La rilevanza della prassi amministrativa in materia di prova della partecipazione a una frode IVA
Di Alessia Fidelangeli
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(commento a/notesto CGUE, Global Ink Trade, C-537/22)
Abstract (*)
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea interviene in materia di frodi IVA. La Corte ribadisce che l’Amministrazione, per provare che il cessionario di un’operazione soggetta a IVA sapeva o avrebbe dovuto sapere che essa si inseriva in una frode, non può limitarsi a fare ricorso a supposizioni o a presunzioni. Inoltre, la diligenza richiesta al cessionario non può implicare che egli debba svolgere verifiche complesse o approfondite che solo l’Amministrazione finanziaria potrebbe svolgere. La Corte chiarisce poi che le Amministrazioni nazionali possono emettere atti di prassi interpretativa al fine di precisare il livello di diligenza richiesto a un soggetto passivo, ma essi debbono essere conformi alla giurisprudenza europea. Nel caso in cui l’Amministrazione faccia ricorso ad atti di prassi interpretativa, tale Amministrazione non può, in sede di controllo e di accertamento, adottare condotte che siano difformi dalla prassi. La mancata osservanza delle circolari, infatti, violerebbe non solo il diritto alla detrazione e il principio di neutralità dell’imposta, ma anche il principio del legittimo affidamento. Queste considerazioni sembrano mettere in discussione la giurisprudenza di Cassazione relativa, in particolare, all’utilizzo di presunzioni per provare le frodi IVA e al legittimo affidamento in relazione alle circolari amministrative.
The relevance of administrative practice in the field of proof of participation in VAT fraud – The judgment of the Court of Justice of the European Union further specifies the elements required to prove VAT fraud by the Tax Authorities. In particular, the Court reiterates that the Tax Administration cannot proof the existence of a fraud through presumptions. Moreover, the diligence required to the taxpayer cannot entail that they need to carry out complex or in-depth verifications concerning the supplier that only the Tax Administration could perform. The Court goes on to clarify that, in order to specify the level of diligence required to a taxable person, national authorities may issue administrative interpretative acts, such as circulars, if they conform to European case-law. However, if during tax assessments the Tax Administration adopts conducts which contradict the circulars, this amounts to a violation of the principle of legitimate expectations. These considerations seem inconsistent with the case law of the Italian Supreme Court, especially the case law concerning the use of presumptions to prove VAT fraud and taxpayers’ legitimate expectations in the case of circulars
Sommario: 1. Introduzione. – 2. I giudizi nazionali tra la giurisprudenza vincolante della Corte suprema e il principio di primazia. – 3. Condizioni e limiti del dovere di diligenza del cessionario nella giurisprudenza pregressa. – 4. La posizione della giurisprudenza italiana. – 5. Le specificazioni degli obblighi di diligenza contenute nella prassi nazionale alla luce della tutela della certezza del diritto e del legittimo affidamento. – 6. Le conseguenze nell’ordinamento italiano.
1. Il caso all’origine della controversia vedeva opporsi una società intermediaria di commercio all’ingrosso, la Global Ink Trade, all’Amministrazione finanziaria ungherese. La Global Ink Trade aveva acquistato beni da un’altra società ungherese, la Office builder Kft. Successivamente l’Amministrazione ungherese aveva appurato che la società venditrice non solo non aveva adempiuto ai suoi obblighi fiscali, ma non aveva una sede principale né filiali e non possedeva le risorse materiali e personali necessarie per svolgere un’attività economica.
Sulla base della circostanza che le fatture emesse nei confronti della società cessionaria non sarebbero state reali e che la cessionaria non aveva dato prova della diligenza richiesta nell’esercizio della sua attività, l’Amministrazione aveva negato il diritto alla detrazione alla Global Ink Trade. Essa si sarebbe resa colpevole di evasione fiscale passiva omettendo di informarsi sulla reale identità del cedente e sul rispetto degli obblighi tributari da parte di quest’ultimo. La società aveva presentato ricorso avverso la decisione dell’Amministrazione, opponendo che l’onere della prova dell’elemento soggettivo della frode gravasse sull’Amministrazione stessa e che l’Amministrazione non sarebbe riuscita a provare l’omissione di alcun onere di diligenza da parte della Global Ink Trade.
La Corte ungherese aveva presentato una richiesta di rinvio pregiudiziale basata su molteplici questioni. Innanzitutto, secondo il giudice del rinvio, la giurisprudenza ungherese applicherebbe dei principi in materia di diritto alla detrazione contrari alla giurisprudenza europea e, in particolare, a due ordinanze della Corte di Giustizia dirette proprio all’Ungheria. In tal modo, si rischierebbe di violare il principio di primazia del diritto europeo. In secondo luogo, l’Amministrazione finanziaria applicherebbe delle prescrizioni che impongono al cessionario oneri di diligenza incompatibili non solo con la giurisprudenza europea, ma anche con una circolare della stessa Amministrazione. Di conseguenza il suo comportamento apparirebbe in contrasto con il principio di certezza del diritto.
La spettanza del diritto alla detrazione in capo al cessionario/committente coinvolto in una frode IVA è un tema rispetto al quale ormai da tempo la giurisprudenza europea ha assunto un ruolo fondamentale, soprattutto per quanto riguarda il bilanciamento tra l’esigenza di lotta alle evasioni e la valorizzazione della buona fede dei soggetti coinvolti nelle frodi (come evidenziato da Nastri M.P., Spunti di riflessione in tema di tutela del legittimo affidamento del contribuente. Profili nazionali ed europei, in Dir. prat. trib. int., 2022, 3, 1054 ss., in ambito europeo il principio di buona fede ha trovato inizialmente applicazione proprio quanto alla partecipazione in frodi carosello, oltre che in materia di dazi doganali).
Con la sentenza che si annota la Corte di Giustizia fornisce ulteriori chiarimenti su due questioni. La prima riguarda l’individuazione dei parametri concreti per stabilire se il cliente sapeva o poteva sapere delle violazioni IVA compiute fornitore e, dunque, se può essere ritenuto responsabile per gli inadempimenti del cedente in una frode carosello. Si tratta di un aspetto estremamente importante dal momento che nelle frodi IVA viene spesso sottoposto ad accertamento proprio il soggetto che, pur non avendovi preso parte, è facilmente reperibile dall’Amministrazione e la cui colpevolezza è valutata secondo parametri di diligenza molto stringenti (Salvati A., Regime probatorio nelle frodi IVA da inesistenza soggettiva e responsabilità per fatto altrui, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 2, 720). La seconda questione riguarda la possibilità di invocare la certezza del diritto e il legittimo affidamento a tutela del contribuente che sia oggetto di accertamento in ragione di una prassi amministrativa che si pone in contrasto con un atto interpretativo generale della stessa Amministrazione. Riteniamo che queste considerazioni siano particolarmente utili soprattutto se si considerano le recenti modifiche introdotte nello Statuto dei diritti del contribuente e, più in generale, l’obiettivo tendenziale, più volte affermato nella legge delega 111/2023 di rafforzare la tutela del legittimo affidamento nell’ordinamento nazionale (v. Della Valle E., La “valorizzazione” dell’affidamento del contribuente, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1, pubblicato online il 16 aprile 2024, www.rivistadirittotributario.it).
2. Secondo il giudice del rinvio la Corte di Giustizia si era già pronunciata sull’interpretazione del diritto europeo in cause analoghe (CGUE, ord. 3 settembre 2020, Vikingo Fővállalkozó, C-610/19 e Crewprint, C-611/19).
Nei casi menzionati l’Amministrazione ungherese aveva negato il diritto alla detrazione a due società cessionarie coinvolte in frodi IVA sulla base del fatto che, in entrambe le vicende, la fabbricazione dei beni oggetto della cessione era avvenuta in assenza di mezzi materiali e umani necessari in capo alla cedente. Inoltre, nel primo dei due casi, le norme nazionali di contabilità non erano state rispettate e la catena delle cessioni non era giustificata sotto il profilo economico; dunque, le irregolarità commesse nei passaggi precedenti avevano inficiato la catena di cessioni (ord. Vikingo Fővállalkozó, cit., p.to 66). Nel secondo, invece, i contratti tra il soggetto passivo e l’emittente delle fatture avrebbero dovuto essere qualificati giuridicamente in modo diverso rispetto a quanto era avvenuto e il soggetto passivo aveva legami personali o organizzativi con l’emittente delle fatture (ord. Crewprint, cit., p.to 45).
La Corte suprema ungherese aveva ritenuto che l’Amministrazione finanziaria avesse agito correttamente nell’assolvere al proprio onere probatorio. Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata di tale Corte si può negare il diritto alla detrazione di un soggetto passivo se si riesce a provare che l’operazione fa parte di una catena di fatturazione circolare. Inoltre, si deve ritenere che la transazione economica non sia stata effettuata tra le parti individuate nel contratto se il soggetto passivo non sa o non riesce a provare che l’attività economica svolta dagli operatori a monte della catena è reale ed effettiva. Il giudice del rinvio si era, dunque, rivolto alla Corte di Giustizia.
Con le ordinanze già menzionate la Corte di Giustizia si era espressa in senso contrario alla giurisprudenza della Corte suprema ungherese. Malgrado ciò, quest’ultima aveva continuato ad applicare la propria giurisprudenza anteriore a tali pronunce argomentando che le ordinanze, per definizione, non possono contenere elementi nuovi per l’interpretazione del diritto dell’Unione (Summary of the request for a preliminary ruling – Case C-537/22, p.to 20). Di conseguenza, esse non possono richiedere un mutamento degli orientamenti consolidatisi in diritto nazionale. Nel diritto ungherese le decisioni della Corte suprema hanno valore di precedente vincolante per i giudici di merito e, nel caso in cui essi se ne vogliano discostare, debbono motivare le ragioni di tale scostamento. La questione sottoposta alla Corte di Giustizia dal giudice del rinvio è, dunque, se il rispetto della giurisprudenza di una Corte sovraordinata, nel caso in cui tale giurisprudenza appaia in contrasto con quella europea, metta in discussione il principio del primato del diritto europeo (per un approfondimento sul principio del primato del diritto europeo v., ex multis, Tesauro G., Diritto comunitario, Padova, 2008, 196 ss.; Von Bogdandy A., I principi fondamentali dell’Unione europea, Napoli, 2011, 77 ss.; nonché i saggi raccolti in Aa.Vv., Il Primato del diritto comunitario e i giudici italiani, Milano, 1978, da cui traggono origine molte delle riflessioni sviluppate in ambito nazionale su questo principio).
Nel rispondere alla questione che le è stata sottoposta, la Corte di Giustizia richiama le note sentenze adottate all’esito delle vicende che avevano coinvolto proprio l’Ungheria, oltre alla Polonia e alla Romania, in relazione all’indipendenza della magistratura (v. Halmai G., Abuse of Constitutional Identity. The Hungarian Constitutional Court on Interpretation of Article E) (2) of the Fundamental Law, in Rev. centr. east european law, 2018, 23 ss.; Pech L., The European Court of Justice’s jurisdiction over national judiciary-related measures, Study requested by the AFCO Committee, PE 747.368, April 2023; Smulders B., Increasing convergence between the European Court of Human Rights and the Court of Justice of the European Union in their recent case law on judicial independence: the case of irregular judicial appointments, in Comm. mark. law rev., 2022, 105 ss.).
In quel caso la Corte di Giustizia aveva affermato che, in forza del principio del primato del diritto dell’Unione, un organo nazionale non avrebbe potuto invocare disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, qualora esse potessero pregiudicare l’unità e l’efficacia del diritto europeo (CGUE, sent. 5 giugno 2023, Commissione/Polonia [Indipendenza e vita privata dei giudici], C-204/21, p.to 77 e sent. 24 luglio 2023, Lin, C-107/23 PPU, p.to 128). In ragione del principio di uguaglianza e di leale cooperazione tra gli Stati membri, nel caso di incompatibilità tra una disposizione oppure una giurisprudenza nazionale e la giurisprudenza europea, unica competente a fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione, il principio del primato impedisce agli organi nazionali di invocare disposizioni di diritto nazionale (sent. Commissione/Polonia, cit., p.to 79).
A maggior ragione nel caso in cui il giudice abbia esercitato un rinvio pregiudiziale, l’interpretazione della disciplina europea fornita dalla Corte è vincolante per il giudice del rinvio (sul rapporto tra effetto diretto, primato, effettività, uniformità, procedura pregiudiziale e ampiezza dell’ambito materiale d’intervento del diritto unionale v. Gallo D., L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea,Milano, 2018, 27). Di conseguenza, qualora tra il giudice nazionale e l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia si frapponga la giurisprudenza consolidata di una Corte nazionale superiore, il giudice nazionale deve disapplicare la norma che gli impone di rispettare le decisioni dell’organo di grado superiore (sent. Global Ink Trade Kft, cit., p.to 25). A suffragio di tale interpretazione la Corte afferma che il giudice nazionale, in quanto giudice dell’Unione, deve fare tutto quanto è necessario per disapplicare una normativa o una prassi nazionale che eventualmente osti alla piena efficacia delle norme del diritto europeo (sent. Global Ink Trade Kft, cit., p.to 26).
Diversamente, per quel che riguarda l’obbligo di motivare le decisioni nelle quali il giudice nazionale voglia discostarsi dai precedenti della Corte suprema, tale obbligo non sembrerebbe violare il principio del primato del diritto dell’Unione, a meno che non sia reso eccessivamente oneroso per il giudice nazionale discostarsi dalle decisioni della Corte suprema (circostanza che, secondo la Corte, non era possibile verificare in base agli elementi del fascicolo).
Ci sembra, dunque, che la sentenza che si annota si inserisca tra le pronunce adottate dalla Corte di Giustizia, e indirizzate agli Stati che non rispetterebbero lo Stato di diritto, con l’obiettivo di riaffermare, in una serie di pronunce successive, la primazia del diritto dell’Unione. In questo senso la pronuncia ha un valore politico, oltre che giuridico.
Al contempo, essa contribuisce anche a rafforzare quella giurisprudenza europea che, anche a seguito dell’allargamento dell’Unione, aveva adottato un approccio più rispettoso del principio di buona fede dei contribuenti inconsapevolmente coinvolti in una frode IVA (Mondini A., La tutela degli interessi dell’Unione contro le frodi IVA: i modelli di responsabilità tributaria e sanzionatoria nell’esperienza italiana, in Di Pietro A. – Caianiello M., a cura di, Indagini penali e amministrative in materia di frodi IVA e imposte doganali, Bari, 2016, 270, nota che la Corte di Giustizia, una volta sviluppato un principio di corresponsabilità in una serie di sentenze tra il 2006 e il 2010, ha successivamente cercato negli anni successivi di mitigare gli effetti che la propria giurisprudenza aveva prodotto).
3. Il giudice del rinvio chiede, poi, alla Corte di esprimersi riguardo alle circostanze in ragione delle quali l’Amministrazione può negare al soggetto passivo, coinvolto in una frode IVA, il diritto alla detrazione. L’Amministrazione ungherese, infatti, individuava le circostanze attestanti una mancanza di diligenza imputabile al soggetto passivo nel fatto che egli non aveva mantenuto un contatto personale con l’emittente della fattura e aveva contattato il suo fornitore all’indirizzo di posta elettronica non ufficiale. Secondo la Global Ink Trade il diniego del diritto alla detrazione sulla base di questi elementi avrebbe l’effetto di imporre a ogni soggetto passivo di procedere a verifiche complesse relative ai suoi fornitori, in contrasto con la giurisprudenza europea precedente.
Dal momento che il diritto alla detrazione è uno degli strumenti essenziali per garantire la neutralità dell’IVA, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha sempre affermato che tale diritto può essere negato soltanto in circostanze eccezionali (sul diritto alla detrazione v. su tutti Giorgi M., Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005; Logozzo M., Il diritto alla detrazione dell’IVA tra principi comunitari e disposizioni interne, in Rass. trib., 2011, 4, 1069 ss.; Salvini L., Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1290 ss.). Il principio di neutralità, infatti, è ritenuto centrale nella realizzazione di un mercato interno in cui l’imposta sul valore aggiunto non incida sulle scelte organizzative degli operatori economici. Tuttavia, anche le evasioni IVA sono in grado di incidere sul mercato, garantendo a una serie di soggetti di poter godere delle condizioni di vantaggio generate dall’evasione; di conseguenza, la lotta contro l’evasione costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla Direttiva IVA. A fronte di questi confliggenti interessi, entrambi legati a preservare condizioni concorrenziali all’interno dell’Unione, la giurisprudenza europea nel corso degli anni ha sviluppato una serie di principi fondamentali per capire se al soggetto coinvolto in una frode IVA spetti il diritto alla detrazione (la dottrina è estremamente ampia, ci si limita a rinviare alle opere monografiche di Giovanardi A., Le frodi IVA, Torino, 2013, 76 ss.; Greggi M., Presupposto soggettivo e inesistenza nel sistema d’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2014; Moschetti G., Diniego di detrazione per consapevolezza nel contrasto alle frodi Iva. Alla luce dei principi di certezza del diritto e proporzionalità, Padova, 2013).
Com’è noto, per quanto riguarda i requisiti sostanziali, occorre che sia il cedente sia il cessionario siano soggetti passivi e che i beni o i servizi invocati a fondamento del diritto a detrazione siano utilizzati ai fini di operazioni soggette ad imposta. Per quanto riguarda, invece, i requisiti formali, occorre che il soggetto passivo sia in possesso di una fattura redatta secondo i requisiti stabiliti dalla Direttiva (CGUE, sent. 11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, p.to 26). Occorre, poi, che l’operazione sia stata effettivamente realizzata; infatti, nei casi in cui sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che il diritto alla detrazione è invocato in modo fraudolento oppure abusivo, esso può essere negato (sentenze del 6 luglio 2006, Kittel e Recolta Recycling, C-439/04 e C-440/04, p.ti 54 e 55).
Gli elementi oggettivi al ricorrere dei quali si può negare il diritto alla detrazione variano a seconda che si guardi al soggetto che attua la frode oppure ai soggetti che sapevano oppure avrebbero dovuto sapere della frode. Per quanto riguarda le persone che sapevano o avrebbero dovuto sapere della frode, se l’operatore ha attuato tutti gli accorgimenti che ci si poteva attendere da lui, egli deve poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla detrazione (sent. Kittel, cit., p.to 51).
La giurisprudenza europea aveva rimarcato più volte che il riferimento a parametri oggettivi per individuare l’elemento soggettivo di una frode IVA fosse necessario a evitare di incorrere nell’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva, che eccederebbe quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario (ciò viene affermato per la prima volta in CGUE, sent. 11 giugno 2006, Federation Technological Industries, C-384/04, p.to 32. Per quanto riguarda l’inquadramento del titolo giuridico di responsabilità del cliente per gli inadempimenti IVA del fornitore v., tra gli altri, Marcheselli A., Frodi IVA del fornitore: presupposti, limiti e natura della responsabilit̀à del cliente, in GT – Riv. giur. trib., 2014, 11, 894 ss. e Salvati A., Il regime probatorio nelle frodi IVA,cit., 723 ss.). Inoltre, tale soluzione sarebbe quella più coerente con la tutela del principio di buona fede. Questo principio, pur non richiamato nella pronuncia che si annota, è progressivamente divenuto un elemento fondamentale per decidere se concedere o meno il diritto alla detrazione ai soggetti coinvolti in una frode IVA (il riferimento alla buona fede si rinviene già in CGUE, sent. 27 settembre 2007, Teleos e a., C-409/04, p.to 66, ma è portato alle estreme conseguenze e affermato in modo più chiaro in CGUE, sent. 6 settembre 2012, Mecsek-Gabona, C-273/11, p.ti 48-49).
L’onere di dimostrare che il soggetto passivo sapeva o avrebbe potuto sapere che l’acquisto di beni o di servizi invocato a fondamento del diritto alla detrazione si inseriva in un’evasione grava sull’Amministrazione tributaria. Sebbene l’Amministrazione nazionale possa fornire tale prova conformemente alle norme dello Stato membro, essa non deve nemmeno pregiudicare l’effetto utile del diritto dell’Unione. Ciò implica che non si possa fare ricorso a supposizioni o a presunzioni che abbiano l’effetto di superare de facto l’onere della prova (CGUE, sent. 1° dicembre 2022, Aquila Part Prod, C-512/21, p.to 34). Di conseguenza, l’esistenza di una catena di fatturazione circolare, in cui l’operazione si inserisce, non può essere sufficiente a dimostrare che il soggetto passivo ne fosse a conoscenza (sent. Aquila Part Prod, cit., p.to 35). Ovviamente il giudice nazionale può verificare se le amministrazioni nazionali abbiano assolto in modo adeguato all’onere della prova (sent. Vikingo Fővállalkozó, cit., p.to 57).
Proprio a questo proposito, emerge il primo elemento di rilievo della sentenza che si annota. La Corte di Giustizia ribadisce, infatti, in modo ancora più esplicito di quanto già fatto nella pronuncia appena richiamata, che, indipendentemente dal tipo di evasione o dai comportamenti esaminati, non è ammesso «il ricorso a supposizioni o a presunzioni che abbiano l’effetto, confutando l’onere della prova, di violare il principio fondamentale del sistema comune dell’IVA costituito dal diritto a detrazione e, pertanto, l’efficacia del diritto dell’Unione» (sent. Global Ink Trade, cit., p.to 55). Ciò implica che, nell’ambito della sua attività istruttoria, l’Amministrazione debba esaminare la condizione dell’acquirente per individuare elementi oggettivi che dimostrino in modo convincente che tale acquirente, al momento dell’acquisto, era inevitabilmente consapevole della natura fraudolenta dell’operazione. Non basterà quindi agli Uffici segnalare che il cessionario non ha effettuato controlli sufficienti sul cedente per giustificare la negazione della detrazione dell’IVA pagata sugli acquisti correlati.
Per quanto riguarda l’individuazione degli elementi oggettivi, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra emergere la necessità di adottare un approccio di tipo casistico che individui di volta in volta la tipologia di verifiche che ragionevolmente si possono esigere dal contribuente in base alla situazione concreta (Mondini A., La tutela degli interessi dell’Unione, cit., 271). Tale approccio casistico era stato oggetto di critiche in dottrina. Si era sostenuto, infatti, che in questo modo il diritto alla detrazione del soggetto acquirente venisse a dipendere dal concetto della conoscibilità della frode altrui, elemento di pura connotazione soggettiva e dal contenuto evanescente (Scrimieri F., Onere della prova “complesso” nelle frodi IVA di natura soggettiva, in. Riv. dir. trib., 2022, 3, 321; nello stesso senso v. anche Marello E., Oggettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2008, 1, II, 24 ss.; Miccinesi M., Le frodi carosello nell’IVA, in Riv. dir. trib., 2011, 12, I, p. 1096 ss.; Moschetti G., Diniego di detrazione per consapevolezza nel contrasto alle frodi Iva, cit., 128 ss.). La giurisprudenza lascia, infatti, dei dubbi riguardo alla determinazione della diligenza che può essere effettivamente richiesta al cessionario affinché non gli sia negato il diritto alla detrazione (Costanzo L., Corsi e ricorsi dell’accertamento di “Frodi IVA” tra fornitore e committente alla prova dei principi eurounitari, in Riv. tel. dir. trib., 2020, 1, XII, 431 ss.; Scrimieri F., Onere della prova “complesso” nelle frodi IVA, cit., 322).
In generale, al soggetto passivo può essere richiesta una maggior diligenza nei casi in cui egli disponga di indizi a partire dai quali avrebbe potuto sospettare dell’esistenza della frode, come un prezzo estremamente conveniente della merce rispetto alle condizioni di mercato. Al contempo, non può essere richiesto al contribuente di svolgere verifiche complesse o approfondite che solo l’Amministrazione finanziaria potrebbe svolgere (sent. Aquila Part Prod Com, cit., p.to 52). Infatti, un’Amministrazione dello Stato indubbiamente dispone di strumenti più accurati e attraverso i quali è più agevole procedere a verifiche di quelli a disposizione dei soggetti passivi (CGUE, ord. 9 gennaio 2023, A.T.S., C-289/22, p.to 70). Inoltre, imponendo ai soggetti passivi delle verifiche eccessivamente approfondite, l’Amministrazione trasferirebbe di essi i propri compiti di controllo, contravvenendo all’obbligo degli Stati membri di verificare le dichiarazioni fiscali, la contabilità e gli altri documenti utili presentati da detti soggetti passivi (CGUE, sent. 21 giugno 2012, Mahagében, C-80/11 e C-142/11, p.ti 63 e 65).
In particolare, l’Amministrazione non potrebbe imporre al cessionario di verificare la sussistenza di determinate caratteristiche del fornitore, come laqualifica di soggetto passivo del soggetto emittente della fattura; la disponibilità, da parte del venditore, dei beni oggetto di cessione; l’inottemperanza degli obblighi di dichiarazione e pagamento dell’IVA (sent. Mahagében, cit., p.to 61); l’esistenza di dipendenti (CGUE, sent. 6 settembre 2012, Gabor Toth, C-324/11, p.to 39) oppure di una sede d’affari necessaria e adeguata a rendere il servizio (CGUE, sent. 22 ottobre 2015, PPUH Stehcemp, C-277/14, p.ti 35 e 52); la mancata contabilizzazione nei registri del fornitore delle spese della prestazione (CGUE, sent. 13 febbraio 2014, Maks Pen, C-18/13, p.to 31). Vi sono poi situazioni che, seppur di per sé sole insufficienti a provare la conoscenza della frode, si configurano come indizi che potrebbero essere utilizzati insieme ad altri per dimostrare la consapevolezza del cessionario, come il fatto di non aver rispettato gli obblighi relativi all’individuazione dei fornitori imposti da un’altra fonte derivata europea (CGUE, sent. 2 ottobre 2019, Valsts ieņēmumu dienests, C-329/18, p.to 41).
La sentenza che si annota ribadisce quanto sia importante non imporre al contribuente «verifiche complesse o approfondite», equiparabili a quelle che potrebbero essere disposte dall’Amministrazione finanziaria. Tale parametro di equiparabilità con i compiti e gli strumenti dell’Amministrazione ha assunto sempre maggiore centralità nella giurisprudenza recente. Riteniamo che il ruolo di questo criterio, affermato esplicitamente in tempi recenti (sent. Aquila Part Prod Com, cit.) ma già in nuce nella giurisprudenza precedente (sent. Mahagében, cit.), sia destinato ad essere ulteriormente approfondito dall’attività interpretativa della Corte di Giustizia. La sentenza conferma, inoltre, che richiedere al soggetto cessionario di informarsi quanto alla reale identità del suo fornitore e al rispetto, da parte di quest’ultimo, dei suoi obblighi tributari, rientrerebbe nelle verifiche complesse e approfondite che non possono essere demandate al soggetto passivo. Dal punto di vista dell’onere probatorio, dunque, la sentenza che si annota non sembra addurre elementi ulteriori alla giurisprudenza precedente, ma appare piuttosto confermare e approfondire quanto già affermato dalla Corte tra il 2011 e il 2022.
4. La giurisprudenza nazionale più recente appare formalmente conformarsi a quella europea (per una ricostruzione completa della giurisprudenza nazionale più recente si rinvia a Salvati A., Il regime probatorio nelle frodi IVA, cit., 721 ss. e Scrimieri F., Onere della prova “complesso”, cit., 326-334).
Infatti, gli arresti della Corte di Cassazione dell’ultimo anno affermano che, nel momento in cui l’Amministrazione finanziaria contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, su di essa grava l’onere di provare sia la fittizietà del fornitore, sia la consapevolezza del cessionario di inserirsi in una frode IVA (v. da ultimo Cass. civ., ord. 5 giugno 2024, n. 15670). Ai fini della prova non assumono rilievo la regolarità della contabilità e dei pagamenti (Cass. civ., ord. 12 giugno 2024, n. 16303) oppure l’assenza di una sede operativa adeguata allo svolgimento dell’attività svoltà (Cass. civ., ord. 16 febbraio 2022, n. 5059). Inoltre, al contribuente che richiede il diritto alla detrazione non può essere richiesta un’approfondita analisi della struttura organizzativa del cedente o prestatore, analisi cui il ricorrente non potrebbe procedere con gli stessi strumenti di indagine di cui possono disporre gli Uffici finanziari (Cass. civ., ord. 21 maggio 2024, n. 14102).
Secondo la giurisprudenza nazionale, poi, l’Amministrazione potrebbe provare la consapevolezza del destinatario di prendere parte alla frode tramite presunzioni, dovendo poi il contribuente dimostrare di aver rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità (Cass. civ., sent. 20 aprile 2018, n. 9851; ord. 5059/2022, cit.; Cass. civ., ord. 22 aprile 2022, n. 12853).
Infatti, sebbene la Corte di Cassazione affermi che l’onere di provare la buona fede del cessionario non debba gravare sul contribuente, ciò vale solo fintantoché non sussistano prove, anche indiziarie, fornite dall’Amministrazione finanziaria in ordine alla circostanza che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere della partecipazione alla frode (ord. n. 12853/2022, cit.). Tali elementi indiziari non debbono attenere alla struttura organizzativa del cedente ma piuttosto: alle eventuali ricadute negoziali dell’assenza di organizzazione del fornitore, come livelli fuori mercato dei prezzi di cessione, o patti di retrocessione della quota IVA versata, ovvero anomale dinamiche di approvvigionamento, di stoccaggio della merce, di pagamento (Cass. civ., ord. 21 maggio 2024, n. 14102); alla limitatezza dell’eventuale ricarico; alla presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione; alla scelta di operare secondo canali paralleli di mercato; ai rapporti contigui e frequentazioni reiterate con i titolari della cartiera (Cass. n. 9851/2018, cit.). Più in generale, in capo al destinatario di un’operazione IVA sorge un obbligo di verifica della struttura e delle condizioni di operatività del proprio fornitore in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte effettuate dal fornitore che evidenzino irregolarità e ingenerino dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera (da ultimo Cass. civ., ord. 22 aprile 2024, n. 10823).
Desta maggiori dubbi di compatibilità europea che nella giurisprudenza nazionale permangono pronunce nelle quali si afferma che, in tema di evasione dell’IVA a mezzo di frodi carosello, quando l’operazione soggettivamente inesistente è di tipo triangolare, poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed il cessionario, l’onere probatorio a carico della Amministrazione finanziaria è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce (Cass. civ., sent. 21 aprile 2017, n. 10120; Cass. civ., ord. 20 dicembre 2023, n. 35591). Inoltre, esistono varie pronunce in cui si continua ad annoverare, tra gli elementi suscettibili di provare la sostanziale inesistenza del contraente, il fatto che la prestazione non poteva essere effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della sia pur minima dotazione personale e strumentale, adeguata alla sua esecuzione (v., ad esempio, Cass. civ., ord. 13 gennaio 2021, n. 336 e Cass. civ., ord. 16 febbraio 2022, n. 5059). In tal modo, è come se si affermasse che, se la frode è poco complessa, i partecipanti sono un numero ridotto e il fornitore evade, allora si può presumere che anche gli altri soggetti coinvolti nella frode ne fossero a conoscenza. Ciò avviene a meno che tali soggetti non dimostrino di non avervi partecipato. In dottrina si è già sottolineato che è piuttosto frequente nella giurisprudenza recente affermare che, se l’Agenzia fornisce la prova di una certa circostanza, il contribuente perde se non prova il contrario (Marcheselli A., Onere della prova, orecchio assoluto, riforma della giustizia tributaria e auspicabile de profundis per le c.d. presunzioni giurisprudenziali, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 2, XV, 1059 ss.). In tal modo ci sembra che la Cassazione continui di fatto ad utilizzare l’argomento secondo il quale, essendo la detrazione un diritto, spetta a chi lo afferma dover provare la sussistenza dei fatti su cui si fonda il diritto, mentre all’Amministrazione compete provare solo i fatti (anche presuntivamente) su cui si fonda la contestazione del diritto.
L’approccio della Cassazione appare in contrasto sia con la giurisprudenza più recente della Corte di Giustizia (sul tema v. anche Moschetti G., Diniego di detrazione per consapevolezza nel contrasto alle frodi Iva, cit., 80 ss.), sia con la nuova formulazione dell’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992.
Per quanto riguarda la giurisprudenza europea, le pronunce della Cassazione creerebbero in via giurisprudenziale una presunzione secondo la quale, se si prova che un soggetto si inserisce in una frode la cui struttura è poco complessa, allora si può presumere che egli fosse a conoscenza della frode, salvo che non riesca a provare il contrario.
Nel sistema dei mezzi di prova le presunzioni debbono essere distinte sia dalle prove dirette, in cui il giudice percepisce direttamente il fatto da provare, sia dalle prove rappresentative, in cui il giudice percepisce un atto compiuto o una cosa idonea per la rappresentazione del fatto da provare (Fabbrini G., «Presunzioni», in Dig. disc. civ., Torino, 1996 che si rifà a Carnelutti F., Prove civile, Roma, 1915, 66 ss.). Le presunzioni sono, infatti, prove critiche attraverso le quali si arriva ad affermare l’esistenza di un fatto A, né percepito né rappresentato di fronte al giudice, attraverso la conoscenza di un fatto B, diverso dal fatto A e percepito o rappresentato al giudice (Fabbrini G., «Presunzioni», cit.). Nella presunzione legale l’apprezzamento del nesso di inferenza tra il fatto Ae il fatto Bè compiuto dal legislatore. Il legislatore adotta una norma che obbliga il giudice a ritenere esistente il fatto Bogni volta che abbia raggiunto la certezza del fatto A. Se la presunzione è assoluta, i soggetti convolti non possono contrastare le conseguenze giuridiche che il legislatore ha stabilito sulla base della presunzione. Se la presunzione è relativa, una volta che la parte a cui favore opera la presunzione abbia dato prova dei fatti base del meccanismo presuntivo il giudice dovrà concedere la tutela richiesta, salvo che l’altra parte, cioè il soggetto contro cui la presunzione opera, non riesca a provare il fatto opposto a quello presunto oppure fatti incompatibili con l’esistenza del fatto presunto. Dunque, le presunzioni legali (assolute e relative) incidono sulla struttura della fattispecie sostanziale, che è modificata in ragione della presunzione.
Diversamente, nelle presunzioni semplici è il giudice che, al di fuori di esplicite previsioni normative, riscontra collegamenti logici sufficienti per affermare l’esistenza del fatto Bdalla conoscenza del fatto A. Nella presunzione semplice, dunque, al giudice è richiesto un autonomo e preciso vaglio delle circostanze del singolo caso (Fabbrini G., «Presunzioni», cit.; Andrioli V., «Presunzioni (dir. civ. e dir. proc. civ.)», in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 767 ss.). Il giudice dovrà, nella concretezza del caso specifico, ricostruire il quadro dei fatti rilevanti e identificare gli elementi indiziari a partire dai quali l’esperienza gli consente di ricavare certezza sopra i fatti di causa. Inoltre, egli dovrà individuare (e motivare) il nesso logico tra fatto base della presunzione e fatto al quale si vuole arrivare attraverso il ragionamento presuntivo, e le sue scelte dovranno essere frutto della ragionata comparazione dei vari dati e della scelta della affidabilità degli uni piuttosto che degli altri (Fabbrini G., «Presunzioni», cit.).
Se il giudice nazionale si limita a richiamare propri precedenti giurisprudenziali per far discendere il fatto A dal fatto B, senza analizzare di volta in volta la ragionevolezza della presunzione semplice in relazione alla concretezza del caso specifico, la presunzione stessa diviene un automatismo. In questi casi l’automatismo rischierebbe di creare «presunzioni giurisprudenziali» che rendono, nel caso concreto, irragionevolmente difficile difendersi (sulla nozione di presunzione giurisprudenziale v. Tinelli G., Diritto processuale tributario, Padova, 2021, 218, che le definisce come «presunzioni nate nella pratica applicazione del giudice che hanno finito per consolidarsi nella giurisprudenza e […] che, in alcuni casi, sembrano proporre soluzioni contrastanti con scelte sistematiche del legislatore»). La presunzione giurisprudenziale si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza europea qualora creasse un automatismo in ragione del quale il giudice non analizzerebbe, criticamente per ogni caso sottoposto alla sua attenzione, la massima di esperienza applicata, ma si limiterebbe a reiterare la regola probatoria decisa nei precedenti. Infatti, la giurisprudenza europea che si annota afferma che sono vietate prassi probatorie che rendano irragionevolmente difficoltoso provare i fatti o introducano oneri probatori non ragionevoli, in tal modo giungendo ad alterare l’applicazione delle regole sostanziali.
Occorre ad ogni modo ricordare che il concetto di presunzione giurisprudenziale è un concetto utilizzato nell’ordinamento italiano. La sentenza di cui si discute non fa alcun riferimento alle presunzioni giurisprudenziali e utilizza l’espressione prassi probatoria. Riteniamo che la presunzione giurisprudenziale, nell’accezione italiana, possa rientrare tra le prassi probatorie di cui parla la Corte di Giustizia. Tuttavia, bisogna precisare che nell’ordinamento ungherese, a differenza dell’ordinamento italiano, esiste il precedente vincolante. Dunque, nel caso in cui sia la Corte Suprema ad affermare una certa prassi probatoria, il giudice di merito, che interviene in un momento successivo, non è del tutto libero di discostarsene. In ogni caso, se volesse discostarsene, dovrebbe motivare. Dunque, nell’ordinamento ungherese l’automatismo della presunzione sarebbe rafforzato dalla vincolatività del precedente che lo ha sancito. Diversamente, nel caso dell’ordinamento italiano, sarebbe il consolidamento della giurisprudenza che sancisce quell’automatismo, in presenza di qualche elemento o fatto indiziario, a porsi in contrasto con la giurisprudenza europea. In assenza della forza cogente del precedente giurisprudenziale, la reiterazione nel tempo e l’automatismo che la presunzione giurisprudenziale ingenera attribuirebbero a tali presunzioni un’efficacia vincolante per il giudice maggiore di quella della presunzione semplice (v. MarcheselliA., Onere della prova, orecchio assoluto, riforma della giustizia tributaria, cit., secondo il quale le presunzioni giurisprudenziali nell’ordinamento italiano hanno uno status intermedio tra le presunzioni semplici e le presunzioni legali, non essendo presente nel nostro ordinamento il precedente vincolante ma, al contempo, non essendo previste dalla legge).
Per quanto riguarda invece l’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992, secondo tale disposizione è l’Amministrazione finanziaria a dover provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato e il giudice può annullare l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive sui cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni (per un commento alla nuova formulazione della disposizione, sulla portata della quale si sono evidenziate posizioni contrastanti in dottrina, v., ex multis, Della Valle E., La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel rito tributario, in Il fisco, 2022, 40, 3807 ss.; Glendi C., Onere della prova o regola finale del fatto incerto nel processo tributario riformato, in GT – Riv. giur. trib., 2023, 6, 473 ss.; Moschetti G., Il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 243 ss.; Muleo S., Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in Pistolesi F. – Carinci A. (a cura di), La riforma della giustizia e del processo tributario, Milano, 2022, 83 ss.; Russo P., Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 2, XV, 1013 ss.; Viotto A., Prime riflessioni sulla riforma dell’onere della prova nel giudizio tributario, in Rass. trib., 2023, 2, 331 ss.).
La Corte di Cassazione ha ritenuto che la nuova formulazione della disposizione non stabilisca un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia. Proprio in relazione alla spettanza del diritto alla detrazione di un soggetto coinvolto in una frode IVA, la Corte ha recentemente affermato che la disposizione non mette in discussione la giurisprudenza pregressa di Cassazione. L’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992, infatti, non costituisce abrogazione, neppure implicita, dell’utilizzo delle presunzioni semplici in materia tributaria ma detta al giudice tributario le regole di valutazione della prova, stabilendo che, se questa – anche presuntiva – è insufficiente o contraddittoria, non debba essere valutata dal giudice (v. da ultimo Cass. civ., ord. 13 giugno 2024, n. 16493 e Cass. civ., ord. 22 aprile 2024, n. 10823 che confermano Cass. civ., ord. 27 ottobre 2022, n. 31878). Infine, sempre a detta della Cassazione, la disposizione avrebbe chiaramente natura sostanziale e, dunque, si applicherebbe ai giudizi introdotti successivamente al 16 settembre 2022 (Cass. n. 16493/2024, cit.). Malgrado l’affermazione della Cassazione sembri suggerire che essa non voglia discostarsi dalla giurisprudenza pregressa, ci sembra che il riferimento della disposizione al fatto che la prova deve essere fornita «in modo circostanziato e puntuale», valga ad escludere l’utilizzo di automatismi probatori quali quelli appena descritti (in questo senso v. anche Cass. civ., sent. 14 giugno 2024, n. 16629, in cui si afferma che, in ragione della nuova formulazione dell’art. 7, le presunzioni giurisprudenziali «devono essere sufficienti e circostanziate e, come tali, oggetto di opportuna valutazione da parte del giudice di merito»).
Alla luce di queste considerazioni, ci si potrebbe chiedere se gli atti dell’Amministrazione finanziaria emanati in violazione della giurisprudenza europea possano essere annullati in autotutela e, in caso di diniego, impugnati alla luce della nuova formulazione dell’art. 19 D.Lgs. n. 46/1992 che prevede tra gli atti impugnabili anche il diniego di annullamento in autotutela facoltativo (sulla questione si veda Falcone F., Frodi “carosello”: la CGE “impone” un rigoroso onere probatorio alle Autorità fiscali, in L’IVA, 2024, 4, 21 ss.).
5. La seconda parte dell’argomentazione della sentenza riguarda l’applicazione del principio della certezza del diritto in ipotesi in cui l’Amministrazione abbia in un primo momento adottato atti che hanno ingenerato un affidamento nel contribuente e, successivamente, abbia proceduto ad accertamento in senso contrario a quanto affermato in precedenza.
Com’è noto, il principio di certezza del diritto non ha una esplicita formulazione nel diritto europeo, ma la Corte di Giustizia ha affermato a più riprese che le norme tributarie devono essere certe e la loro applicazione prevedibile per coloro che vi sono sottoposti. Tale principio deve essere osservato con rigore particolare quando si tratta di una «normativa idonea a comportare oneri finanziari, al fine di consentire agli interessati di conoscere con esattezza l’estensione degli obblighi che essa impone loro» (CGUE, sent. 9 ottobre 2014, Traum, C-492/13, p.to 28 e 29; CGUE, sent. 10 settembre 2009, Plantanol, C-201/08, p.to 46). Inoltre, occorre che le norme non abbiano una formulazione tale da impedire ai destinatari di conoscere in modo chiaro i propri diritti ed obblighi. La tutela della certezza del diritto appare fondamentale nell’ambito di un sistema multilivello, in cui si trovano a convivere il diritto nazionale e il diritto sovranazionale, circostanza che complica l’individuazione delle regole applicabili ai casi concreti. Ai fini di questo lavoro, è importante sottolineare che il principio di certezza non è riferibile soltanto alla normativa legislativa o regolamentare, ma si estende anche agli atti di interpretazione e indirizzo dell’Amministrazione, pur non trattandosi di atti normativi in senso stretto ma di atti interni che documentano una prassi amministrativa o che sono diretti a orientare la prassi.
Nel caso di cui si discute la Corte di Giustizia afferma che gli Stati possono adottare normative vincolanti oppure atti amministrativi di interpretazione (più correttamente, nella sentenza si parla di «circolari») al fine di precisare il livello di diligenza richiesto al soggetto passivo. La discrezionalità degli Stati nel fornire tali precisazioni trova due limiti. Innanzitutto, in ragione del principio di neutralità, le misure richieste non possono rimettere sistematicamente in discussione il diritto alla detrazione. In secondo luogo, non si può arrivare a invertire l’onere della prova dell’evasione oppure a far gravare sul soggetto passivo il compito di attuare verifiche approfondite e complesse (sent. Global Ink Trade, cit., p.to 46).
In un settore in cui le regole di condotta sono dettate principalmente in via giurisprudenziale, la possibilità in capo all’Amministrazione di individuare linee guida tramite le quali specificare gli obblighi di diligenza del contribuente ci sembra cruciale (sui rischi in termini di certezza del diritto v. Moschetti G., Diniego di detrazione per consapevolezza nel contrasto alle frodi Iva, cit., 68 ss.). Ciò che la sentenza afferma è che, nella redazione di tali linee guida, l’Amministrazione finanziaria trova dei limiti alla propria discrezionalità nella giurisprudenza europea stratificatasi nel corso del tempo riguardo alle frodi IVA e nei principi generali di origine normativa o giurisprudenziale.
Nella sentenza che si annota, la circolare dell’Amministrazione finanziaria che specifica gli obblighi di diligenza del soggetto cessionario/committente coinvolto in una frode IVA rispetta i due limiti appena delineati. Tuttavia, le condotte dell’Amministrazione in sede di controlli o accertamento (condotte cui nella sentenza si fa riferimento con il termine di «prassi»), convalidate dalla giurisprudenza della Corte suprema ungherese, non rispetterebbero il contenuto della circolare. Di conseguenza, l’Amministrazione adotterebbe degli atti di accertamento in violazione della circolare. Occorre specificare che nel diritto ungherese per circolare si intende un atto, che può essere adottato su richiesta (anonima) di un contribuente oppure su iniziativa dell’Amministrazione, con il quale si forniscono indicazioni quanto all’interpretazione della normativa tributaria. Le circolari non hanno efficacia vincolante per il giudice (decisione del Ministro delle Finanze ungherese 5/2022, VIII.5, Sec. 3[1]c).
Ciò che la giurisprudenza europea sembra suggerire è che, in presenza di un atto interpretativo generale, questo prevale sulla prassi applicativa dell’Amministrazione proprio perché i contribuenti possono essere giunti a conoscenza dell’atto messo a disposizione dalla stessa Amministrazione. Nel caso di specie, dunque, la violazione del principio di certezza del diritto sarebbe invocata non in relazione a una condotta dell’Amministrazione oppure a una circolare che forniscono indicazioni contrarie al diritto europeo, ma piuttosto in relazione al rapporto tra tale condotta e la circolare interna. Occorre specificare che entrambe queste ipotesi (condotta dell’Amministrazione e circolari) in passato erano state considerate suscettibili di ingenerare un legittimo affidamento nel contribuente.
Il principio del legittimo affidamento, nella giurisprudenza europea, è considerato un corollario del principio di certezza del diritto ed è tradizionalmente invocato dal destinatario di un’informazione a sé favorevole proveniente dall’Amministrazione tributaria per limitare le conseguenze di successivi atti che, al contrario, sarebbero sfavorevoli al contribuente. Il principio del legittimo affidamento è stato invocato in ambito tributario dai contribuenti per mettere in discussione la debenza del tributo, delle sanzioni e degli interessi (sul tema della cd. tutela piena oppure parziale v., su tutti, Della Valle E., Affidamento e certezza del diritto tributario, Milano, 2001, 113 ss.; Logozzo M., I principi di buona fede e del legittimo affidamento: tutela “piena” o “parziale”?, in Dir. prat. trib., 2018, 6, I, 2325 ss.; Maspes V.P., Legittimo affidamento: fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio?, in Corr. trib., 2021, 1, 91 ss.).
In ambito IVA questo principio è stato spesso richiamato per quanto concerne sia il diritto al rimborso, sia il diritto alla detrazione spettante al cessionario/committente, come nel caso che si annota (CGUE, sent. 31 gennaio 2013, Stroy trans EOOD, C-642/11, p.to 47 ss.; CGUE, sent. 21 marzo 2018, Volkswagen, C‑533/16, p.to 47 ss.; CGUE, sent. 11 aprile 2018, SEB bankas, C-532/16, p.ti 49 ss.).
Affinché si possa invocare il principio del legittimo affidamento, è necessario che siano soddisfatte alcune condizioni. Innanzitutto, occorre verificare che gli atti oppure le condotte reiterate dell’Autorità amministrativa abbiano ingenerato fondate aspettative in capo ad un operatore prudente ed accorto (v. ex multis CGUE, sent. 14 febbraio 1990, Delacre, C-350/88). Inoltre, occorre che le aspettative fossero fondate su atti interpretativi oppure condotte legittime della pubblica amministrazione (Sent. SEB bankas, cit., p.to 50). Ciò implica, ad esempio, che non si potrebbe invocare il legittimo affidamento in relazione a prassi interpretative oppure applicative dell’Amministrazione che contrastino con il diritto europeo.
Di conseguenza, della lettura congiunta della giurisprudenza precedente e della sentenza che si annota sembrano potersi desumere alcuni punti fermi in relazione all’affidamento che il cessionario o committente ha riposto in atti o condotte dell’Amministrazione riguardanti il suo diritto alla detrazione. Nel caso in cui tali atti o condotte siano legittime e conformi al diritto europeo, il soggetto può invocare il legittimo affidamento. Diversamente, se un’Autorità amministrativa fornisce informazioni inesatte, un individuo non può fare affidamento su tali informazioni se avrebbe dovuto ragionevolmente scoprirne l’inesattezza. Se le assicurazioni fornite dalle Autorità nazionali, o le pratiche degli Stati membri, sono contrarie al diritto europeo, non sono in grado di generare un legittimo affidamento, altrimenti gli Stati membri sarebbero autorizzati a perseguire deliberatamente politiche contrarie al diritto europeo, mettendone a rischio l’applicazione uniforme e l’efficacia.
Nel caso, poi, in cui la prassi applicativa dell’Amministrazione, cioè la condotta dell’Amministrazione che risulta negli atti di accertamento, sia contraria alla prassi interpretativa, cioè alle circolari, il contribuente potrà invocare la tutela del legittimo affidamento solo qualora la circolare fosse a sua volta conforme al diritto europeo. Viceversa, riteniamo che, nel caso in cui sia la prassi applicativa nazionale quella conforme alla giurisprudenza europea (e la prassi interpretativa quella contraria), non valga il principio opposto: in questo caso non si potrà invocare il legittimo affidamento nella circolare, in quanto essa è illegittima.
Nella pronuncia che si annota la Corte di Giustizia individua una vera e propria lista di condizioni che debbono essere soddisfatte nell’ipotesi in cui l’Amministrazione nazionale abbia adottato una circolare che concerne gli obblighi di diligenza del soggetto passivo e, al contempo, nell’applicazione della circolare si sia costituita una prassi applicativa difforme. Solo se queste quattro condizioni sono soddisfatte, l’azione dell’Amministrazione sarà conforme alla certezza del diritto e alla neutralità fiscale. Vi sono due condizioni che si applicano sia alla prassi applicativa, sia a quella interpretativa. Innanzitutto, occorre che entrambe non rimettano in discussione l’obbligo, incombente sull’Amministrazione, di dimostrare sufficientemente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione in cui è coinvolto si iscriveva in un’evasione. In secondo luogo, la circolare e la prassi applicativa non devono far gravare sullo stesso soggetto passivo l’onere di verifiche complesse e approfondite riguardanti la sua controparte contrattuale. Per quanto riguarda la circolare, poi, essa deve essere pubblicata all’attenzione dei soggetti passivi, deve avere una formulazione non equivoca e la sua applicazione deve essere prevedibile per coloro che vi sono assoggettati. Infine, le prescrizioni applicate dall’amministrazione nelle attività di indagine e accertamento debbono essere conformi a quelle previste dalla medesima circolare (sent. Global Ink Trade, cit., p.to 52).
La Corte individua queste indicazioni con specifico riferimento al settore delle frodi IVA. Ci sembra, tuttavia, che le indicazioni relative al fatto che la condotta dell’Amministrazione non debba violare le indicazioni contenute in un atto interpretativo generale messo a disposizione del contribuente (ad esempio, pubblicato sul sito dell’Amministrazione), quale una circolare, possano essere in futuro applicate, mutatis mutandis, anche ad altri settori oggetto di armonizzazione che si caratterizzano per la presenza di lacune legislative. Si dovrebbe trattare, dunque, di ambiti in cui gli atti di interpretazione e indirizzo nazionali hanno un ruolo fondamentale non solo nell’orientare i comportamenti del contribuente, ma anche nel recepire e concretizzare, individuando veri e propri parametri di condotta, i principi sanciti dalla giurisprudenza europea.
In altri termini, riteniamo che l’applicazione di principi generali, come quelli di certezza del diritto e del legittimo affidamento, in questioni interne, come quelle che riguardano la coerenza tra prassi applicativa e interpretativa, possano essere applicate in futuro non a ogni settore armonizzato, ma al ricorrere di due condizioni. Innanzitutto, deve trattarsi di ambiti in cui si è andata stratificando una ricca giurisprudenza europea nel corso del tempo. Tale giurisprudenza deve aver individuato i limiti e le condizioni dell’esercizio di un certo diritto. In secondo luogo, deve trattarsi di ambiti in cui è necessario garantire un bilanciamento tra principi e interessi fondamentali all’Unione Europea e, dunque, nella maggior parte dei casi, alla creazione del mercato interno, come si è detto del principio di neutralità e dell’esigenza di evitare frode ed evasione (v. il precedente paragrafo 3).
6. Se nel diritto europeo il principio del legittimo affidamento è un corollario del principio della certezza del diritto, nel nostro ordinamento esso si configura come una specificazione del principio di buona fede (Nastri M.P., Spunti di riflessione in tema di tutela del legittimo affidamento del contribuente, cit., 1054) ed è esplicitamente tutelato dallo Statuto dei diritti del contribuente (v. ex multis Colli Vignarelli A., Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, 6, I, 669 ss.; Della Valle E., Affidamento e certezza del diritto tributario, cit.; Logozzo M., L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002; Marongiu P., Legittimo affidamento e Fisco, Genova, 2010; Trivellin M., Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009).
I comportamenti dell’Amministrazione finanziaria che possono fondare l’affidamento legittimo del contribuente sono sia le opinioni interpretative contenute in atti amministrativi (circolari, risoluzioni, note, ecc.), sia le situazioni di fatto consistenti in ritardi, omissioni ed errori. Nell’ambito della prima categoria, tra le informazioni meritevoli di ingenerare affidamento, hanno primaria importanza quelle fornite dall’Amministrazione finanziaria mediante atti interpretativi di carattere generale quali le circolari, che contengono indicazioni e direttive circa l’interpretazione delle disposizioni che disciplinano l’attuazione del rapporto tributario (Bertolissi M., Circolare [dir. trib.], in Digesto, disc. pubbl., Torino, 1990; Di Pietro A., I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in Amatucci A., diretto da, Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, I, 619 ss.; Falsitta G., Rilevanza delle circolari interpretative e tutela del contribuente, in Rass. trib., I, 1998, 1 ss.; Sammartino S., Le circolari interpretative delle norme tributarie emesse dall’amministrazione finanziaria, in Aa.Vv., Studi in onore di V. Uckmar, II, Padova, 1998, 1077 ss.).
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, secondo la giurisprudenza di Cassazione le circolari dell’Amministrazione finanziaria non contengano norme di diritto, bensì mere disposizioni di indirizzo uniforme interno all’Amministrazione da cui promanano. Di conseguenza si tratta di atti amministrativi non provvedimentali, che non possono fondare posizioni di diritto soggettivo in capo a soggetti esterni all’Amministrazione stessa e non vincolano né i contribuenti né i giudici (v., da ultimo, Cass. civ., ord. 12 gennaio 2024, n. 1335; Cass. civ., ord. 25 novembre 2021, n. 36565; Cass. civ., sent. 8 marzo 2017, n. 5937). Ciò solleva dei dubbi rispetto alla compatibilità europea dell’approccio nazionale. Secondo tale giurisprudenza, infatti, in un caso speculare a quello ungherese, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a garantire l’applicazione della circolare a detrimento della prassi applicativa dell’Amministrazione. Al contempo, il contribuente non potrebbe proporre ricorso in Cassazione avverso la prassi che viola la circolare. Nondimeno, occorre sottolineare che, nel caso in cui la prassi fosse contraria al diritto europeo, il giudice sarebbe tenuto ad annullare l’atto emesso in conformità a tale prassi viziata. Inoltre, il contribuente potrebbe eventualmente invocare la violazione del diritto europeo.
A fronte di tale orientamento nazionale, ciò che la Corte di Giustizia sembra suggerire nella sentenza che si annota è che un atto dell’Agenzia di cui il contribuente viene messo a conoscenza, qualora sia legittimo e conforme al diritto europeo, è idoneo a ingenerare il legittimo affidamento del contribuente e, dunque, la prassi applicativa che si ponesse in controtendenza rispetto ad esso comporterebbe una violazione “mediata” dei principi di certezza del diritto e legittimo affidamento, tutelati del diritto europeo. Queste considerazioni ci sembrano a maggior ragione rilevanti se si considera che uno degli obiettivi della delega fiscale, poi realizzato modificando lo Statuto del contribuente (D.Lgs. del 30 dicembre 2023, n. 219), è proprio la valorizzazione dei principi di legittimo affidamento e di certezza del diritto.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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