” e “nella realtà”, il diritto inteso come “invenzione”, nella magistrale accezione che di questo sostantivo offerse Paolo Grossi nel tentativo di riconciliare normativismo, costituzionalismo principialista e valoriale, e realtà pre-normativa (Grossi P., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017).
Insisto su questo punto, tanto lo reputo fondamentale per imprimere una svolta al nostro modo di intendere e applicare il diritto, ad iniziare, proprio, dal settore che porta in scena lo Stato nell’esercizio del suo potere più penetrante e limitativo della sfera delle libertà individuali, quello coercitivo.
Il punto qualificante e finale cui tende il diritto, ad iniziare da quello punitivo, è la “giustizia”, che qui, rifacendomi ad un’avanzata dottrina (cfr. Alexy R., La natura del diritto, Napoli, 2015, passim, ma specie 53 ss.) configuro alla stregua di “correttezza del contenuto normativo” a petto dei princìpi costituzionali, a iniziare dal principio personalistico di cui all’art. 2 della Costituzione. “Correttezza”, pertanto, da verificare vuoi nell’ambito ristretto nel quale la giustizia normalmente alberga, quello processuale, vuoi in quello più ampio nel quale essa si muove come elemento di formazione e controllo delle norme, ossia quello istituzionale.
3. Se questo è, probabilmente, il substrato culturale su cui poggia l’intervento riformatore, la sua origine normativa è da ricercare nell’art. 20, comma 1, lett. a), n. 1, della legge delega n. 111/2023. La disposizione conteneva un’indicazione cristallina, intorno alla quale sembra essersi mossa tutta la riforma: i decreti delegati avrebbero dovuto razionalizzare il sistema con il suo «completo adeguamento al principio del ne bis in idem».
Quel che la legge delega in questo modo richiedeva, così è probabilmente sembrato al legislatore delegato, era la costruzione di un reticolato normativo intorno agli elementi costitutivi del principio stesso, il primo e più importante dei quali è senz’altro il fatto materiale.
Parlando di “completo adeguamento”, la legge delega sottendeva anche un’altra esigenza alla quale il Governo avrebbe dovuto dare risposta: realizzare un sistema, un reticolato normativo, appunto, in grado di assicurare una connessione sostanziale fra procedimenti e processi tale da rendere possibile una lettura unitaria della risposta punitiva e da scongiurare, in questo modo, la violazione del diritto soggettivo al ne bis in idem.
Il decreto legislativo ha realizzato questo mosaico di interventi seguendo il filo rosso dell’identità del fatto materiale e la direttrice della connessione sostanziale dei procedimenti e dei processi, sfrangiando la proporzionalità in una pluralità di istituti.
4. Sul contenuto del ne bis in idem non è mia intenzione ripetere quanto già scritto in innumerevoli studi e in plurimi arresti della giurisprudenza sovranazionale e domestica, i cui contenuti sono ai più noti.
Quel che mi sembra di maggiore interesse, invece, è approfondire il suo rapporto con il principio di proporzionalità e provare in questo modo a dare giustificazione all’indicazione iniziale nella quale ho assegnato alla proporzionalità il ruolo di “direttore d’orchestra” e collocato il divieto solo fra le “note” dello spartito, contraddicendo così, a prima vista, l’importanza del ruolo che ho invece attribuito a questo stesso divieto con le osservazioni da ultimo svolte.
La contraddizione, in realtà, non c’è, ma per capirne il motivo è necessario introdurre una partizione collegata alle connotazioni strutturali delle norme giuridiche e più precisamente la partizione fra principi e regole.
Per “principio” s’intende, o almeno io così lo intendo, una preposizione normativa, anche non scritta, caratterizzata da un ethos fondativo suo proprio che, coerentemente con i valori costituzionali o con quelli d’ordine sovranazionale, divengono elementi costitutivi dell’ordinamento, orientativi della sua interpretazione e applicazione, e indicativo del suo sviluppo.
La regola è la traduzione empirica del principio, volta a dettare meccanismi, anche dosimetrici, da applicare ai casi concreti che si presentano alla valutazione e gestione dell’interprete, ad iniziare dal giudice.
Ritornando al nostro ne bis in idem, esso – indipendentemente dalla riforma – ha una doppia struttura, di regola e di principio, ossia di norma regolatrice del cumulo e del suo divieto e di norma portatrice valoriale della proporzionalità. Proporzionalità da intendere non solo come criterio di valutazione della giustezza “intrinseca” della pena o del cumulo di pene, ma anche come elemento “estrinseco”, ordinatore del sistema, dei rapporti fra procedimenti, fra procedimenti e processi, fra processi, e fra pene di diversa specie e origine. In entrambi i casi, come principio che trova diretta copertura nell’art. 2 della Costituzione.
Provo a dirlo in altra maniera nella speranza di riuscire a rendere inequivoco il mio pensiero.
Il principio di proporzionalità può essere declinato in due modi: come criterio intrinseco (proporzionalità “intrinseca” alla pena) o estrinseco (proporzionalità “estrinseca” alla pena).
Nel primo caso la proporzionalità si palesa come principio disposto a tutela immediata di interessi individuali che trovano il loro presidio, principalmente, nell’art. 13 e negli artt. 41 e 42 della Costituzione. Nel secondo, l’impronta sistematica prevale sull’immediatezza dell’interesse individuale da tutelare, va oltre il rapporto quantitativo fra entità della singola pena e gravità della violazione del bene giuridico tutelato, e si eleva a criterio regolatore del sistema, vuoi nella fase delle scelte di politica criminale, vuoi in quella interpretativa. Con una conseguenza ulteriore: se la proporzionalità è anche principio ordinatorio del rapporto fra procedimenti e fra misure punitive, quando riveste questo ruolo finisce, i termini valoriali, per assorbire il ne bis in idem.
Di qui il limitato spazio concettuale del divieto inteso come principio, che si riduce a spazio valoriale del più ampio principio di proporzionalità. Mentre, come regola, rimane senz’altro apprezzabile autonomamente.
E’ probabile che il decreto legislativo abbia inteso dare corpo a questo ordine di idee, giacché, per un verso, utilizza il ne bis in idem per assegnare all’identità del fatto materiale il compito di legare l’intera normazione, così da portare, per suo tramite, la proporzionalità in seno ai procedimenti e ai processi e anche, perfino, all’interno della fattispecie di alcuni reati; per un altro, attua il divieto in una disposizione specifica, introducendo l’art. 21-ter nel D.Lgs. n. 74/2000, configurandola come regola.
Se è così, questa disposizione non diverge da quelle contenute in altre disposizioni che regolamentano la proporzionalità con istituti diversi dal ne bis in idem: specialità, efficacia della sentenza penale di assoluzione nel processo tributario, resipiscenza del trasgressore e via dicendo. Tutti sono espressione, come regole, appunto, del più ampio e assiologicamente sovraordinato principio di proporzionalità.
5. Se, come ho detto metaforicamente in apertura di questo lavoro, “direttore d’orchestra” è il principio di proporzionalità, ad esso è opportuno dedicare qualche riflessione ulteriore, muovendo da un’agra constatazione: il novellato D.Lgs. n. 74/2000 non contiene una previsione espressa ad esso dedicata.
Del principio di proporzionalità ne parlano bensì lo Statuto dei diritti del contribuente all’art. 10-ter e il D.Lgs. n. 472/1997 all’art. 3, ma limitatamente alle sanzioni amministrative. Non credo, perciò, che a queste disposizioni sia possibile dare un’interpretazione volta a ricomprendere il più ampio mondo delle misure afflittive, né quello dei rapporti fra procedimenti e processi. Il contesto nel quale sono inserite mi sembra sufficientemente chiaro per escluderne l’estensione.
D’altra parte, se ben si riflette, neppure vi è la necessità di forzare le disposizioni positive appena indicate.
Il principio di proporzionalità, infatti, è immanente all’ordinamento, giacché garantito dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 49 della Carta dell’Unione per l’effetto diretto che produce nell’ordinamento degli Stati membri, come ha affermato la Grande Sezione della Corte di Giustizia, NE, in causa C-205/20, nella sentenza 8 marzo 2022, e ha chiarito con argomentazioni inappuntabili la nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 46/2023. In altre parole, la proporzionalità, proprio perché espressione di un principio immanente d’ordine generale, opera direttamente, senza che abbia la necessità di essere accompagnato da previsioni positive ulteriori.
Ma vi è di più ed è il motivo per il quale il principio di proporzionalità è stato individuato fin dall’inizio alla stregua di “direttore d’orchestra”, sebbene nessuna disposizione del D.Lgs. n. 74/2000 lo richiami espressamente.
Come si è già veduto, l’art. 20 della legge delega n. 111 richiedeva il “completo” adeguamento del sistema al principio del ne bis in idem. Con ciò introducendo anche il principio della proporzionalità, giacché da questo, quello deriva. La norma di delega, quindi, può diventare essa stessa norma d’interpretazione alla cui luce leggere e integrare la normazione se “carente” in punto di proporzionalità. E perfino può diventare norma di diretta applicazione per mitigare possibili e irragionevoli cumuli sanzionatori.
La proporzionalità, pertanto, può essere invocata quando un medesimo fatto materiale, pur in conformità alla “connessione sostanziale e temporale” dei procedimenti, è sanzionato contestualmente con più misure e quando, di conseguenza, dal cumulo scaturisce un carico punitivo comunque eccessivo rispetto alla gravità della violazione e alla lesione del bene giuridico tutelato. Un carico che in tanto si palesa sproporzionato in quanto comprime in misura (e in maniera) inadeguata la libertà personale o quella patrimoniale e torce la giustizia sostanziale.
Si può ritenere, inoltre, che la proporzionalità possa essere invocata quando, al di là della stretta connessione, il trasgressore non si sia trovato, indipendentemente dalla sua volontà, nelle condizioni di potersi avvalere degli istituti che già ne prevedono l’applicazione in forme specifiche. Si pensi all’ipotesi di sentenza penale irrevocabile di assoluzione intervenuta successivamente all’esaurimento di tutti i gradi di giudizio riguardanti direttamente l’atto impositivo. In circostanze simili, considerate le limitazioni temporali risultati dall’art. 21-bis del nostro decreto legislativo, il principio di proporzionalità potrebbe orientare successivi procedimenti volti a contestare la debenza dell’obbligazione pecuniaria, almeno di quella sanzionatoria.
6. Il ne bis in idem si dipana ulteriormente fino ad incontrare la specialità disciplinata dall’art. 19 D.Lgs. n. 74/2000, altra nota, la specialità, del nuovo spartito messo in mano del direttore d’orchestra già individuato nel “principio di proporzionalità”.
La centralità del fatto in seno al divieto del cumulo comporta che nel concorso apparente di norme quella applicabile sia individuata assumendo il fatto stesso nella sua materialità. E ciò indipendentemente dalle sue qualificazioni giuridiche e dal raffronto astratto delle fattispecie secondo lo schema “logico-formale” finora preferito dalla giurisprudenza (cfr. ex pluris, Cass., SS.UU., 21 gennaio 2011, n. 1963, e Cass. SS.UU., 19 gennaio 2011, n. 1235, in materia tributaria).
Nel considerare la specialità come elemento strutturale del divieto del bis in idem, coerentemente, ancora una volta, con l’indicazione della legge delega che richiede al sistema di adeguarsi completamente ad esso, è perciò auspicabile che anche la specialità si conformi al nuovo criterio ordinatorio, ossia alla concretezza dei fatti.
È infatti questo il solo modo disponibile che io conosca per riportare coi piedi per terra l’altrimenti “evanescente” principio di specialità e per abbonire la sferzante (ma fondata) critica che Francesco Antolisei mosse al dibattito sorto intorno, proprio, alla specialità, dibattito, scrisse, “ormai portato nelle sfere iperboree dell’astrazione” (Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1997, 149). Elevazione, questa, di cui non ha senz’altro bisogno la giustizia sostanziale, della quale proporzionalità e ne bis in idem sono diretta espressione.
7. Arrivati a questo punto rimane da esaminare l’art. 21-ter del novellato D.Lgs. n. 74/2000, contenete la regola applicativa del ne bis in idem.
Quel che va subito posto subito in risalto è il carattere residuale della disposizione. In ragione del complesso reticolato normativo che, come detto fin dall’inizio, la legge di riforma ha creato per assicurare la stretta commissione materiale e temporale fra procedimenti, processi, fattispecie di reato e fra pene, la previsione in esame avrà uno spazio applicativo senz’altro marginale. L’idea seguita dal legislatore delegato, infatti, è stata quella di prevenire la necessità di fare ricorso al divieto come regola in sé valevole.
Ciò detto, il contenuto dell’art. 21-ter si può riassumere in questi termini: il giudice o l’Autorità amministrativa per ultimo investita, al momento delle determinazione della sanzione di sua competenza, nel rispetto del principio di proporzionalità, deve tener conto di quelle già irrogate da altra Autorità o altro organo giurisdizionale con provvedimento definitivo.
La portata assiologica del principio di proporzionalità che informa la regola sembra aver suggerito al legislatore delegato di estendere il divieto in parola anche a soggetti diversi dalla persona fisica e per misure punitive bensì concomitanti, ma non necessariamente qualificate differentemente dal punto di vista formale, ossia non necessariamente portanti l’una il timbro formale penale e l’altra quello formale amministrativo.
Il divieto del bis, infatti, in ragione dell’inciso «o una sanzione amministrativa dipendente da reato» contenuto nello stesso art. 21-ter, è ora riferibile anche a enti e società, con o senza personalità giuridica, e può essere applicato in relazione alla doppia misura disposta nei loro confronti anche se con due sanzioni entrambe formalmente qualificate come amministrative od anche con la confisca per equivalente in concorso con altra misura. E così il divieto troverà applicazione nell’ipotesi in cui alla sanzione pecuniaria tributaria si somma quella (nominalmente) amministrativa dipendente dal reato di cui all’art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. n. 231/2001, oppure alla sanzione (nominalmente) amministrativa dipendente da reato si aggiunga la confisca per equivalente prevista dall’art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000, sulla cui natura afflittiva, seppure alla stregua di misura accessoria, ormai non sembra lecito dubitare. Non prendo posizione sulla c.d. confisca allargata, prevista dall’art. 12-ter D.Lgs. n. 74/2000 e dall’art. 240-bis c.p. giacché sulla sua natura afflittiva o di misura di sicurezza patrimoniale non vi è convergenza di opinioni né in giurisprudenza, né in dottrina.
A proposito dell’applicazione concreta della disposizione, si è scritto, con toni agri, che essa difetta sia dell’indicazione dei presupposti che il giudice deve valutare per escludere la stretta connessione, sia dei criteri che questi deve applicare qualora si determini alla riquantificazione del carico complessivo (Giovanardi A., Prime osservazioni sullo schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio tributario, in Riv. tel. dir. trib., n. 1/2024, pubblicato online il 20 aprile 2024, www.rivistadirittotributario.it). L’osservazione è corretta, giacché la disposizione effettivamente non offre tali indicazioni, ma non sembra cogliere, per un verso, il dato concreto della residualità applicativa della disposizione stessa per l’operare della specialità e degli altri istituti già volti ad assicurare la connessione sostanziale e temporale fra procedimenti e processi; per un altro, la complessità che caratterizza la valutazione giudiziale o dell’Autorità amministrativa. La grande varietà degli elementi e delle circostanze che il giudice o l’Autorità è chiamata a valutare nell’applicazione del divieto non si attaglia alla rigidità degli schemi definitori, che per forza di cose non potrebbero contemplare la varietà delle circostanze.
D’altra parte, in tutti i procedimenti nei quali si fa ricorso diretto al principio di proporzionalità già conoscono il libero apprezzamento del giudice o dell’Autorità nella verifica delle circostanze legittimanti la sua applicazione e l’adeguamento della misura punitiva.
Come ha lasciato intendere la Corte costituzionale nella sent. n. 46/2023, il silenzio della legge non crea un vuoto normativo che limita l’operatività del principio e determina una compressione dei diritti dei singoli. Piuttosto, in un sistema a sindacato diffuso, qual è il nostro, l’assenza di rigidi criteri responsabilizza il decisore e, con il trascorrere del tempo, porta alla normazione di precedenti che formano il “diritto vivente”.
(*) Estratto della relazione svolta dall’Autore al Convegno di Studi La riforma delle sanzioni tributarie, svoltosi a Firenze il 21 giugno 2024 e organizzato dall’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze Giuridiche, e dall’Università di Siena, Dipartimento di Studi Aziendali e Giuridici.
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