EDITORIALE – Riforma delle sanzioni: l’Agenzia delle Entrate come nuovo legislatore e la crisi della legalità costituzionale
Di Alberto Marcheselli e Stefano Ronco
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I. Tra le tante modifiche apportate dal D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 di riforma delle sanzioni tributarie merita, in specie, soffermarsi sul neo-introdotto comma 5-ter dell’art. 6 che dispone che «non è punibile il contribuente che si adegua alle indicazioni rese dall’amministrazione competente con i documenti di prassi riconducibili alle tipologie di cui all’articolo 10-sexies, comma 1, lettere a) e b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, provvedendo, entro i successivi sessanta giorni dalla data di pubblicazione delle stesse, alla presentazione della dichiarazione integrativa e al versamento dell’imposta dovuta, sempreché la violazione sia dipesa da obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria».
Norma immediatamente applicabile e, nonostante le apparenze dimesse, potenzialmente dirompente.
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II. In effetti, essa, anche se è formulata in modo da saldarsi con la disciplina e le conseguenze delle condizioni di obiettiva incertezza, ha degli effetti di ben più ampia portata.
In concreto essa comporta che nel caso di condotta – contraria a una legge la cui interpretazione è talmente dubbia da costituire obiettiva incertezza – la sanzione resta applicabile, nonostante l’originaria incertezza, se il contribuente non si ravvede, adeguandosi alla circolare che chiarisce il significato della disposizione, entro 60 giorni.
Tale regola non può, evidentemente, giustificarsi, nella logica di sistema, come sanzione per l’originaria condotta, per l’ovvio fatto che, sussistendo la incertezza al momento della condotta, quella non può essere punibile per difetto di colpevolezza. E che, come ovvio, la colpevolezza non può sopravvenire al fatto. Se questa fosse la giustificazione, se cioè la norma dovesse intendersi come prevedere un inaudito sorgere di una colpa ex post, si tratterebbe di precetto costituzionalmente abnorme in modo talmente marchiano da non richiedere approfondimento alcuno.
Essa, evidentemente, si può tentare di giustificare solo in un altro modo, come norma che impone il ravvedimento successivo – l’adeguamento alla circolare – e punisce l’inosservanza di tale dovere – di ravvedersi – nel termine perentorio di legge.
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III. Ma anche così intesa essa è decisamente allarmante, in quanto costituisce spia della progressiva crisi del principio di legalità in materia tributaria, prossimo al punto di non ritorno.
In questo senso, infatti, l’orientamento di prassi ‘qualificato’ dell’Amministrazione finanziaria, nella misura in cui fa venire meno per il futuro la sussistenza di una condizione d’incertezza che opera quale causa di non punibilità della condotta illecita e obbliga a ravvedersi, viene a produrre un vero e proprio effetto giuridico, tanto da far sospettare che essa venga ad assurgere a vera e propria fonte secondaria dell’ordinamento.
In ottica sanzionatoria ciò comporta che l’acquisita rilevanza attribuita alla presa di posizione dell’Amministrazione finanziaria incide sui rapporti tra disciplina sanzionatoria e ‘regolamentazione’ sostanziale tributaria, aggiungendo alla norma tributaria la circolare quale inedita fonte (o elemento) integrativa, che fa scattare obbligo tributario (quello di adeguarsi alla circolare, ravvedendosi rispetto alla condotta precedente).
In sostanza, fermo restando che la più gran parte delle norme che prevedono le sanzioni tributarie sono norme in bianco, che rinviano a norme tributarie sostanziali per la definizione degli obblighi il cui inadempimento è sanzionato, la nuova disciplina fa ‘salire’ la circolare al rango di elemento integrativo della norma tributaria, che produce direttamente obblighi giuridici.
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IV. Tale situazione determina, a cascata, una serie di effetti.
In primo luogo, appare in vista una rottura addirittura dell’assetto costituzionale.
In parole povere, per effetto della nuova norma, la disposizione sanzionatoria amministrativa rinvia in bianco a una norma sostanziale incerta, che vien colmata da una circolare: se il contribuente non si adegua, è punito: ebbene, tale assetto può considerarsi costituzionalmente legittimo?
La impostazione tradizionale assume che la questione dovrebbe porsi nei termini della tassatività della norma punitiva, che però non rileverebbe non applicandosi alle sanzioni amministrative il principio di tassatività. Tale soluzione non ci pare convincente in nessuno dei due suoi fondamenti.
Da un lato, si tratta del problema della tassatività non della norma sanzionatoria punitiva, ma di quella, richiamata, che disciplina il fatto oggetto della condotta punita (non la norma sulla sanzione tributaria ma quella sull’obbligo sottostante), dall’altro non sembra, in rispettoso dissenso con gli orientamenti della giurisprudenza italiana, che, assunta la unitarietà del diritto punitivo, sia consentito, sul piano logico, distinguere tra tipi di sanzione.
Come che sia, e tralasciando di approfondire inquadramenti teorici della questione, il punto pratico è domandarsi quali valori e principi una tale soluzione potrebbe ledere.
Non quello della prevedibilità della sanzione (cui è tradizionalmente attenta la giurisprudenza CEDU): in effetti, se il contenuto della circolare è chiaro, il contribuente è perfettamente in grado di comprendere cosa gli si chiede e quale condotta sarà punita.
Più problematico il profilo della democraticità della fonte dell’obbligo (trascurato dalla giurisprudenza CEDU, ma ben presente nella tradizione costituzionale italiana): in effetti esso si concretizza per effetto di un atto di una autorità che non solo non è rappresentativa, ma neppure politica, ma tecnica (l’Agenzia delle Entrate). Resta da valutare se tali obiezioni potrebbero superarsi osservando che, tuttavia, alla base vi è pur sempre una legge (da interpretare), da un lato e che la riserva di legge per gli obblighi tributari è relativa: essa è rispettata da una legge incerta interpretata da una circolare della Agenzia delle Entrate?
Il dubbio si fa più delicato ancora se si considera che l’atto integrativo (e l’effetto sfavorevole) viene adottato non da un organo rappresentativo, non da un organo politico, ma da una parte, sia pur quella pubblica, e soprattutto dalla Autorità inquisitoria dotata anche del potere di indagine (oltre che di decisione) amministrativa: istituendo un parallelismo con il diritto penale, si potrebbe considerare legittimo che il Pubblico Ministero integri con proprio atto la interpretazione delle norme di cui deve controllare l’applicazione, con l’effetto di rendere sanzionabile chi non vi si adegui? Oltretutto tale rinvio è assolutamente ‘in bianco’, e, cioè, in relazione a tutti gli orientamenti di prassi ‘qualificati’ pubblicati nel futuro dall’Amministrazione finanziaria, che si pongano a chiarimento di norme tributarie originariamente contraddistinte da profili di incertezza normativa, ed è automatico, indipendentemente da qualsiasi riscontro qualitativo della circolare.
La questione appare veramente assai delicata.
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V. In secondo luogo, va rilevato che a rigore, il contribuente che non si adegui alla circolare diventa comunque sanzionabile per l’omesso immediato versamento, anche nella ipotesi in cui nel successivo giudizio sulla debenza del tributo sia riconosciuto che la circolare era errata: la disposizione presidia non l’omesso pagamento del tributo, ma l’omesso adeguamento alla circolare,
Ma se questa mostruosa circolare ha questi effetti essa deve essere, immediatamente e quantomeno, atto impugnabile per paralizzarne gli effetti.
Altrimenti resuscita, semplicemente, il solve et repete: il contribuente per evitare la sanzione deve pagare e poi impugnare sperando che gli venga data ragione, se non paga la sanzione è irrimediabile.
Non è chi non veda che si apre una voragine cospicua a livello sistematico, dovendosi ripensare la categoria degli atti impugnabili e, a cascata, domandarsi quale sorte abbiano gli atti non menzionati (ad esempio, gli interpelli)
Ad approfondire tali temi seguirà un saggio di prossima pubblicazione sulla Rivista.
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