Sulla rinuncia ex lege alla prescrizione dell’azione di rimborso

Di Giuseppe Mercuri -

(commento a/notes to Cass. civ., Sez. Un., sent. 7 maggio 2024, n. 12284 e Cass. civ., sez. V, sent. 6 giugno 2024, n. 15917)

Abstract (*)

L’art. 2, comma 58, L. n. 350/2003 prevede un obbligo a carico dell’Amministrazione finanziaria di non far valere la prescrizione del diritto di rimborso avente ad oggetto eccedenze a titolo di IRPEF e IRPEG risultanti dalle dichiarazioni dei redditi presentate fino al 30 giugno 1997. Le Sezioni Unite hanno accolto questa ricostruzione, ma ne hanno modulato gli effetti sotto il profilo temporale.

On the statutory waiver to the prescription of the action of tax refund  – The art. 2, co. 58 of the L. No. 350/2003 lays down an obligation on the Italian Tax Authority not to claim the prescription of the right of refund concerning tax surplus by way of IRPEF and IRPEG deriving from the tax returns submitted up to 30 June 1997. The Italian Supreme Court upheld this thesis, but relieved its effects from a temporal perspective.

Sommario: 1. Introduzione: tempo, inerzia ed estinzione dell’azione. – 2. L’esistenza di un obbligo e la natura di rinuncia ex lege alla prescrizione. – 3. Dubbi sulla modulazione degli effetti temporali. – 4. Riflessioni conclusive per un ripensamento del principio di diritto.

1. Il tempo e l’inerzia sono componenti della prescrizione. Su quale sia l’effetto, sono state proposte diverse opinioni. Se si guarda al testo della legge, si dovrebbe avere un effetto estintivo del diritto (art. 2934 c.c.; in dottrina, Carnelutti F., Appunti sulla prescrizione, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, 32; Grasso B., Prescrizione (dir. priv.), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 56 ss.; Auricchio A., Appunti sulla prescrizione, Napoli, 1971, 33 ss.). Sennonché, questa ricostruzione è stata messa in discussione sulla base di alcuni dati che tendono ad escludere detto risultato, consentendo di individuare l’oggetto dell’effetto estintivo in qualcos’altro. Si pensi alla irripetibilità delle somme spontaneamente versate per un debito prescritto (art. 2940 c.c.) oppure alla non rilevabilità d’ufficio (art. 2938 c.c.) oppure alla rinunciabilità alla prescrizione (art. 2937 c.c.). Questi elementi dovrebbero condurre ad affermare un diritto in stato di “morte apparente” (anziché già estinto). Si è parlato – più di recente – di allentamento del diritto e di sua conseguente quiescenza (Travaglino G., Le stagioni della prescrizione estintiva, in Questione giustizia, 2017, 1, 48-75). Tuttavia, una lettura sistematica dell’istituto depone in favore della tesi secondo cui l’inutile decorso del tempo determini un effetto estintivo dell’azione e non già del diritto (Gazzoni F., Manuale di diritto privato, 2013, Napoli, 110; Panza G., Contributo alla teoria della prescrizione, Napoli, 1984, 155; Monticelli S., Inerzia e attività nell’esercizio del diritto, Torino, 2024).

Il legislatore gode di ampia discrezionalità nella definizione dei termini prescrizionali. Tale margine di scelta non risulta sindacabile in sede di legittimità costituzionale, salve ipotesi di manifesta irragionevolezza ed arbitrarietà. Sicché, si dovrebbe riconoscere una riserva di legge nell’individuazione della cesura temporale per l’esercizio dei diritti, trattandosi di una questione di “ordine sociale” da risolvere nelle sedi parlamentari. L’unico soggetto abilitato a dare luogo al bilanciamento fra certezza giuridica, ordine pubblico ed effettività della tutela giurisdizionale non può che essere il legislatore.

Eppure, si segnalano tendenze giurisprudenziali orientate verso una rimodulazione degli effetti temporali dell’inerzia, con accertamento dell’estinzione del diritto anche anteriormente alla maturazione del termine in ragione dell’affidamento. Si tratta di una modalità di valorizzazione (o di una esasperazione) del principio della buona fede in funzione equitativa (Patti S., Verwirkung, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIX, Torino, 1999, 722 ss.; Id., Tempo, prescrizione e Verwirkung, Modena, 2020). In Germania, al riguardo si parla di Verwirkung (perdita) a causa di un illoyale Verspätung (ritardo sleale), ma in quell’esperienza giuridica tale principio ha un’origine storica chiara (come strumento per ovviare alla svalutazione del marco dopo il primo conflitto mondiale) e risolve problemi derivanti da termini prescrizionali amplissimi e addirittura trentennali (par. 197 BGB). In Italia, le suggestioni derivanti da quel principio d’oltralpe hanno ricevuto diverse reazioni con risultati praeter o contra legem a seconda delle opinioni di chi accoglie la validità di quella ricostruzione (Cass. n. 16743/2021; Travaglino G. Le stagioni della prescrizione estintiva, cit.) e chi, invece, la ritiene un trapianto giuridico inadeguato alla chiara legislazione italiana (Cass. n. 11219/2024; Monticelli S., Inerzia e attività nell’esercizio del diritto, cit.; Orlandi M., Ermeneutica del silenzio, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 5, 1179-1185).

Se questi aspetti di diritto vivente sono discutibili, il legislatore compie delle precise scelte sui termini a fronte di una ponderazione di interessi. Questi può arrivare a concepire casi di imprescrittibità come quelli relativi ai diritti indisponibili (art. 2934, comma 2, c.c.) e quelli riferibili agli altri casi previsti dalla legge, come ad esempio il diritto a pensione (Corte cost. n. 246/1992; Cass. n. 6008/1988; art. 5 D.P.R. n. 1092/1973).

In ambito tributario, la dottrina ha evidenziato la necessità di dar luogo ad un’integrazione tra disciplina codicistica e quella tributaria in tema di prescrizione (Fregni M.C., Obbligazione tributaria e Codice civile, 1998, Milano, 347-406), sia pur con gli opportuni adattamenti.

E invero, in tema di rimborso del credito da dichiarazione, il legislatore ha ritenuto di dover intervenire con una norma ad hoc recata dall’art. 2, comma 58, L. n. 350/2003 (d’ora in poi, “Finanziaria 2004”), secondo cui «nel quadro delle iniziative volte a definire le pendenze con i contribuenti, e di rimborso delle imposte, l’Agenzia delle entrate provvede alla erogazione delle eccedenze di IRPEF e IRPEG dovute in base alle dichiarazioni dei redditi presentate fino al 30 giugno 1997, senza far valere la eventuale prescrizione del diritto dei contribuenti».

Tale disposizione rientra negli “altri casi” di imprescrittibilità cui rinvia l’art. 2934, comma 2, c.c., trattandosi sicuramente di una norma di favore per i contribuenti creditori per quei particolari tipi di eccedenze e, come tale, connotata da specialità rispetto alla disciplina generalmente applicabile in tema di prescrizione del credito d’imposta (Coppa D., La prescrizione del credito tributario, Torino, 2006).

Ad una prima lettura molto superficiale non sarebbe difficile bollare la misura come norma ad usum Delphini, apparendo una soluzione accomodata secondo interessi lobbistici o partigiani.

Così non è affatto, trattandosi di un pregiudizio mutuato probabilmente da un’opinione largamente diffusa in quegli anni.

L’art. 2, comma 58 cit., invece, rispondeva ad un’adeguata giustificazione, come si vedrà amplius nel prosieguo. Qui non si può fare a meno di ricordare come la giurisprudenza abbia negato l’obbligatorietà della norma sull’assunto che il comma 58 recasse un “mero invito” rivolto all’Amministrazione finanziaria circa l’opponibilità o meno del compimento del termine prescrizionale (Cass. n. 12733/2018; Cass. n. 7706/2013; Cass. n. 633/2012), essendo ritenuto insuscettibile di diretta applicazione da parte del giudice. Questa conclusione si sviluppava in maniera tralaticia sulla scorta di un fugace obiter dictum delle Sezioni Unite. Si trattava, giustappunto, di considerazioni in realtà prive di alcun autonomo approfondimento, atteso che – in quella sede – la Suprema Corte era investita di altra questione e cioè quella attinente all’exordium praescritionis (all’art. 2946 c.c.) in relazione a crediti di imposta da dichiarazione (Sez. Un. n. 2687/2007; sul tema, v. Nussi M., Rimborso officioso da liquidazione della dichiarazione e decorrenza della prescrizione, in Rass. trib., 2014, 1, 138-146; Basilavecchia M., Quando decorre la prescrizione per il rimborso chiesto in dichiarazione?, in Corr. trib., 2011, 9, 728-730; Id. Decorrenza della prescrizione nei rimborsi di crediti dichiarati, in Corr. trib., 2007, 14, 1133-1136; Randazzo F., Decadenza e prescrizione nella disciplina dei rapporti tributari, in Riv. dir. trib., 2021, 5, 375-378).

La norma in discorso è stata sottoposta anche al controllo di legittimità costituzionale. Tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover arretrare nel controllo in ossequio al margine di scelta da riservare al legislatore: e difatti, pur riconoscendo che il comma 58 conforma l’agire processuale dell’Amministrazione, si tratta di una scelta che rientra nella sfera delle competenze legislative aventi ad oggetto la disciplina degli istituti processuali, oltretutto non irragionevole (Corte cost. n. 112/2013).

L’art. 2, comma 58 della Finanziaria 2004 – recentemente – è stata oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite, che hanno negato la validità della tesi del mero invito. Tuttavia, nel finale, la sentenza adotta una modulazione degli effetti temporali della norma non prevista dal testo della disposizione, introducendo così un curioso caso di prescrizione del “divieto” (ossia quello di opporre la prescrizione), anziché di prescrizione del diritto o dell’azione.

2. Le Sezioni Unite hanno definitivamente acclarato come l’art. 2, comma 58 cit. rechi un vero e proprio obbligo a carico dell’Amministrazione finanziaria, pervenendo a tale risultato sulla base di dati letterali e logico-sistematici già oggetto di attenzione in sede dottrinale (Sammartino S., Deroghe alla disciplina della prescrizione del diritto al rimborso, in Rass. trib., 2013, 56, 3, 541-571).

E difatti, il testo richiede un facere (i.e. l’«erogazione delle eccedenze») e un non facere correlato al precedente (cioè omettere di «far valere l’eventuale prescrizione»). L’utilizzo del verbo all’indicativo (l’Agenzia «provvede») cristallizza puntualità, attualità ed immanenza del compiersi dell’azione e non già una mera facoltà o possibilità.

A questi profili si accompagna un’indicazione circa la ratio della norma, in quanto la misura trova giustificazione «nel quadro delle iniziative volte a definire le pendenze con i contribuenti, e di rimborso delle imposte». Sicché, la norma si pone in continuità con il principio di diritto secondo cui l’esposizione in dichiarazione dell’eccedenza è «condizione necessaria e sufficiente» per determinare la «pendenza» dell’istanza di rimborso (cfr. Sez. Un. n. 2687/2007).

La Suprema Corte individua un duplice obiettivo perseguito dal legislatore, considerando altresì il momento storico in cui quella scelta fu adottata.

Per un primo verso, la norma si sarebbe posta l’obiettivo di chiudere le pratiche di rimborso ante giugno 1997 in concomitanza al condono tombale (L. n. 289/2002) con l’obiettivo di mitigare «la discriminazione intercorrente tra i contribuenti a debito, ammessi al beneficio condonistico, e quelli a credito, ammessi al rimborso sulle imposte reddituali pur dopo l’eventuale prescrizione».

Per altro verso, il divieto di eccepire la prescrizione avrebbe trovato giustificazione nella circostanza che «proprio a decorrere dal 1997 diveniva operativo il nuovo regime dei rimborsi mediante compensazione diretta entro la data di presentazione della dichiarazione successiva, ex art. 17 d.lgs.241 del 9.7.1997».

Sul punto pare opportuna una precisazione. Sulla base dei lavori parlamentari (consultabili sul sito del Senato sub A.S. n. 2512-B) trova maggiore conferma più il secondo obiettivo che il primo. Non si tratta di una “graziosa concessione” correlata al condono (quale misura avente medesima natura) e volta a riequilibrare il trattamento fra chi ha avuto accesso ai benefici della definizione agevolata e coloro che erano ancora in attesa di ricevere i rimborsi da anni.

Gli atti parlamentari evidenziano invece una scelta ancor più ragionevole di questa. E difatti, il contenuto del comma 58 risultava analogo a quello di un successivo comma, già inserito nella formulazione iniziale di un maxiemendamento (dipoi, dichiarato inammissibile per difetto di coperture), là dove si prevedeva che per tutti i crediti di imposta vantati a titolo di IRPEF, IRPEG ed IVA relativi a periodi di imposta per i quali fossero decorsi i termini di accertamento da parte degli Uffici, i contribuenti avrebbero potuto, previa presentazione di apposita istanza, applicare l’istituto della compensazione, per importi non superiori a specifici limiti, così come prevista dall’art. 17 D.Lgs. n. 241/1997.

Nella seduta della Camera del 15 dicembre 2003, la discussione aveva avuto ad oggetto anche i problemi derivanti da una «tassa occulta retroattiva» (secondo quanto leggesi nel resoconto stenografico) ricollegata ad una vera e propria beffa per numerose imprese e famiglie, le quali avevano ricevuto comunicazioni di spettanza dei crediti (riconosciuti) con l’ulteriore precisazione dell’intervenuta prescrizione per omessa presentazione della relativa richiesta (v. intervento dell’On. Benvenuto – Gruppo DS-U).

Le fattispecie recate dall’attuale comma 58 in esame (IRPEF ed IRPEG), quindi, ricalcano solo parzialmente quelle proposte con emendamento (probabilmente per assicurarne la copertura). Inoltre, la norma definitivamente approvata si differenzia dalla proposta iniziale sotto il profilo dell’effetto: non si tratta di estendere anche a quei crediti l’istituto della compensazione, ma si prevede un divieto di eccepire la prescrizione con effetto preclusivo (Vitucci P. – Rosselli F., Prescrizione – Artt. 2934-2940. Tomo I, in Il codice civile – commentario (diretto da F. Busnelli), Milano, 2012, 27).

E invero, il termine del 30 giugno 1997 (previsto dal comma 58 come cesura temporale) coincideva con la scadenza per la presentazione delle ultime dichiarazioni (art. 9 D.Lgs. n. 241/1997, ora abrogato) anteriori all’entrata in vigore della norma attributiva del diritto di compensazione orizzontale (l’art. 17 citato) avvenuta il 12 agosto 1997.

Può dirsi, infatti, che, fino al decreto n. 241/1997, il contribuente riponeva un legittimo affidamento sull’operatività del rimborso d’ufficio da parte dell’Amministrazione finanziaria in relazione alle eccedenze d’imposta da dichiarazione (art. 41 D.P.R. n. 602/1973).

Inoltre, i documenti interpretativi di prassi avevano dato diverse soluzioni circa il momento di decorrenza del termine prescrizionale, ritenendo, in un primo momento, che esso coincidesse con la data di liquidazione (o con quella di scadenza del termine previsto per la liquidazione) ex art. 36-bis D.P.R. n. 600/1973 (circ. min. n. 14/1984); successivamente, che l’exordium praescritionis fosse al momento di presentazione della dichiarazione (circ. min. n. 17/1987). La stessa discontinuità nell’interpretazione del dies a quo si registrava nella giurisprudenza di legittimità che, con un primo arresto, aveva individuato il momento rilevante nella presentazione della dichiarazione (Cass. n. 11416/2001), mentre successivamente aveva dato rilevanza al momento di perenzione del termine di cui all’art. 36-bis citato o comunque dalla liquidazione ivi prevista (Cass. n. 11830/2002), venendo in essere in quella data il consolidamento e il riconoscimento del credito, l’obbligo di esecuzione del rimborso e l’inizio decorrenza del termine decennale di prescrizione.

Sappiamo bene che quest’ultima tesi non ha avuto fortuna dinnanzi alle Sezioni Unite (sent. n. 5069/2016), ma è altresì ben chiaro come nel 2003 vi fosse un clima di incertezza sull’esito dei crediti esposti in dichiarazione e, comunque, una disparità di trattamento fra chi poteva accedere alla compensazione orizzontale e chi invece da anni attendeva il famigerato rimborso “automatizzato” (d’ufficio).

Inoltre, l’intervento del legislatore appariva una risposta a quanto espresso dall’Avvocatura dello Stato che – con parere del 1° ottobre 2003, n. 105547, e su sollecitazione dell’Agenzia – aveva confermato l’inesistenza (sino ad allora) di deroghe al principio di certezza dei rapporti giuridici. Inoltre, si era escluso anche che l’Amministrazione finanziaria potesse rinunciare (sua sponte e in difetto di alcuna norma di legge) ad avvalersi della prescrizione di un credito d’imposta maturata a favore dell’Erario, in quanto – vertendosi in una materia relativa a diritti indisponibili – una siffatta rinuncia avrebbe configurato un atto di disposizione non consentito.

Detto in altri termini, la misura approvata dal Parlamento non era affatto una legge ad usum Delphini. Piuttosto, il comma 58 era diretta emanazione del principio di equità fiscale, per ciò che mirava sostanzialmente a rimuovere gli ostacoli (la prescrizione) al rimborso nei confronti di chi per anni aveva vantato una legittima aspettativa sul rimborso d’ufficio dei crediti da dichiarazione, evitando le disparità di trattamento con chi a partire dal 12 agosto 1997 poteva ottenere la compensazione (orizzontale) dei medesimi crediti con i debiti a titolo di imposta.

La scelta presentava un’adeguata giustificazione sotto il profilo della ragionevolezza e sotto il profilo della giustizia distributiva, individuando una misura (ossia il divieto di eccepire la prescrizione) volta all’obiettivo di equiparare chi aveva subito un trattamento deteriore rispetto ai contribuenti legittimati alla nuova compensazione con l’entrata in vigore dell’art. 17 D.Lgs. n. 241/1997.

Inoltre, i contribuenti che hanno “sperato” nel rimborso d’ufficio per crediti più risalenti hanno riposto un legittimo affidamento sull’erogazione del rimborso ad opera dell’Amministrazione finanziaria in ragione della mancanza di contestazioni sull’eccedenza esposta in dichiarazione. Qui il rapporto si configura nell’ambito del diritto pubblico e non vi può essere una differenza fra chi ha aspettato invano in ragione di un procedimento amministrativo vigente fino al 30 giugno 1997 e chi successivamente ha potuto ottenere la compensazione orizzontale (sia pur entro i limiti dell’art. 17 cit.). Se la norma sul divieto di eccepire la prescrizione per le “pendenze” relative alla prima categoria di contribuenti non fosse stata emanata, l’ordinamento avrebbe creato un’intollerabile sperequazione rispetto al piano di riparto poggiante sulla capacità contributiva e, in specie, per quanto concerne i profili attuativi e satisfattori del procedimento di rimborso. Detto in altri termini, i contribuenti che, per buona fede o anche solo per timidezza, avevano avuto la pazienza di attendere (senza aggravare la litigiosità del sistema) avrebbero subito una penalizzazione per l’impossibilità di accedere al nuovo sistema di compensazione. Inoltre, costoro erano stati costretti a versare i tributi di periodo, ancorché vantassero crediti da dichiarazione maturati in esercizi precedenti, non disponendo di modalità satisfattorie alternative all’erogazione del rimborso da parte dell’Amministrazione.

Sicché, in mancanza del comma 58, vi sarebbe stato un disallineamento con le altissime ragioni di civiltà giuridica su cui poggia il dovere tributario (capacità contributiva). Tant’è che, se si volessero utilizzare i concetti espressi proprio dalla Corte costituzionale (sent. 288/2019), si potrebbe validamente sostenere che – in quella fattispecie peculiare e in ragione del contesto storico-normativo – il divieto di eccepire la prescrizione fosse diretto a prevenire quel «disorientamento» (a livello socio-ordinamentale) riscontrabile a fronte di un’«alterazione del rapporto tributario» da parte del legislatore.

Non vi è quindi alcun vulnus in relazione al principio di uguaglianza fiscale, per ciò che il legislatore deve porre rimedio a situazioni diseguali mediante trattamenti differenti (art. 3, comma 2 e 53 Cost.). Questa soluzione risponde a ragionevolezza.

Inoltre, non si intravede alcuna lesione al principio di imparzialità (art. 97 Cost.), né una menomazione al diritto di difesa dell’Amministrazione finanziaria (art. 113 Cost.), atteso che la prova dei fatti costitutivi del diritto di rimborso (an e quantum) rimarrebbe pur sempre a carico del contribuente (cfr. Avvocatura dello Stato nel giudizio conclusosi dinnanzi alla Corte costituzionale con ord. n. 112/2013; in dottrina, Sammartino S., Deroghe alla disciplina della prescrizione del diritto al rimborso, cit., 564). Al riguardo, tale conclusione appare confermata a tutt’oggi dall’art. 7, comma 5-bis, secondo cui spetta al contribuente fornire le “ragioni” della richiesta di rimborso.

Tuttavia, un interrogativo si pone in base ad un altro parametro di legittimità costituzionale e cioè quello della parità delle armi anche nel processo tributario (art. 111 Cost.) che non è stato sottoposto all’attenzione del Giudice delle Leggi nel 2013.

E invero, il divieto di eccepire il fatto estintivo (i.e. l’inutile decorso del tempo) precluderebbe effettivamente un diritto potestativo esercitabile in giudizio, costituendo (in astratto) una limitazione alle iniziative degli uffici tale da apparire un indebolimento dell’isonomia processuale.

Sennonché, tale asimmetria è assistita da ragionevole giustificazione in rapporto alle esigenze di tutela di altri valori di rango costituzionale. E difatti, il principio di parità delle parti è stato fatto oggetto di bilanciamento direttamente dal legislatore in relazione al principio di eguaglianza, essendo necessario equiparare contribuenti che non hanno avuto pari opportunità di soddisfacimento dei crediti da dichiarazione.

È proprio attorno a questo valore (equità fiscale) che si può intravedere anche la natura della misura. È ben noto, infatti, che l’art. 2937 c.c. prevede la possibilità di rinunciare alla prescrizione. Quanto alla Pubblica Amministrazione, in diverse occasioni è stata esclusa tale possibilità in giudizio da parte dell’Ufficio, sussistendo per contro l’obbligo di far valere l’effetto estintivo in presenza di un’esplicita indicazione legislativa in tal senso (cfr. art. 3 R.D.L. n. 295/1939 in relazione ai crediti da lavoro prescritti) e non potendo l’Ufficio rinunciarvi (né espressamente né tacitamente) per assenza di alcun margine di discrezionalità spettante all’Amministrazione (Cons. Stat. n. 11/1996; Cons. Stat. n. 17/1996; Cons. Stat. n. 157/2008; T.A.R. Lazio n. 10185/2008). In altri ambiti, invece, si è riconosciuta questa possibilità in mancanza di norme espresse, la rinuncia non essendo preclusa dai principi generali di contabilità pubblica (Cass. n. 3477/2015 in tema di rimborso di contributi indebitamente versati; Cass. n. 22018/2007, là dove si equipara l’offerta dell’indennità di espropriazione come rinuncia tacita alla prescrizione).

Se questo è quanto si desume in altri settori del diritto, l’analisi si dovrebbe spostare sull’attuale operatività del c.d. principio di indisponibilità in materia tributaria. Non è così. E invero, nel caso in esame è possibile prescindere da tale annosa e ampiamente discussa questione. Qui, non si valuta la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di scegliere discrezionalmente se avvalersi o meno del vantaggio derivante dal fatto estintivo in base ad una valutazione caso per caso.

L’art. 2, co. 58 configura un qualcosa di diverso. Prevedendo un divieto di opporre la prescrizione, detta norma configura una rinuncia ex lege decisa direttamente dal legislatore per evitare discriminazioni e, segnatamente, per riequilibrare la situazione fra contribuenti con diverse opportunità nelle modalità satisfattive dei crediti da dichiarazione. E difatti, se è vero che solo il legislatore può stabilire il criterio di riparto (tant’è vero che il potere dell’Amministrazione finanziaria si connota per vincolatezza), solo il Parlamento ha buon titolo per disporre della facoltà di rinunzia alla prescrizione in continuità con quanto stabilito dall’art. 2937 c.c. (secondo cui la rinunzia può essere disposta solo da chi può validamente disporre del diritto). Questa scelta – come detto – trova oltretutto una valida giustificazione (costituzionale) sul piano del suum cuique tribuere.

Sicché, a prescindere dalla circostanza che si ritenga il principio di indisponibilità a tutt’oggi operante (o meno), non vi sarebbe comunque alcuna lesione rispetto al combinato disposto dell’art. 53 Cost. e dell’art. 2937 c.c., in quanto il bilanciamento è stato eseguito dal Parlamento con la Finanziaria del 2004.

E difatti, si è osservato ancor più di recente che, in mancanza dell’art. 2, comma 58, vi sarebbe stata un possibile lesione rispetto al parametro di cui all’art. 53 Cost. per ciò che i contribuenti (con crediti da dichiarazione ante 30 giugno 1997) subirebbero un «prelievo eccessivo» rispetto alla loro capacità contributiva per ragioni imputabili ad «una complessiva situazione di ritardo nell’effettuare le restituzioni», cui il legislatore ha inteso porre rimedio proprio in ragione della cogenza del divieto di opporre la prescrizione (Cass. n. 15917/2024 che appare condividere la ricostruzione della ricorrente).

A completamento del quadro, la Suprema Corte – coerentemente con la natura di rinuncia ex lege – ritiene altresì che si tratti di un fatto rilevabile d’ufficio. Tale soluzione appare oltretutto conforme all’orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’eccezione di rinuncia alla prescrizione può essere presa in esame direttamente dal giudice (anche in difetto di iniziativa della parte interessata), sempreché i fatti siano stati ritualmente acquisiti al processo (Cass. n. 24113/2015). Nel caso dell’art. 2, comma 58 il fatto impeditivo in discorso si identifica addirittura nell’emanazione di una legge ad hoc con funzione di «norma imperativa», essendo volta al perseguimento di un «interesse pubblico» (v. par. 2.5, sent. n. 12284/2024).

3. Se i molteplici dati evocati (letterale, storico-sistematico e costituzionale) consentono di predicare l’esistenza di un “obbligo” a non opporre la prescrizione in ragione di una rinuncia ex lege, si può certamente condividere la ricostruzione della disciplina resa dalle Sezioni Unite sul punto.

A questo riguardo, la Suprema Corte avrebbe dovuto arrestarsi alla luce degli inequivoci elementi ritraibili dai canoni esegetici applicati.

Sennonché, la pronuncia sembra andare oltre il testo, assumendo un ruolo nomopoietico nella modulazione degli effetti temporali del divieto.

E invero, pur confermando l’esistenza di un obbligo a non opporre la prescrizione, esso avrebbe una durata di dieci anni. Sicché, dall’entrata in vigore dell’art. 2, comma 58 (cioè dal 1° gennaio 2004) si sarebbe aperto un nuovo decennio entro il quale il contribuente avrebbe dovuto interrompere il termine secondo le modalità ammesse dalla legge (art. 2943 c.c.).

Questa soluzione sarebbe giustificata dalla circostanza che non potrebbe sostenersi un obbligo di non-eccezione «perpetuo», proprio perché il «risultato pratico» sarebbe quello dell’«imprescrittibilità».

Detto in altri termini, si introduce così un caso di “prescrizione” dell’obbligo (di inopponibilità del fatto estintivo) e non già di prescrizione del diritto (o, più correttamente, dell’azione).

Si tratta di una soluzione del tutto eccentrica, atteso che non vi è alcun elemento oggettivo e testuale posto a suffragio di questa conclusione. Probabilmente, la scelta della Suprema Corte è dipesa da ragioni (asseritamente) equitative e, segnatamente, dal rischio di consentire un esercizio sine die del diritto di credito da parte del contribuente.

Quindi, la soluzione apparirebbe analoga a quella adottata con riferimento alla Verwinkung di matrice germanica: a fronte di un periodo di prescrizione particolarmente esteso, l’inerzia o il silenzio del contribuente comporterebbe comunque la “perdita” del diritto in applicazione del principio di buona fede e del legittimo affidamento ingenerato nel debitore.

Se così fosse, non si può far altro che contestare tale ricostruzione, ricordando che l’effetto della Verwirkung è stato negato dalla stessa giurisprudenza di legittimità nei rapporti fra privati, trattandosi di un criterio inadeguato allo scenario normativo italiano (Cass. n. 11219/2024).

Inoltre, siffatta inadeguatezza si avverte con maggiore evidenza nel rapporto tributario correlato al procedimento del rimborso d’ufficio automatizzato. Nell’ambito del diritto pubblico, l’eccedenze d’imposta avrebbero dovute essere rimborsate dall’Amministrazione finanziaria automaticamente (all’esito dei controlli ex art. 36-bis D.P.R. n. 600/73). Sicché, in questa materia, la tutela della buona fede deve essere riservata in capo al contribuente (il quale – almeno fino all’apertura della compensazione orizzontale – ha vantato una legittima aspettativa al rimborso automatico senza alcuna ulteriore attività da parte sua) e non già all’Amministrazione finanziaria che, invece, si è resa inadempiente rispetto ad un obbligo di legge (art. 41 D.P.R. n. 602/1973).

Sicché, l’aspetto equitativo appare invertito dalle Sezione Unite in base alla stessa ricostruzione storico-normativa della vicenda.

Oltre a questo aspetto, la previsione di un termine decennale per l’inopponibilità (a decorrere dal 1° gennaio 2004) appare essere un errore giuridico per indebita commistione di effetti derivanti dalla rinuncia (art. 2937 c.c.) e di quelli scaturenti dal riconoscimento di debito (art. 2944 c.c.).

Tale sovrapposizione potrebbe essere dovuta ad una circostanza della vicenda posta al vaglio della Suprema Corte: in quella fattispecie concreta, l’Ufficio – in sede amministrativa – aveva espressamente riconosciuto il credito IRPEG con un avviso di accertamento proprio in relazione alla dichiarazione dei redditi presentata per l’anno 1986.

È ben noto, infatti, che il riconoscimento del debito è causa di interruzione del termine prescrizionale, dando luogo all’apertura di un nuovo periodo di prescrizione (in questa materia) decennale (art. 2945 c.c.).

Diverso è l’effetto della rinuncia (art. 2937 c.c.) che, in questo caso, sarebbe addirittura posta dallo stesso legislatore con riguardo ai debiti erariali nei confronti dei contribuenti. E invero, la rinuncia ex lege alla prescrizione è un fatto impeditivo dell’estinzione dell’azione di rimborso. Si tratta di una circostanza che, se permane, non consente al giudice di rilevare la prescrizione, in quanto quest’ultima configura un’eccezione in senso stretto (art. 2938 c.c.) e, se procedesse comunque d’ufficio, la sentenza incorrerebbe nella violazione del principio della domanda (art. 112 c.p.c.).

L’effetto impeditivo della rinuncia legale non può avere termine, per ciò che l’inopponibilità della prescrizione non esonera il contribuente dall’onere probatorio circa l’an e il quantum del credito vantato (come riconosciuto anche dalle Sezioni Unite sulla base di quanto risulta dalla sentenza della Corte costituzionale).

Sicché, viene ancora una volta confuso l’aspetto processuale (opponibilità o meno dell’eccezione) con quello sostanziale (esistenza del diritto).

Per completezza espositiva occorre segnalare che è stata avanzata la tesi secondo cui il riconoscimento del debito configurerebbe una forma di rinuncia tacita alla prescrizione (art. 2937, comma 3, c.c.), quale fatto incompatibile con la volontà di avvalersene, cosicché a tale circostanza dovrebbe ricollegarsi l’apertura di un nuovo periodo di prescrizione (Troisi B., La prescrizione come procedimento, Camerino-Napoli, 1980, 160 ss.).

Questa tesi non può essere applicata nella fattispecie di cui trattasi, perché l’art. 2, comma 58 (alla luce della ratio, della voluntas legis e delle ragioni di equità fiscale) configura una rinuncia legale espressa a far valere la prescrizione, non trattandosi di un forma tacita.

In ogni caso, la Finanziaria del 2004 non ha riconosciuto tutte le eccedenze esposte nelle dichiarazioni presentate fino alla data del 30 giugno 1997. L’onere della prova a carico del contribuente rimane sempre fermo, anche in virtù del (discutibile) principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum già richiamato dalla Suprema Corte per negare la cristallizzazione del credito da dichiarazione (Sez. Un. 5069/2016).

Da ultimo, si consideri anche che quella ricostruzione non è stata condivisa neppure con riguardo ai rapporti fra privati. Si è osservato, infatti, che l’art. 2953 c.c. determina la conversione del termine prescrizionale breve in quello decennale per i diritti accertati con sentenza passata in giudicato, proprio perché – in tal caso – muta il titolo sulla cui base la pretesa creditoria può essere fatta valere. Nella fattispecie dell’art. 2937 c.c., invece, il titolo rimane invariato e la rinuncia impatta (determinandone l’inoperatività) solo sul diritto potestativo del debitore a precludere l’azione del creditore. Detto in altri termini, si tratta di un atto inidoneo ad incidere sull’esistenza del diritto di credito o del titolo su cui tale pretesa si fonda (a differenza di quanto accade nella fattispecie di cui all’art. 2953 c.c.) (Monticelli S., Inerzia e attività nell’esercizio del diritto, cit.).

4. In conclusione, la sentenza delle Sezioni Unite è apprezzabile nel superamento della tesi dell’invito all’Amministrazione a non opporre la prescrizione. Si trattava di una ricostruzione inappagante rispetto all’intentio legis e, soprattutto, foriera di disparità di trattamento fra contribuenti posti nella medesima situazione, con il rischio di un vulnus al principio di imparzialità dell’Amministrazione finanziaria. Questo rischio è stato considerato anche da un successivo arresto della Suprema Corte (sent. 6 giugno 2024, n. 15917), là dove si è contestato che la tesi del mero invito si presti ad applicazioni difformi da parte dei vari Uffici sul territorio nazionale.

Quella soluzione poco meditata è stata correttamente travolta da un attento esame del dato letterale, storico, sistematico e costituzionale per arrivare a quanto la dottrina aveva da sempre affermato e cioè che l’art. 2, comma 58 avesse introdotto un obbligo di non-eccezione.

Nel presente contributo, si è parlato di una vera e propria rinuncia ex lege alla prescrizione proprio come atto di disposizione dall’unico soggetto a ciò abilitato (il Parlamento) e riferito ad un divieto che trova giustificazione in un bilanciamento spettante al solo legislatore.

Merita tuttavia un ripensamento la seconda parte della sentenza, là dove la Suprema Corte dà luogo ad un’ingerenza del margine di discrezionalità che deve essere riservato all’organo dotato di legittimazione popolare, invadendo le competenze distribuite secondo il principio della separazione dei poteri.

Infatti, la soluzione di prevedere un divieto di ineccepibilità “a termine” (corrispondente ad un nuovo periodo di dieci anni dall’entrata in vigore della Finanziaria per il 2004, ossia dal 1° gennaio 2004) non trova riscontro né nel testo, né nel sistema.

Si tratta di una scelta autonoma che si pone in frizione con il principio di legalità (art. 23 e 101 Cost.).

Una manipolazione degli effetti temporali dell’art. 2, comma 58 non pare possibile in assenza di un’indicazione specifica da parte del Parlamento oppure di un intervento da parte della Corte costituzionale.

Né trova conferma quella soluzione nella stessa disciplina codicistica della prescrizione, là dove la rinuncia alla prescrizione è un fatto impeditivo rilevabile d’ufficio da parte del giudice e sprovvisto di alcun termine finale di operatività.

La revoca della rinuncia sarebbe possibile solo da parte dello stesso legislatore mediante una norma espressa in tal senso, con l’opponibilità della prescrizione attivabile dagli uffici solo a far data dal momento in cui entrerebbe in vigore la (nuova ed ipotizzata) legge abrogativa della norma attualmente ostativa all’eccezione (ossia l’art. 2, comma 58).

Per queste ragioni, si ritiene che il principio di diritto operante sia nel senso di stabilire un divieto di opporre la prescrizione (fino al momento in cui interverrà una norma di segno contrario all’art. 2, comma 58) senza che si possa predicare la decorrenza di un nuovo termine prescrizionale decennale dal 1° gennaio 2004 (data di entrata in vigore della L. n. 350/2003).

È fondamentale in questa vicenda la differenza fra l’effetto interruttivo (per riconoscimento del debito) e la rinunzia ex lege (revocabile solo mediante una legge abrogativa dell’art. 2, comma 58).

A questo riguardo, si deve segnalare che la successiva pronuncia nel medesimo ambito di analisi (sent. 6 giugno 2024, n. 15917) – pur richiamando il principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite – accoglie la tesi dell’obbligatorietà della “non-eccezione”, ma sembrerebbe discostarsi dalla verifica dell’ulteriore decorrenza del termine decennale a far data dal 1° gennaio 2024.

E difatti, il credito della contribuente era stato esposto nella dichiarazione IRPEG per l’anno 1989. La richiesta di erogazione del rimborso residuo (in quanto una quota parte era stata oggetto di restituzione mediante assegnazione di titolo di Stato) era stata presentata nel 2005, cui seguiva un sollecito nel 2018.

A fronte di tali circostanze, la Suprema Corte ha comunque accolto (seppur con rinvio) il ricorso della contribuente per ciò che «se non si interpretasse la disposizione di cui all’art. 2, comma 58, della L. n. 350/2003 come replicatio (o contro-eccezione) in senso proprio all’eccezione di prescrizione, idonea quindi a paralizzare quest’ultima, essa potrebbe assumere valenza determinante».

Per converso, se vi fosse stata pedissequa applicazione del principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite, la norma non avrebbe impedito la decorrenza del termine di prescrizione in quel caso. In quanto, l’art. 2, comma. 58 avrebbe aperto un nuovo decennio dal 1° gennaio 2004. Tale periodo sarebbe stato interrotto nel 2005 per un altro decennio fino al 2015. Sicché, se si fosse applicato il principio reso dalle Sezioni Unite, il sollecito del 2018 sarebbe stato tardivo.

Sembrerebbe quindi che la Sezione V abbia inteso accettare solo la ricostruzione sull’obbligatorietà del divieto a carico dell’Amministrazione e rifiutare la diversa modulazione degli effetti temporali della rinuncia ex lege operata (inopportunamente e inopinatamente) dalle Sezioni Unite, perché altrimenti avrebbe dovuto rigettare il ricorso alla luce dei fatti pacifici di causa.

In alternativa, la Suprema Corte potrebbe aver cassato con rinvio in ragione della necessità di ulteriori accertamenti, atteso che, in sede di appello, l’Agenzia non aveva riproposto la tesi (posta alla base del provvedimento di diniego) concernente la distinzione tra prescrizioni maturate ante e quelle formatesi post l’entrata in vigore dell’art. 2, comma 58 citato.

Ad ogni modo, si auspica un parziale ripensamento del principio di diritto, essendo frutto di una tendenza (molto criticabile) collegata al c.d. “consequenzialismo giuridico” (Ávila H., Teoria della certezza del diritto, Torino, 2023, 649) e all’interventismo pretorio in ambiti di stretta competenza legislativa.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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