“Sentence first, verdict afterwards”: le aporie del rito compatto nel processo tributario

Di Salvatore Muleo -

Abstract

La repentina introduzione nella disciplina del processo tributario della possibilità di trasformare l’udienza cautelare in udienza di merito comporta non pochi problemi di adattamento. In particolare, gli aspetti più delicati riguardano la riduzione dei termini per la produzione dei documenti e la motivazione semplificata.

“Sentence first, verdict afterwards”: the contradictions of the consolidation of the precautionary hearing and the substantive hearing in the tax trial – The sudden introduction into the tax process of the possibility of transforming the precautionary hearing into a merit hearing causes many adapting problems. In particular, the most delicate aspects concern the cutting of the deadlines for producing documents and the simplified motivation.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. I presupposti applicativi del rito compatto e le sconnessioni che ne scaturiscono. – 3. I requisiti procedurali. – 4. La sentenza semplificata e la contraddizione rispetto alle contemporanee modifiche alla motivazione della sentenza tributaria. – 5. Le interferenze delle previsioni per il grado di appello e le conseguenze sul piano probatorio.

1. L’ardito trapianto dell’istituto del rito compatto – previsto nel rito amministrativo nell’art. 60 c.p.a., clonato e trasposto nell’art. 47-ter D.Lgs. n. 546/1992 – pone l’interprete di fronte ad una serie di problemi di logica processuale, tanto da far evocare in qualche modo la pretesa della furiosa Regina in “Alice nel paese delle meraviglie”: “Sentence first, verdict afterwards”. Richiesta talmente contraria alla logica processuale anglosassone da apparir subito e inesorabilmente come stupefacente e aberrante.

Non diversamente, l’inserimento forzato di tale istituto in un sistema processuale ancora, e fortunatamente, calibrato su moduli processualcivilistici è fortemente distonico, anche perché pone problemi di delicato coordinamento con la pur essenziale sequenza prevista dal rito processuale.

Inoltre, una siffatta introduzione, effettuata con il D.Lgs. n. 220/2023, non era per nulla prevista nella legge delega n. 111/2023 e ciò integra un evidente motivo di illegittimità costituzionale per eccesso di delega.

2. Come noto, l’art. 60 c.p.a. è stato riprodotto pedissequamente nell’art. 47-ter D.Lgs. n. 546/1992 quanto ai presupposti applicativi dell’istituto.

Quindi, il giudice della misura cautelare può definire il giudizio nel merito, persino con sentenza semplificata, nel caso in cui ritenga sussistente la “manifesta” fondatezza, infondatezza, inammissibilità o improcedibilità del ricorso.

Le quattro ipotesi enunciate possono raggrupparsi in due categorie, a seconda che riguardino questioni di rito (inammissibilità o improcedibilità del ricorso) o di merito (fondatezza o infondatezza della domanda giudiziale).

Nell’ambito della prima categoria, tuttavia, quanto all’inammissibilità del ricorso si verifica una curiosa duplicazione rispetto ad un rimedio ordinariamente già esistente, e cioè il vaglio presidenziale previsto dall’art. 27 D.Lgs. n. 546/1992, e ciò, come si vedrà, pone delicati problemi di coordinamento.

Del pari appare bizzarra l’ipotesi dell’improcedibilità del ricorso. Definendo l’improcedibilità come la conseguenza che la legge prevede quando le parti hanno omesso un atto doveroso per la prosecuzione del giudizio, a prima vista si potrebbe immaginare di ipotizzare tale vizio per i casi delle vicende di sospensione, interruzione ed estinzione del processo tributario di cui alla Sezione V del Capo I della norma processuale tributaria. Senonché l’art. 45 D.Lgs. n. 546/1992, analogamente all’art. 307 c.p.c.1, dispone espressamente l’estinzione del giudizio per il caso in cui le parti alle quali spetta di proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi abbiano provveduto entro il termine fissato dalla legge o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Ed allora, in quelle ipotesi, non si verifica in realtà una vera e propria improcedibilità del ricorso, che a suo tempo ha spiegato i suoi effetti, bensì l’estinzione del giudizio. In altri termini la mancata o tardiva presentazione dell’istanza di trattazione incide sul processo e non sull’atto processuale. Le conseguenze previste dalla legge per tali fattispecie sono così configurate.

D’altronde, una volta eliminato, per giunta con lo stesso D.Lgs. n. 220/2023, l’istituto della mediazione tributaria (di cui all’art. 17 D.Lgs. n. 546/1992), non sembrano restare altre ipotesi di improcedibilità, con riferimento al primo grado di giudizio.

Quanto al secondo grado, è vero che l’art. 348 c.p.c. sancisce nel processo civile l’improcedibilità dell’appello se l’appellante non si costituisce nei termini, ma il rinvio contenuto nell’art. 53, comma 2, all’art. 22 provoca, per il giudizio tributario, l’inammissibilità dell’appello nel caso di violazione del termine per la costituzione in giudizio.

Residua, per vero, la mancata integrazione successiva del contraddittorio ordinata dal giudice. Ma si tratta di fattispecie la cui ricorrenza è comunque enunciabile in pochi lemmi.

Il richiamo all’improcedibilità del ricorso, effettuato nell’art. 47-ter, appare quindi improvvido2.

Quanto ai requisiti di merito – vale a dire la manifesta fondatezza o infondatezza – il rimedio acceleratorio dell’art. 47-ter pare anche poco opportuno.

Invero, la possibilità di definizione del giudizio cautelare allo stato in cui si trova al momento della discussione di tale fase endoprocessuale espone il giudicante al rischio di concludere la fase del giudizio mentre ancora sono aperti i termini per la produzione dei documenti. Ciò equivale a dover limitare fisiologicamente le applicazioni del rito compatto alle ipotesi, decisamente poco frequenti, in cui non esista un thema probandum. A meno di ammettere la possibilità che il giudice pronunci il suo giudizio indipendentemente dalle produzioni probatorie delle parti, immaginando la loro irrilevanza, nonostante qualsiasi produzione sia effettuata in futuro.

E se, a seguito della modifica dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, per la parte pubblica i mezzi di prova devono già esser enunciati nell’atto impositivo e non possono esser variati, egual previsione non è contemplata per la parte privata, che, al contrario, sino al termine di cui all’art. 32, ben può produrre in giudizio documenti.

La prognosi giudiziale, quindi, già difficile per la parte pubblica poiché esercitata sulla scorta di quanto enunciato nell’atto impositivo, è ancora più ardua per la parte privata.

Ciò detto, la velocizzazione consentita dall’art. 47-ter non incide sugli obblighi imposti al giudice, che restano identici, quanto alla pronuncia, e sul tipo di giudizio, che rimane a cognizione piena. Egli dovrà così continuare a pronunziarsi su tutti i capi della domanda ex art. 112 c.p.c. E, qualora siano rappresentati più motivi di ricorso, mentre in caso di accoglimento della domanda, se si condivide quanto si dirà appresso, potrà individuare la ragione più liquida e ritenere le altre assorbite, non altrettanto potrà fare nel caso in cui dovesse respingerla, essendo costretto a pronunziarsi su tutte le ragioni portate a sostegno di essa. Ed a motivare sulla loro palese evidenza (i.e., il loro esser manifesto).

Non differentemente, quindi, da quando avviene ordinariamente; con, in aggiunta, l’obbligo di motivazione sul requisito dell’esser manifeste.

3. Un altro punto censurabile della riproduzione meccanica effettuata dal legislatore dall’art. 60 c.p.a. consiste negli adempimenti procedurali che il giudice deve rispettare.

Anzitutto, è stato previsto che siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso.

Tale statuizione risulta a prima vista priva di reale funzione nel processo tributario, atteso che l’esame preliminare del ricorso ex art. 27 è effettuato dopo il decorso dei termini per la costituzione in giudizio.

Tuttavia, se dovesse reputarsi che – similmente a quanto è stato ritenuto dalla giurisprudenza per il processo amministrativo3, giurisprudenza che ovviamente è d’interesse, considerata la trasposizione meccanica dell’istituto – non sia necessario che siano consumati i termini per la costituzione delle parti e che quindi la fusione della fase cautelare e di quella di merito sia soggetta (sempre e solo) al prudente apprezzamento del giudice, si avrebbe una ben strana situazione. Sarebbe sostanzialmente scavalcata tutta la sequenza ora ordinariamente prevista successivamente alla costituzione del ricorrente, per affidarsi ad un rito del tutto parallelo4 e differente, certamente eccezionale5 benché tecnicamente sempre a cognizione piena6. Una siffatta prospettazione sarebbe difficilmente compatibile, nel processo tributario, con l’esigenza di garantire pienamente il contraddittorio, poiché il diritto di difesa (in questo caso, della parte pubblica) sarebbe leso da una decisione che intervenisse ancor prima che essa si sia costituita, utilizzando i termini di cui all’art. 23 D.Lgs. n. 546/1992. La contrazione dei termini di definizione del processo appare peraltro eccessiva (i.e., non proporzionata) rispetto al fine di perseguimento della rapidità dei giudizi.

Ma la contraddizione maggiore si verifica nel richiamo al requisito della verifica circa la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria.

La prima si risolve nella verifica della regolarità della chiamata in giudizio delle parti indefettibili del giudizio stesso. E quindi, a ben vedere, nuovamente in quel controllo che è svolto preliminarmente dal presidente ex art. 27 e che poi è effettuato ancora una volta dal collegio. Né può ritenersi che sussista completezza del contraddittorio solo nel caso in cui la parte convenuta si sia costituita, dovendo consistere la verifica del requisito in esame sulla possibilità, per essa, di effettuare la costituzione medesima grazie ad una regolare notifica dell’atto introduttivo.

Quanto alla completezza dell’istruttoria, si tratta di ben bizzarro requisito, se si considera che nel processo tributario non esiste un’istruttoria officiosa ed essa è affidata all’impulso ed alle attività delle parti in contesa. In un processo caratterizzato da un forte principio dispositivo e dalla destrutturazione dell’istruttoria – tanto che non a caso in un solo articolo sono affastellati poteri istruttori, mezzi di prova, onere della prova e regole di valutazione dei mezzi probatori – l’unico modo per constatare se la fase degli apporti cognitivi delle parti possa considerarsi conclusa è la intervenuta decorrenza dei termini per il deposito di documenti. Ma essi, come noto, sono ancora aperti all’epoca della discussione della misura cautelare, essendo calibrati sull’udienza di merito.

Non minori perplessità derivano dalla previsione che le parti costituite siano “sentite sul punto”.

La formulazione adoperata prevede implicitamente che il giudicante, nella Camera di consiglio aperta della fase cautelare, debba avvisare le parti costituite circa la possibilità di adottare una pronuncia nel merito7. L’avvertimento alle parti è però funzionale all’accertamento della mancata dichiarazione di voler procedere alla proposizione di motivi aggiunti o di regolamento di giurisdizione, essendo altrimenti impedito il compattamento della fase di merito8. Non può ritenersi, peraltro, che siffatto avvertimento debba esser riportato già nell’avviso di fissazione della Camera di consiglio fissata per la discussione della misura cautelare, essendo sufficiente che esso sia palesato nel corso della Camera di consiglio medesima. Non necessariamente in limine , ma anche dopo la discussione, purché sia rispettata la possibilità per le parti di rappresentare l’eventuale ricorrenza di uno dei due motivi ostativi riconosciuti.

Ciò non significa, peraltro, che le parti (i.e., i difensori) debbano esser effettivamente presenti perché trovi applicazione l’istituto, non potendo ovviamente l’assenza esser impeditiva9.

Né può immaginarsi che possa svolgere un effetto paralizzante la dichiarazione del difensore nella Camera di consiglio cautelare di rinunziare alla misura stessa, se successiva all’avvertimento giudiziale. A diversa conclusione deve giungersi invece nel caso di rinuncia della richiesta di misura cautelare effettuata prima della Camera di consiglio fissata per la discussione (ed anche se espressa in Camera di consiglio, purché prima dell’avvertimento giudiziale) , poiché le caratteristiche di dichiarazione abdicativa, irrevocabile e recettizia della rinunzia incidono inesorabilmente sulla domanda rivolta al giudice10.

La disciplina positiva, tuttavia, esclude che le parti possano subordinare al loro consenso l’utilizzo del rito compatto, giacché è previsto solo che, per l’appunto, siano sentite.

L’effetto impeditivo è difatti conseguito solo nel caso in cui le parti dichiarino di voler proporre motivi aggiunti o regolamento di giurisdizione. Ma, se nel processo amministrativo la considerazione dei motivi aggiunti può avere un senso in virtù delle ampie possibilità contemplate dall’art. 43 c.p.a., nel processo tributario la già angusta nozione sancita dall’art. 24 D.Lgs. n. 546/1992 è andata ulteriormente restringendosi (a nostro avviso, sino ad atrofizzarsi), anche a causa delle modifiche apportate all’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, specialmente ai commi 1 e 1-bis, che hanno confermato che l’Amministrazione finanziaria deve rappresentare già nell’atto impositivo i mezzi di prova su cui esso è fondato e che essi non possono esser variati. Così come trasponendo l’art. 60 c.p.a. nell’art. 47-ter il legislatore delegato ha saltato i riferimenti al ricorso incidentale e al regolamento di competenza, non pare azzardato affermare che si sarebbe potuto far altrimenti per i motivi aggiunti, eliminandone il richiamo.

In tutti gli altri casi, come cennato, la volontà delle parti, soprattutto in ordine alla chiusura dell’istruttoria, non è minimamente rilevante.

Le perplessità di ordine costituzionale, soprattutto sotto il profilo degli artt. 24 e 111 Cost., e di rispondenza ai principi europei circa la tenuta di tale istituto sono evidenti.

Probabilmente il legislatore delegato avrà sovrastimato la tenuta costituzionale del prototipo dei riti compatti nel processo amministrativo, vale a dire l’art. 19, commi 2 e 3, D.L. n. 67/1997 convertito nella L. 23 maggio 1997, n. 135 in tema di giudizi amministrativi relativi a opere pubbliche. Tenuta che ha poi consentito l’inserimento del l’istituto in via generale nel processo amministrativo dapprima con la L. n. 205/2000, di modifica degli artt. 21 e 26 legge TAR, e quindi con il c.p.a. del 2010.

La Corte costituzionale, interessata sul punto, con la sentenza 10 novembre 1999, n. 427 aveva difatti concluso per la legittimità costituzionale di quel rito compatto.

Senonché, un istituto processuale non può esser considerato in sé, ma va valutato all’interno del ritto nel quale opera. E le differenze rispetto al rito compatto introdotto nel processo tributario sembrano considerevoli, proprio riprendendo le argomentazioni della Corte in quella sentenza, anzitutto poiché nel processo tributario non esiste quello snaturamento della funzione dei provvedimenti cautelari (poiché la diversa architettura dei processi non consente di mantenere stabilmente per lungo tempo provvedimenti cautelari). Ancora, la questione è stata alla Corte prospettata soprattutto sotto il profilo dell’esistenza del diritto alla misura cautelare quasi indipendentemente da una richiesta di tutela nel merito della controversia. Inoltre, in quella sentenza era riconosciuta l’applicabilità di quel rito “per determinate materie” e nel processo tributario non esiste traccia di tale selezione (che invero, come appena cennato, è stato poi generalizzato anche nel processo amministrativo). Soprattutto, alla Corte è stata denunciata la violazione degli artt. 3, 24, 103, comma 1, 113 e 125, comma 2, della Costituzione, ma non anche quello, assolutamente cruciale, della violazione dell’art. 111 Cost.

Profili che ben potranno esser sollevati, anche alla luce della difficile compatibilità dell’istituto con la struttura del processo tributario e della conseguente specifica lesione dell’art. 24 Cost., insieme con la violazione dell’art. 76 Cost. per totale eccesso di delega.

4. La sentenza in forma semplificata è un altro istituto clonato, stavolta dall’art. 74 c.p.a., che permette al giudice, che opti per il rito compatto, di redigere una motivazione estremamente stringata11 che può consistere nel riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, “se del caso”, ad un precedente conforme12.

È questa un’altra previsione fortemente dissonante, che si muove in senso esattamente opposto rispetto a ciò che una logica elementare avrebbe suggerito. Al maggior potere officioso concesso al giudice (di utilizzare la Camera di consiglio aperta per la fase cautelare come se fosse un’udienza di merito) avrebbe dovuto fare da contraltare un obbligo di maggiore, e non minore, motivazione a giustificazione delle scelte adottate.

La scelta della motivazione semplificata nel rito compatto è sia non rispondente al canone di proporzionalità sia contrastante con la medesima volontà del legislatore quanto alle regole generali della motivazione delle sentenze.

Il legislatore del 2023 da un lato pare aver preso coscienza di una “crisi della motivazione”13 e dall’altro ha però reagito in modo bifasico.

Difatti, lo stesso legislatore del D.Lgs. n. 220/2023, evidentemente supponendo una qualità media delle sentenze da esso ritenuta insoddisfacente, ha previsto una modifica del contenuto minimo della sentenza, modificando l’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992.

L’inserto, nell’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, della previsione della, pur succinta, obbligatoria esposizione dei motivi in fatto e diritto «di accoglimento o di rigetto, relativi alle questioni di merito ed alle questioni attinenti ai vizi di annullabilità o di nullità dell’atto» – distaccandosi apparentemente dal precetto dell’art. 132 c.p.c. con cui l’art. 36 ricordato era in precedenza sostanzialmente coincidente14 – appare come un rimedio improvviso a prassi chiaramente non condivise dal legislatore.

Ma la formulazione adottata espone la norma a nuove censure.

Le disposte precisazioni dei motivi sono invero doppiamente inutili15, poiché le giustificazioni previste per le questioni di merito rientravano già nel novero dei motivi stessi, e ridondanti, giacché le questioni relative ai vizi dell’atto sono a loro volta per definizione questioni di merito. Ma sono anche potenzialmente dannose, poiché potrebbero far insorgere il dubbio – ancorché certamente infondato in base ai principi generali e subito scartabile – che il giudice possa non motivare in relazione alle questioni di rito.

Tuttavia, la novella – di cui è difficile rintracciare copertura nella legge delega, contrariamente a quanto asserito nella relazione illustrativa16 al D.Lgs. n. 220/2023 – pone per altro verso profili di estremo interesse in ordine al contenuto della sentenza.

Se dovesse interpretarsi, come pare emergere anche dalla ricordata relazione illustrativa17, la volontà del legislatore nel senso che la sentenza tributaria debba contenere una motivazione specifica in relazione a tutti i motivi di merito prospettati, anzitutto non si potrebbe ritenere il giudice esentato dalla motivazione anche su tutti i motivi di rito prospettati nonché sulle vicende processuali rilevanti, se esistenti. Difatti, non si comprende come il giudice possa passare all’esame del merito senza aver superato le questioni di rito ed anche di tale attività deve dar conto in motivazione. Dettando più specifiche regole circa la motivazione attinente le questioni di merito, non si può ritenere che il legislatore abbia inteso, al tempo stesso, esentare il giudice dalla giustificazione in ordine all’accoglimento di questioni attinenti i presupposti processuali ed in genere il regolare svolgimento del processo.

Ma, soprattutto, potrebbe persino dubitarsi che il giudice possa continuare a decidere (ed a motivare) ritenendo alcuni motivi assorbiti in altri. Nonché invertendo l’ordine delle questioni sottopostegli e decidendo sulla scorta della ragione più liquida, quanto meno tra quelle di merito, come sinora un pacifico orientamento giurisprudenziale ha consentito18.

Lo strumento acceleratorio più potente – rispettoso, al tempo stesso, del principio di economia processuale19 e del diritto di difesa – così verrebbe meno.

Si tratta, come ben noto, di elaborazioni di origine dottrinaria che hanno trovato ampio riconoscimento, dapprima nella giurisprudenza processualcivilistica. E curiosamente è un tema sinora sostanzialmente negletto in ambito processual tributario20.

Ai soli fini del presente lavoro – non centrato sulla trattazione ex professo della tecnica dell’assorbimento – valga qui ricordare che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha da tempo avvisato circa la centralità dell’art. 276 c.p.c., a mente del quale il giudice decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa21, con ciò ribadendo l’esistenza di una sequenza inesorabile tra le questioni di rito e quelle di merito. E ciò perché il giudice deve anzitutto valutare di esser idoneo alla specifica tutela giurisdizionale richiestagli22. Ciò fatto, le Sezioni Unite hanno anche fornito aperture ulteriori, segnalando che, ferma restando la ordinaria successione rito-merito, in linea di massima non derogabile, le parti possono ben alterare l’ordine delle eccezioni di merito e, soprattutto, il giudice può discostarsi dall’ordine sequenziale, adeguandosi alla fattispecie concreta dedotta in giudizio e persino sovvertendo l’ordine in virtù di vari parametri (come la natura della questione, la sua idoneità a definire il giudizio, la sua maggiore liquidità, la sua maggiore preclusività, la volontà del convenuto)23. Non sono mancate nemmeno posizioni estreme, negatorie in radice dell’ordine tra questioni di rito e di merito24.

L’orientamento maggioritario, che si condivide, vede però nell’art. 276 c.p.c. il precetto ineludibile per il giudice in ordine alla sequenza valutativa delle questioni rito-merito da esaminare; e quindi l’operatività delle tecniche di scelta tra le questioni di merito vale per quella che meglio si presta ad una veloce ed efficiente soluzione, con assorbimento delle altre, nel rispetto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo nonché del contraddittorio e del diritto di difesa25. Insomma, fermo restando il precetto dell’art. 276 c.p.c., entra in gioco poi l’art. 187 c.p.c., che consente al giudice di individuare la questione che ritiene poter risolvere la causa e di provvedere di conseguenza26.

In tale quadro generale si è innestata, relativamente al processo amministrativo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato che, pur interloquendo con le sentenze gemelle della Corte di Cassazione di poco antecedenti, ha valorizzato in quel rito l’esistenza di poteri officiosi, concludendo che il giudice, in assenza di graduazione operata dalla parte, deve stabilire l’ordine dei motivi e delle domande di annullamento «sulla base della loro consistenza oggettiva (radicalità del vizio) nonché del rapporto corrente fra le stesse sul piano logico-giuridico e diacronico procedimentale»27. E quindi secondo il Consiglio di Stato l’assorbimento dei motivi è possibile solo i) quando la legge lo preveda, come nel caso dell’art. 74 c.p.a. o in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza, che consente di assorbire la questione di mancata integrità del contraddittorio (art. 49, comma 2, c.p.a.), ii) nel caso in cui esista una questione logica necessaria, iii) per ragioni di economia processuale28.

Occorre tuttavia chiedersi se, con riferimento ai principi generali, le elaborazioni relative al processo amministrativo siano in realtà estensibili al processo tributario (ed, in caso positivo, in che misura lo siano).

La scelta del codice di procedura civile come norma integrativa del processo tributario, effettuata con l’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, in realtà esclude una siffatta asserzione29.

E, da un punto di vista strutturale, occorre riconoscere che nel processo tributario sono più marcati i caratteri tipici di una giurisdizione su diritti soggettivi, che si atteggia come un processo di parti alla luce del principio della domanda ex art. 99 c.p.c. e di quello di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c..

La stessa presenza di poteri officiosi per il giudice è di gran lunga più sfumata, rivestendo il processo tributario il carattere tipico di un processo dispositivo, anzi, per certi versi maggiormente dispositivo dello stesso processo civile.

Ed allora, in punto di metodo, occorre considerare gli approdi processualcivilistici, pur riflettendo sugli spunti talora rivenienti dall’ambito amministrativo in merito all’impugnazione di atti.

Occorre tuttavia avvisare che non pare estensibile al processo tributario, in cui è preminente lo scopo di risolvere il caso concreto prospettato al giudice, l’orientamento amministrativo secondo il quale le sentenze sarebbero produttive di effetti anche conformativi30, rimanendo la funzione nomofilattica riservata alla Cassazione (e dubitando della c.d. funzione extraprocessuale della motivazione nel processo tributario).

Ed, allora, occorre chiedersi se in relazione all’effetto richiesto sull’atto impositivo la domanda sia una sola allorquando il petitum (di annullamento o di dichiarazione di nullità) sia unico o se sussistano tante domande per quanti sono i motivi. Che è come chiedersi quale sia l’estensione della domanda giudiziale ex art. 112 c.p.c., per poter individuare se il giudice si è pronunciato su tutta la domanda e non oltre.

Ebbene, pare preferibile aderire a quella dottrina che in genere identifica la domanda giudiziale in quella richiesta di tutela di un bene della vita in relazione ai fatti allegati dalle parti31, sicché «la mancata risposta ad un tema o quesito (di fatto o di diritto) strumentale rispetto a una domanda (o parte di una domanda), su cui la pronuncia non è mancata, potrà soltanto eventualmente fondare un vizio di difetto di motivazione»32.

La valorizzazione del sottoinsieme omogeneo di titoli posti a fondamento della domanda33 non è convincente, poiché introduce elementi in realtà ultronei ai fini della differenziazione della domanda giudiziale34.

Dovendo esser la domanda giudiziale calibrata sostanzialmente sul petitum, rientra tra i poteri processuali delle parti il potere di graduazione dei motivi a sostegno della domanda stessa.

E, d’altro canto, la tecnica dell’assorbimento appare legittima, se effettuata all’interno dei motivi a supporto della medesima domanda. A medesima conclusione deve giungersi per la tecnica della ragione più liquida, che, a ben vedere, ne costituisce una variante, permettendo oltre l’assorbimento, la scelta della ragione di più pronta soluzione.

In questa cornice, la modifica dell’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992 non pare significativamente impattare sugli obblighi del giudice, dettando una disciplina non effettivamente diversa rispetto a quanto avveniva in precedenza, per le ragioni esposte in precedenza.

Ed allora occorre chiedersi se, rispetto a tale quadro di riferimento, la motivazione semplificata permetta di giungere a conclusioni differenti, ad esempio consentendo l’utilizzo delle tecniche dell’assorbimento e della ragion più liquida anche in casi ulteriori rispetto a quelli ordinariamente consentiti.

La risposta è negativa, poiché non pare che la previsione dell’art. 47-ter possa esser idonea a derogare all’art. 112 c.p.c.35, e quindi il giudice ha l’obbligo di pronunziarsi su tutta la domanda, esattamente come avviene nel rito ordinario.

Piuttosto, la regola posta dall’art. 47-ter in ordine alla possibilità di motivazione semplificata potrebbe indurre a riflettere sulla potenzialmente pericolosa assimilazione della velocità del rito (mediante il groviglio tra fase cautelare e fase di merito) con la velocità della redazione della sentenza. Mentre dette questioni si pongono su piani differenti.

E peraltro la stessa durata media dei processi tributari italiani, decisamente inferiore ai limiti europei di ragionevole durata, non giustifica minimamente la possibile lesione dei diritti costituzionali ed europei in tema di giusto processo, pienezza del contraddittorio e diritto di difesa che facilmente può avvenire a causa del rito compatto.

La motivazione semplificata, come si è detto, è perfettamente inutile quanto ai requisiti processuali previsti (inammissibilità e improcedibilità), giacché la loro prospettazione è fisiologicamente enunciabile utilizzando pochi lemmi. Peraltro, per l’inammissibilità già esiste il filtro presidenziale di cui all’art. 27 D.Lgs. n. 546/1992, a meno che non si ritenga, come visto in precedenza, che l’art. 47-ter possa anche valere a superarlo, seguendo una procedura differente fin dall’inizio. E la riproduzione del requisito dell’improcedibilità pare inopportuna, vista la diversa previsione della stessa nel processo tributario rispetto a quello amministrativo.

Restano i motivi sulle questioni di merito. E, per essi, è ben facile intravedere come l’affermazione della “manifesta” fondatezza o infondatezza possa rivelarsi una trappola, poiché o la manifesta fondatezza/infondatezza è ampiamente motivata (ed allora la motivazione non sarà più semplificata, dovendosi giustificare l’esser “manifesto”) o, se è semplicemente affermata, rischia di ridondare in una affermazione apodittica, priva di effettivo contenuto informativo. E così in una semplice formula di stile, inidonea a dimostrare il ragionamento logico-giuridico seguito dal giudice, e quindi in una motivazione apparente, vale a dire in una motivazione tautologica o assertiva.

Ancora, non è condivisibile, nell’inserto positivo, il riferimento al precedente giurisprudenziale conforme – che (nell’art. 74 c.p.a. e) nell’art. 47-ter è stemperato solo dall’inciso “se del caso” – poiché esso è estraneo al nostro sistema processuale, con il quale esiste anzi una vera e propria incompatibilità strutturale. E mentre il precedente conforme nell’art. 118 disp. att. al c.p.c. è un elemento ausiliare di giustificazione delle ragioni della sentenza (come emerge dall’avverbio “anche”), nell’art. 74 c.p.a. e nel replicato 47-ter D.Lgs. n. 546/1992 esso è un elemento alternativo (“ovvero”), e può esser rischiosamente inteso come una possibilità di motivazione per relationem mal applicata36. E, se le tentazioni semplificatorie sono sempre esistite, è curioso riflettere sul perfetto u-turn del legislatore, che nell’art. 361 c.p.c. (1865) aveva stabilito che «i motivi si reputano omessi quando la sentenza siasi puramente riferita a quelli di un’altra sentenza».

Eppure, le possibili lesioni del diritto di difesa sono immediatamente percepibili ove si faccia riferimento ad una sentenza intercorsa tra parti diverse, con quel che consegue in tema di apprensione non solo della sentenza richiamata ma anche, e soprattutto, delle allegazioni delle parti nell’altro processo37. Il precedente richiamato potrebbe poi, teoricamente, anche non esser espressione di un orientamento consolidato.

D’altronde, è prevedibile immaginare che l’istituto della motivazione semplificata porrà non pochi problemi interpretativi, come è già avvenuto nel processo amministrativo circa l’ampiezza della semplificazione della sentenza (domandandosi se possa esser sintetica solo la parte motivazionale della sentenza, come pare, o anche la parte rimanente) sia in merito alla discrezionalità del giudice (chiedendosi se sussista un potere ampio di adozione dello strumento o, invece, un potere-dovere in qualche modo vincolato38).

Ma occorre domandarsi se essa possa consistere in un vero depotenziamento della motivazione39 o se lo svuotamento di essa non possa che esser parziale e, tutto sommato, di non grande impatto40.

La risposta non può che esser negativa per le seguenti ragioni:

1) il contenuto minimo della motivazione non può esser intaccato, a meno di non violare i precetti di cui all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU, e quindi la sentenza in forma semplificata deve avere una completezza e comprensibilità alla fine non differenti da quella ordinaria41;

2) in ossequio a tale principio non si può reputare superato l’obbligo di motivare sui fatti essenziali del processo42 svolgimento del processo e sui presupposti di rito;

3) per quanto la soluzione interpretativa non appaia ora piana, deve ritenersi tuttora applicabile anche al processo tributario l’art. 118 disp. att.43. A tale soluzione si perveniva più facilmente allorquando esso rivestiva funzione ancillare rispetto all’art. 132 c.p.c. (nonostante nella versione ante 2009 esistessero talune differenze). Ma, tutto sommato, le specificazioni addotte all’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, come si è detto, non hanno alterato il quadro sostanziale degli elementi della motivazione (ordinaria) della sentenza. Il problema può porsi, invero rispetto alla motivazione semplificata, che apre a soluzioni basate sui soli punti di fatto “risolutivi” anziché su quelli “rilevanti” e che vede cambiare la funzione del precedente conforme citato in motivazione (da strumento ausiliare a strumento alternativo).

5. Come noto, le regole relative al grado di appello sono state ritoccate dal D.Lgs. n. 220/2023 in pochi, ma rilevanti interventi.

Ciò non tanto sul compattamento del rito, che pare possibile anche in grado di appello44, attraverso la porta dell’art. 61 D.Lgs. n. 546/1992. Nonostante con lo stesso D.Lgs. n. 220/2023, che ha inserito l’art. 47-ter, sia stato aggiunto all’art. 52 D.Lgs. n. 546/l992 il comma 6-bis, in forza del quale l’udienza (recte, la Camera di consiglio) di trattazione dell’istanza di sospensione non può in ogni caso coincidere con l’udienza di trattazione del merito della controversia, la presenza di eguale statuizione per il primo grado nell’art. 47 rimuove i dubbi circa l’applicabilità del rito compatto in appello.

Ma in realtà è il primo grado di giudizio, unico grado in cui le parti possono produrre documenti ad libitum, a comportare problemi, alla luce delle nuove regole probatorie.

La potenziale lesione del diritto di difendersi provando nell’intero processo si verifica difatti sia per le rimanenti regole introdotte (circa il divieto di produrre nuove prove in appello) sia, persino, per quelle non introdotte (in merito alle ipotesi di rinvio al giudice di primo grado, che invero sono rimaste inalterate e non comprendono anche i casi di errata adozione del rito compatto ex art. 47-ter).

In effetti, in seguito alla decisione giudiziale di adottare il rito compatto – convertendo la Camera di consiglio aperta della misura cautelare in udienza di merito45 ed incamerando la controversia per la sentenza – i termini istruttori di merito per il deposito di documenti, ancora aperti ai sensi dell’art. 32 D.Lgs. n. 546/1992, sono troncati d’emblée e le parti non hanno più la possibilità di produrre documenti in primo grado, senza alcun avviso.

Ma con il modificato art. 58 l’appellante non può nemmeno produrre in appello quei documenti non prodotti in primo grado, a meno che il giudice di appello non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.

L’altra ipotesi prevista dall’art. 58 – vale a dire la dimostrazione per la parte di non aver potuto produrli “per causa ad essa non imputabile” – potrebbe invero esser contrastata dall’affermazione dell’esistenza di una sorta di onere implicito di anticipazione dei tempi di produzione dei documenti per il ricorrente che faccia istanza cautelare. Insomma, il ricorrente dovrebbe prevedere per tempo i possibili teorici sviluppi del processo ed immaginare anche che il giudice possa adottare il rito compatto di cui all’art. 47-ter ed avrebbe quindi l’onere (ulteriore ed implicito) di produrre già nella fase cautelare tutti i documenti utili al merito. Prospettazione non lineare, ma facilmente immaginabile.

Né, come si diceva, il rimedio può esser immaginato sotto il profilo dell’art. 59 D.Lgs. n. 546/1992, atteso che il legislatore delegato del 2023 non è intervenuto su di esso inserendo la possibilità di rimessione della controversia al primo grado in caso di errata applicazione dell’art. 47-ter. E che le ipotesi di rinvio al giudice di primo grado sono pacificamente tassative.

Curiosamente, l’orientamento del Consiglio di Stato per il processo amministrativo invece consente il rinvio al giudice di primo grado, almeno nei casi più eclatanti46 in cui la motivazione sia ritenuta talmente debole da reputarsi di fatto inesistente.

Per il Consiglio di Stato, invero, il difetto assoluto di motivazione è condizione necessaria e sufficiente per effettuare il rinvio al giudice di primo grado, poiché è inquadrabile nella fattispecie della nullità della sentenza di cui all’art. 105 c.p.a.

Invece, nel rito tributario – non avendo previsto l’art. 59, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 in nessuna delle fattispecie contemplate, indubbiamente anch’esse a numero chiuso, l’ipotesi di nullità della sentenza – la motivazione apparente (che facilmente potrà verificarsi qualora la manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso non sia giustificata) non potrà permettere la rimessione al giudice di primo grado, obbligando il giudice d’appello a pronunciarsi senza poter tener conto di ulteriori produzioni documentali o senza poterle ammettere, a meno che non le ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.

*****

Ed allora, senza temer di esser irriguardosa (preoccupazione d’altronde estranea a quel personaggio), di fronte a tutte queste illogicità processuali, la stessa Alice probabilmente ripeterebbe, come già aveva fatto al Re ed alla Regina di cuori47: “Nonsense!

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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1 Cfr. Della Valle E., Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in Tesauro F. (a cura di), Il processo tributario, Torino, 1998, 630.

2 Pur senza giungere a identica censura, ha sottolineato che in tutto il testo del D.Lgs. n. 546/1992 il concetto dell’improcedibilità, dopo l’abrogazione della mediazione d cui all’art. 17-bis, ricorre solo nell’art. 47-ter, Tallaro F., La sinteticità degli atti e la decisione immediata, in Carlizzi G. – Genovese F.A. – Nania L. (a cura di), La riforma del processo tributario e dello Statuto del contribuente, Napoli, II ed., 2024, 204.

3 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, sent. 6 novembre 2018, n. 6265; Cons. Stato, sez. VI, sent. 4 giugno 2015, n. 2755.

4 In Murakami H., 1Q84, quasi all’inizio del romanzo la protagonista entra in un mondo parallelo, di cui si accorgerà solo molto dopo. Curiosamente, anche nel rito compatto le parti si renderanno conto di essere entrate in un rito parallelo solo dopo l’avviso del giudice nella Camera di consiglio aperta per la discussione della fase cautelare.

5 Per il riconoscimento della natura eccezionale del rito previsto dall’art. 60 c.p.a., cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 15 gennaio 2018, n. 178.

6 Non senza scherno sottolinea però la deformazione del giudizio cautelare in giudizio sostanzialmente sommario Glendi C., L’inappropriata conversione del rito cautelare in decisione sommaria della lite fiscale, in GT – Riv. giur. trib., 2024, 6, 468.

7 Nel processo amministrativo, in relazione all’art. 60 c.p.a. il Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 20 aprile 2018, n. 2405 ha rimarcato che tale informazione deve esser riferita alla specifica controversia, non valendo l’avviso generico fatto in sede di preliminari di udienza per tutte le istanze cautelari da chiamare, e deve risultare nel verbale di udienza (essendo invalida la frase “la sospensiva passa in decisione” e non potendo riscontrarsi in sentenza l’avvertenza in questione).

8 Essendo necessario accertare che le parti, anche se non presenti, non abbiano esposto concrete ragioni processualmente ostative alla definizione del giudizio, dichiarando di voler proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione (così Consiglio di Stato n. 1046/2018).

9 Nel processo amministrativo per egual conclusione Cons. Stato, sez. V, sent. 15 gennaio 2018, n. 178 che ha al contempo sottolineato come sia invece ostativa la riserva di proporre ricorso incidentale, contenuta in memoria, od anche Cons. Stato, sez. III, sent. 26 agosto 2015, 4017.

10 Non si condivide, quindi, il diverso travisamento di Cons. Stato, sez. V, sent. 28 luglio 2015, n. 3718 cui peraltro si contrappone l’opposta conclusione di Cons. Stato, sez. III, sent. 26 aprile 2019, n. 2682 nonché sez. IV, sent. 5 giugno 2012, n. 3317.

11 Dalle tentazioni della semplificazione della sentenza non è andato indenne nemmeno il processo civile, atteso che, ad esempio, per il rito societario l’art. 16, comma 5, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 prevedeva la possibilità di motivare in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi. Tale norma è stata poi abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69.

12 È evidente la volontà del legislatore di fornire ai giudici amministrativi uno strumento più flessibile nella motivazione delle sentenze, ben conoscendo la loro attitudine alla redazione di sentenze estremamente articolate ed elaborate. L’istituto nel c.p.a. adopera i termini di “sentenza in forma semplificata”, mentre nella L. n. 205/2000 prevedeva la sentenza succintamente motivata. Peraltro, mentre nel c.p.a. esistono riti speciali o abbreviati in cui la sentenza semplificata è obbligatoria, ciò difetta nella disciplina processual tributaria (anche nell’ottemperanza).

13 Il problema non è certamente nuovo. Ne parlava in altro senso, ad esempio, come di un espediente che denunciava l’incapacità dei giudici del secondo dopoguerra di rendersi interpreti del diverso senso di giustizia Calamandrei P., La crisi della motivazione, in Processo e giustizia, in Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, 664 s. Ora invece, come ha sottolineato Rasia C., La crisi della motivazione nel processo civile, Bologna, 2016, 7, se ne parla per riferirsi all’incapacità del sistema giudiziario di fornire risposte adeguate e veloci alla domanda di giustizia della collettività.

14 Ci si riferisce ovviamente alla versione attuale dell’art. 132 c.p.c., successivo alla modifica introdotta con l’art. 45, comma 17, L. 18 giugno 2009, n. 69.

15 Per Leotta G., La sentenza tributaria, in Carlizzi G. – Genovese F.A. – Nania L. (a cura di), La riforma del processo tributario e dello Statuto del contribuente, cit., 223, è una modifica apparentemente neutra e quasi ultronea, ma simbolicamente importante.

16 La relazione illustrativa (la si veda in https://documenti.camera.it/apps/nuovosito/attigoverno/Schedalavori/getTesto.ashx?file=0099_F001.pdf&leg=XIX#pagemode=none) ne riferisce la base nell’art. 19, comma 1, lett. b), della legge delega n. 111/2023. Ma è arduo intravedere il principio nell’ampliamento e nel potenziamento dell’informatizzazione della giustizia tributaria, a maggior ragione nelle declinazioni previste ai numeri 1 (semplificazione della normativa processuale funzionale alla completa digitalizzazione del processo), 3 (disciplina delle conseguenze processuali derivanti dalla violazione degli obblighi di utilizzo delle modalità telematiche) e 4 (previsione che la discussione da remoto possa essere chiesta anche da una sola delle parti costituite nel processo, con istanza da notificare alle altre parti, fermo restando il diritto di queste ultime di partecipare in presenza). Resta l’enunciazione di cui al numero 2 (obbligo dell’utilizzo di modelli predefiniti per la redazione degli atti processuali, dei verbali e dei provvedimenti giurisdizionali), ma l’inserimento del contenuto minimo della sentenza nel catalogo dei modelli predefiniti per la redazione dei provvedimenti giurisdizionali non pare agevole. I “modelli predefiniti” sembrano riferirsi piuttosto ai cc.dd. templates, vale a dire a quei modelli creati su files appositi in cui alcune parti sono già scritte, mentre restano spazi vuoti da riempire. Tali modelli, se l’inserimento delle parti discrezionali è libero, non danno luogo a particolari problemi, risolvendosi invece in veri e propri ausilii alla redazione delle sentenze.

17 Ove si fa riferimento all’indefettibilità della pronuncia sulle statuizioni concernenti i motivi di accoglimento o di rigetto del ricorso, in relazione ai motivi di merito e alle questioni attinenti ai vizi di annullabilità e di nullità dell’atto. Problematicamente allusiva a tutti i motivi di merito prospettati.

18 In dottrina, tra i molteplici contributi v. Vaccarella R., Economia di giudizio e ordine delle questioni, in Giusto proc. civ., 2009, 3, 643.

19 Che informa tutto il sistema processuale: cfr. in termini Comoglio L.P., Il principio di economia processuale, Padova, 1980.

20 Come è stato rilevato da Fransoni G., Motivi di ricorso e ordine delle questioni nel processo tributario, in Atti del Convegno di Napoli AISPDT 2024, in corso di pubblicazione, consultato in dattiloscritto grazie alla cortesia dell’Autore.

21 Così Cass., Sez. Un., 9 ottobre 2008, n. 24883.

22 In tal senso Luiso F.P., Diritto processuale civile, II, Milano, 2017, 55, Chiovenda G., Principi di diritto processuale civile: le azioni, il processo di cognizione, Napoli, 1965, 858.

23 Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243.

24 Per le controversie dinanzi la Corte di Cassazione cfr. Cass., sez. II, 10 febbraio 2020, n. 3049. In dottrina v. Biavati P., Appunti sulla struttura della decisione e l’ordine delle questioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 4, 1304 s.

25 Sul punto v. Motto A., L’ordine di decisione delle questioni pregiudiziali di rito, in Riv. dir. proc., 2017, 3, 627, Fanelli G., L’ordine delle questioni di rito nel processo civile in primo grado, Pisa, 2020, 144.

26 Qui esiste una lieve differenza di prospettazione con Fransoni G., op. cit., che, se non si è mal compreso, ritiene invece che l’art. 187 c.p.c. sia unico vincolo per il giudice.

27 Come ha ritenuto Cons. Stato, Adunanza Plenaria, sent. 27 aprile 2015, n. 5.

28 Nella stessa sentenza il Consiglio di Stato ha ricordato che lo schema originario del c.p.a., nel testo licenziato dalla Commissione di studio istituita in seno al Consiglio di Stato, conteneva una disposizione espressa secondo cui «Quando accoglie il ricorso, il giudice deve comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui esame non possa con evidenza derivare alcuna ulteriore utilità al ricorrente» e che tale disposizione non è stata adottata. Tuttavia, ne ha tratto la convinzione che essa costituisca «un principio tendenziale evincibile dal sistema del c.p.a. e senz’altro operante pur in difetto di espressa previsione», leggendo in tal senso la variazione apportata all’art. 120, comma 6, c.p.a., ha previsto esplicitamente che il «[…] il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti […]». Disposizione alla quale però, si potrebbe assegnare un valore interpretativo opposto, attesa la specialità della disposizione, valevole solo per l’appello amministrativo.

29 E peraltro, ove mai si intendessero estendere al processo tributario le conclusioni dell’Adunanza Plenaria n. 5/2015 non si potrebbe far a meno di rilevare che non esistono ipotesi in cui la legge prevede assorbimento di motivi, poiché l’art. 74 c.p.a. non trova corrispondenza autonoma e l’art. 49, comma 2, c.p.a non è stato riprodotto, pur riguardando le fattispecie in cui applicare il rito compatto.

30 Ad una tale seduzione non sfugge invece Fransoni G., op. cit., 11 del dattiloscritto

31 Cfr. in proposito Mandrioli C. – Carratta A., Diritto processuale civile, I, Torino, XXIV ed., 2015, 111.

32 Così Mandrioli C. – Carratta A., Diritto processuale civile, cit., 100, nota 14.

33 Su cui v. Consolo C., Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele, Torino, 2019, 138 s., ripreso da Fransoni G., op. cit., 11 e 13 del dattiloscritto

34 E difatti, anche se depurate da quella suggestione del sottoinsieme, le conclusioni di Fransoni G., op. cit., 13 e 14 del dattiloscritto, sono tutte condivisibili: i) nel processo tributario è ammessa la proposizione cumulativa di più domande, ii) se il cumulo è semplice, il giudice deve pronunciarsi su ognuna di esse, iii) le domande possono essere anche cumulativamente proposte in forma condizionale; iv) in tal caso il giudice deve rispettare l’ordine delle domande proposto dal ricorrente.

35 Così anche Fransoni G., op. cit., 17 del dattiloscritto, che condivisibilmente ha aggiunto come sia dubbia anche la stessa derogabilità dell’art. 112 c.p.c.

36 Sui requisiti minimi della motivazione per relationem cfr. Marcheselli A., Le novità in materia di udienza, camera di consiglio e sentenza, in Giovannini A. (a cura di), La riforma fiscale, II, Pisa, 2024, 368.

37 Tutt’altra previsione rispetto a quanto contemplato dall’art. 129 c.p.a. per il contenzioso elettorale, in cui la motivazione può consistere anche in un mero richiamo alle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e far proprie. Ma lì (come ha sottolineato Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 2017, 3, 894) questa particolare motivazione per relationem trova ragione nella necessità di depositare la sentenza il giorno stesso in cui l’udienza è celebrata. Una simile evenienza è però sconosciuta al processo tributario. E peraltro si tratta di relatio interna agli atti dello stesso processo, non potenzialmente lesiva quindi delle finalità informative della motivazione. Peraltro, la prassi della mera riproduzione degli atti di parte nella motivazione di una sentenza è stata ritenuta non invalidante «sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata» da Cass.,Se n,n. 642 del 16 gennaio 2015, nroprio in una controversia tributaria.

38 Quanto al processo amministrativo, si veda in tal senso Sticchi Damiani E., La sentenza in forma semplificata, in Foro amm. CdS, 2008, 10, 2865. Ed anche l’art. 47-ter D.Lgs. n. 546/1992, come già l’art. 74 c.p.a., adopera l’indicativo (“decide”) e non accenna a facoltà del giudice in proposito.

39 Che comunque già non ha l’obbligo di enunciare lo svolgimento del processo né nell’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, né nell’art. 132 c.p.c., né nell’art. 88 c.p.a.

40 Così pure Fransoni G., op. cit. ha sottolineato come a scriver sinteticamente si impieghi più tempo anche De Nictolis R. (a cura di), Codice del processo amministrativo commentato, Milano, 2012, 1170.

41 Riflettendo sul processo amministrativo ma con considerazioni generali Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, cit., ha avvisato efficacemente che «il declino delle decisioni dotate di motivazione porta un ritorno al passato: conta solo il provvedimento che decide, come se la motivazione fosse del medesimo un’appendice non necessaria».

42 Per Sassani B., Variations sérieuses sul riesame della motivazione, in Judicium, 2017, 1, 133, la sentenza deve contenere almeno i fatti decisivi ovvero quelli determinanti ai fini del giudizio della controversia.

43 Peraltro, come rilevato da Ciccarè M., La motivazione della sentenza civile nell’era dell’innovazione tecnologica, in Judicium.it, 5 maggio 2023, l’art. 118 disp. att. al c.p.c. era stato rimodellato dall’art. 79 D.L. 21 giugno 2013, n. 69 denunciando la necessità di esporre i soli aspetti decisivi in punto di fatto (e non più quelli rilevanti) e i principi (e non le ragioni) di diritto applicati. Ma le critiche di fronte allo svuotamento della motivazione sono state così corpose che nella L. 9 agosto 2013, n. 98 di conversione, tale modifica non è stata apportata.

44 Di opposto avviso Marcheselli A., Le novità in materia di udienza, camera di consiglio e sentenza, cit., 370, che valorizza la collocazione dell’art. 47-ter rispetto all’art. 47, che contempla anche il secondo grado, e l’art. 61, che prevede l’applicazione in appello delle norme sul primo grado se non incompatibili.

47 A meno che non si voglia affermare che nel caso di compattamento del rito non vi sia alcuna conversione della Camera di consiglio aperta in udienza, ma la discussione prosegua nella stessa Camera di consiglio, non mutandone la natura. Ma francamente non si intravedono differenze di trattamento in dipendenza di tale qualificazione.

47 Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. 30 luglio 2018, n. 10 secondo cui, nonostante l’art. 105 c.p.a. permetta la rimessione della causa al giudice di primo grado solo in una delle ipotesi previste (mancanza del contraddittorio, lesione del diritto di difesa di una delle parti, nullità della sentenza, riforma della sentenza o dell’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio), e pur confermando il carattere tassativo delle fattispecie previste dallo stesso art. 105, «l‘erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattito processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione» mentre, invece, «costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” di cui all’art. 111, comma 5, Cost.».

47 Letteralmente: «“Stuff and nonsense” said Alice loudly. “The idea of having the sentence first!”».

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