Le perdite estere definitive nella riforma fiscale

Di Chiara Francioso -

Abstract (*)

La legge delega per la riforma fiscale 9 agosto 2023, n. 111, fra i criteri direttivi in materia di perdite di periodo, contempla anche l’introduzione di una disciplina che consenta di prendere in considerazione ai fini fiscali in Italia perdite estere definitive – ossia non più utilizzabili nello Stato europeo in cui sono maturate – secondo gli orientamenti della Corte di Giustizia UE sulla libertà di stabilimento. Il saggio commenta criticamente la norma attuativa prospettata nello schema di decreto legislativo di riforma del TUIR, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri il 30 aprile 2024. Pur nell’apprezzabile sforzo di rimuovere un ostacolo significativo al godimento delle libertà fondamentali, la norma proposta, concentrandosi solo sulle fusioni infra-europee “in entrata”, ignora altri scenari problematici. Come testimonia la relazione illustrativa, inoltre, la portata della norma è ridotta per effetto delle numerose sentenze della Corte che, pur ponendosi nel solco tracciato dal leading case Marks & Spencer”, hanno fissato ulteriori requisiti ai fini della prova della definitività delle perdite, che rendono l’eccezione raramente applicabile.

The Final Foreign Losses in the Fiscal Reform – The Enabling Law for Tax Reform of August 9, 2023, no. 111, provides for the recognition of final foreign losses in Italy. According to the European Court of Justice rulings on the freedom of establishment, cross-border loss relief should exceptionally be granted in the State of residence of the parent entity when a foreign subsidiary or permanent establishment has exhausted the possibilities to offset the lossess recorded where it is established. This essay critically reviews the implementing legislation outlined the draft legislative decree amending the Income Tax Act, provisionally approved by the Council of Ministers on April 30, 2024. Despite commendable efforts to remove significant obstacles to fundamental freedoms, the proposed framework focuses solely on inbound intra-European mergers and overlooks other concerning scenarios. Moreover, as suggested in the explanatory report, the scope of the reform seems to be limited due to several Court rulings that, while following the “Marks & Spencer” precedent, introduced additional requirements to prove that losses are final, making the exception rarely applicable.

 

Sommario: 1. La compensazione infragruppo delle perdite estere definitive: la prospettata riforma sulla scorta della L. Delega 9 agosto 2023, n. 111. – 2. La circolazione infragruppo delle perdite nelle fusioni transfrontaliere ante riforma. – 3. L’“eccezione Marks & Spencer” e il suo progressivo ridimensionamento. – 4. La determinazione della perdita e l’interpello probatorio. – 5. Brevi note conclusive.

1. Fra i criteri direttivi della legge delega 9 agosto 2023, n. 111, compare il «riordino del regime di compensazione delle perdite fiscali e di circolazione di quelle delle società partecipanti a operazioni straordinarie o al consolidato fiscale», da attuarsi anche attraverso la «definizione delle perdite finali ai fini del loro riconoscimento secondo i principi espressi dalla giurisprudenza degli organi giurisdizionali dell’Unione europea» (art. 6, comma 1, lett. e).

Lo schema di decreto legislativo di riforma del Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR), approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 30 aprile 2024, contiene anche una disposizione attuativa in materia di compensazione transfrontaliera delle perdite nei gruppi di imprese. È prevista, infatti, l’aggiunta, all’art. 181 TUIR, dei commi 1-bis e –ter, che, secondo la bozza circolata, dovrebbero essere formulati in questi termini: «Se una società residente in uno Stato appartenente all’Unione europea oppure in uno Stato aderente allo Spazio Economico Europeo con il quale l’Italia ha stipulato un accordo che assicura un effettivo scambio di informazioni partecipa a una fusione con una o più società residenti in cui la società risultante dalla fusione è residente oppure è incorporata da una società residente le sue perdite, determinate applicando le disposizioni contenute nel Titolo II, Capo 2, Sezione I, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante qualora sussistano tutte le seguenti condizioni:

a) sia nei periodi d’imposta di realizzazione delle perdite fiscali sia alla data in cui la fusione ha efficacia ai sensi dell’articolo 35 del decreto legislativo 2 marzo 2023, n. 19, una delle società partecipanti alla fusione controlla l’altra o le altre società partecipanti alla fusione o tutte le società partecipanti alla fusione sono controllate dallo stesso soggetto;

b) tali perdite non possono più essere utilizzate nello Stato di sua residenza in quanto la società ha cessato la propria attività economica e alienato a terzi o, comunque dismesso, tutti i beni relativi all’impresa e, ai sensi della normativa dello Stato in cui è residente, tali perdite non possono essere utilizzate se il controllo di essa è trasferito a terzi.

Ai fini del comma 1-bis, per controllo si intendono le fattispecie di cui all’articolo 2359, primo comma, numero 1), e secondo comma, del codice civile».

La nuova norma permetterebbe, nelle fusioni transfrontaliere da cui risulti una società residente in Italia, di prendere in considerazione perdite maturate in un altro Stato europeo (membro UE o SEE), se “definitive”, ossia non più utilizzabili nello Stato estero.

Le perdite potranno essere qualificate come “definitive” al ricorrere di una serie di circostanze tratte dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla libertà di stabilimento (art. 49 TFUE). La norma proposta prescrive due requisiti che devono sussistere congiuntamente: (i) il rapporto di controllo interno di diritto fra la società italiana e quella estera (anche considerati i voti spettanti a società controllate) o l’essere entrambe controllate dallo stesso soggetto, requisito che deve perdurare per i periodi di accumulo delle perdite e per quello di efficacia della fusione; (ii) la definitività delle perdite, che ricorre qualora non possano più essere utilizzate nello Stato estero poiché la società ha cessato la propria attività economica e alienato a terzi o, comunque dismesso, tutti i beni relativi all’impresa e, ai sensi della normativa dello Stato in cui è residente, tali perdite non possano essere utilizzate se il controllo di essa è trasferito a terzi.

Come è noto, la Corte di Giustizia è stata chiamata più volte a giudicare la compatibilità con l’art. 49 TFUE di normative nazionali che limitavano in vario modo la circolazione transfrontaliera delle perdite infragruppo. La compensazione intersoggettiva delle perdite è circondata, già in un’ottica puramente domestica, da numerose cautele volte ad evitare il commercio delle c.d. bare fiscali. Le cautele si accentuano nella dimensione transfrontaliera, perché, a tale rischio, si aggiunge quello di duplice utilizzo delle perdite in due Stati. Vi è poi un problema di fondo strutturale, legato alla necessità di salvaguardare l’equilibrata ripartizione del potere impositivo: l’utilizzo di perdite maturate in uno Stato a compensazione di utili conseguiti in un altro Stato genererebbe un’asimmetria impositiva che i singoli ordinamenti tendono a contrastare. Secondo la Commissione europea, l’assenza di meccanismi armonizzati di compensazione transfrontaliera delle perdite ai fini fiscali scoraggia lo sviluppo cross-border dei gruppi societari, costituendo uno fra i maggiori ostacoli al buon funzionamento del mercato interno (Comunicazione della Commissione europea, 23 ottobre 2001, COM (2001) 582 def., par. 4, e Id., 24 novembre 2003, COM (2003) 726 def., par. 3.3).

In assenza di regole armonizzate – proposte sin dagli anni Ottanta, ma mai approvate, anche a causa della necessaria unanimità – la circolazione transfrontaliera delle perdite nei gruppi societari resta l’eccezione (nonostante i progetti di Direttiva “CCCTB” e “BEFIT” coi relativi meccanismi di “cross-border loss relief”: Comunicazione della Commissione europea, 16 marzo 2011, COM [2011] 121 def., e Id., 12 settembre 2023, COM [2023] 532 def.). Tale possibilità è rimessa all’adozione di soluzioni unilaterali, quali i regimi di consolidato mondiale, che tuttavia presentano generalmente requisiti di accesso particolarmente gravosi, come risulta dalla disciplina italiana e come attestato anche dalla Corte di Giustizia, in merito al consolidato mondiale danese, con la sentenza “Bevola” (12 giugno 2018, C-650/16).

Sin dal leading caseMarks & Spencer” (13 dicembre 2005, C-446/03), la Corte ha affermato che dal diritto dell’Unione, e in particolare dal principio della libertà di stabilimento (art. 49 TFUE), non deriva un diritto generalizzato alla compensazione transfrontaliera delle perdite infragruppo. Lo Stato membro in cui risiede la controllante può negarle la possibilità di utilizzare le perdite della controllata estera o della stabile organizzazione, sebbene consenta una simile compensazione fra entità del gruppo site nel suo territorio. La Corte ha, infatti, riconosciuto che, pur trattandosi di una home State restriction alla libertà di stabilimento, sussistono adeguate cause di giustificazione, legate, appunto, alle esigenze di salvaguardia dell’equilibrata ripartizione del potere impositivo e di prevenzione dei rischi di duplice uso delle perdite e di evasione fiscale.

Tuttavia, tale restrizione risulta sproporzionata se «la controllata non residente ha esaurito le possibilità di presa in considerazione delle perdite esistenti nel suo Stato di residenza» (Corte di Giustizia UE, 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer, par. 59). Ciò può essere verificato applicando il c.d. “no possibility test”, formulato dalla Corte nel caso Marks & Spencer e recepito nello schema di decreto in esame.

La Corte lo ha applicato, dapprima, in scenari liquidazione di controllate estere e di chiusura di stabili organizzazioni esenti e, successivamente, anche nel contesto di riorganizzazioni transnazionali, all’esito delle quali non permanga in un altro Stato membro alcuna entità del gruppo che potrebbe assorbire le perdite. Il criterio di delega relativo alle perdite estere esorta il Governo a definirle secondo gli orientamenti giurisprudenziali della Corte di Giustizia, senza specifico riferimento ad uno di tali contesti.

La scelta di recepire il “no possibility test” nell’ambito della disciplina delle fusioni infra-UE non esonera l’Italia dall’attuarlo anche nei restanti scenari transfrontalieri in cui il trattamento fiscale delle perdite appaia deteriore rispetto a quello ammesso in situazioni equivalenti puramente domestiche. Il pensiero corre in particolare alle ipotesi di chiusura di una branch esente (ex art. 168-ter TUIR), di scissione totale e di liquidazione della controllata estera in perdita di una società italiana, qualora non permanga nel territorio estero alcuna entità del medesimo gruppo.

Un altro criterio di riforma attuato dallo schema di decreto è volto a razionalizzare e agevolare l’assorbimento delle perdite ai fini fiscali nella liquidazione ordinaria di società e imprese residenti, anche attraverso un inedito meccanismo di “carry back” (art. 18, in attuazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), L. n. 111/2023). A fronte di tali progressi nella dimensione domestica, occorrerà monitorare la compatibilità della disciplina italiana con la libertà di stabilimento. Secondo l’attuale formulazione, però, il prospettato sistema di carry back risulta incompatibile con le regole della tassazione di gruppo, che impongono di determinare di anno in anno in modo definitivo il risultato reddituale consolidato o da imputare per trasparenza (si vedano, in tal senso, la relazione illustrativa allo schema di decreto e Miele L., La riforma fiscale “ribalta” il criterio di tassazione della liquidazione ordinaria, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1 e online il 18 luglio 2024, www.rivistadirittotributario.it).

2. Lo scenario in cui il legislatore delegato italiano si accinge a codificare l’“eccezione Marks & Spencer” non è quello della liquidazione della controllata estera di una società residente, bensì quello della fusione transfrontaliera (intraeuropea) fra due società in rapporto di controllo, da cui risulti una società residente in Italia.

I requisiti richiesti dalla bozza di decreto ricalcano le circostanze in cui la Corte di Giustizia ha ritenuto “definitive” le perdite estere nel filone giurisprudenziale inaugurato con la sentenza Marks & Spencer. Tuttavia, numerose sentenze successive, pur ponendosi nel solco tracciato dal leading case, hanno fissato ulteriori requisiti ai fini della prova della definitività delle perdite, che rendono l’eccezione applicabile ad un ventaglio di ipotesi molto ristretto, con un onere della prova particolarmente gravoso per l’impresa.

Prima di soffermarci sugli ulteriori requisiti e di interrogarci sul rilievo che potranno assumere nell’interpretazione della novella all’art. 181 TUIR, giova effettuare una ricognizione delle attuali possibilità di compensazione transfrontaliera delle perdite nelle fusioni infragruppo.

La materia è regolata dalla c.d. “Direttiva riorganizzazioni”, la n. 2009/133/CE del 19 ottobre 2009, la cui disciplina attuativa in Italia è recata dagli artt. 178-181 TUIR. In particolare, la norma dedicata alle perdite nelle fusioni e nelle scissioni infra-UE è l’art. 181, che – nella sua attuale formulazione, tralasciando l’integrazione proposta dalla L. n. 111/2023 – nulla prevede per le perdite estere nelle riorganizzazioni “in entrata”.

La classificazione delle riorganizzazioni transfrontaliere come operazioni “in uscita” o “in entrata” esprime, come noto, un giudizio di relazione rispetto allo Stato di volta in volta preso a riferimento: nella nostra prospettiva, l’Italia (Zizzo G., Le riorganizzazioni societarie: il trasferimento all’estero o dall’estero della sede, in Corr. trib., 2008, 44, 3581).

Le riorganizzazioni “in entrata” pongono questioni fiscali assai diverse a seconda che, prima dell’operazione, l’attività d’impresa sia già esercitata in Italia attraverso una stabile organizzazione o, invece, non esista alcun collegamento fra i beni d’impresa e il territorio di riferimento (Sartori N., Le riorganizzazioni transnazionali nelle imposte sul reddito, Torino, 2012, 57 ss.).

Nella prima ipotesi, poiché i beni sono già in Italia e permangono nel regime dei beni d’impresa, possono porsi – come in ogni fusione o scissione domestica – problemi di emersione di plusvalori latenti (generalmente risolti applicando il regime di neutralità) e di riporto intersoggettivo delle perdite (già rilevanti in Italia, ex art. 152, comma 1, TUIR). Sebbene il riporto non sia espressamente disciplinato, è stato più volte ammesso in via interpretativa dalla prassi, nel rispetto dei requisiti quantitativi e di vitalità di cui agli artt. 172, comma 7, e 181 TUIR. In occasione di una fusione per incorporazione fra due società residenti in diversi Stati membri UE, ciascuna operante in Italia per il tramite di una stabile organizzazione, si è acconsentito, ad esempio, al riporto delle perdite della stabile dell’incorporata da parte della stabile dell’incorporante (ris. n 22 dicembre 2017, 161/E).

Nella seconda ipotesi, i beni d’impresa, inizialmente collocati all’estero, entrando in Italia, dovranno essere valorizzati fiscalmente. In questo scenario, né la normativa e né la prassi contemplano la possibilità di prendere in considerazione in Italia perdite maturate da una filiale estera del gruppo.

Nella sua attuale formulazione, infatti, l’art. 181 – come, del resto, l’art. 6 della Direttiva si limita a disciplinare la sorte delle perdite di una società residente nelle riorganizzazioni “in uscita”, consentendone il trasferimento e l’utilizzo alla società non residente dotata di stabile organizzazione in Italia:

  • proporzionalmente al patrimonio netto della società scissa o incorporata che è effettivamente attribuito alla stabile organizzazione che permane in Italia, limitatamente all’ammontare del “patrimonio netto” (differenza fra attivo e passivo) della S.O.;
  • entro i limiti di cui all’art. 172, comma 7, TUIR, previsti per le fusioni e scissioni domestiche (sulla portata del limite quantitativo al riporto, si veda ris. 17 giugno 2014, n. 63/E con il commento critico di della Valle E., Fusione “cross-border” e perdite pregresse della stabile organizzazione, in trib., 2014, 33, 2549 ss.).

Anche le fusioni e scissioni “in uscita”, dunque, generano conseguenze fiscali diverse, a seconda che permanga o meno un collegamento fra i beni d’impresa e il territorio italiano. Il riporto delle perdite fiscali pregresse maturate in Italia è circoscritto alle ipotesi in cui rimanga una stabile organizzazione in Italia e ad essa siano attribuite attività e passività che facevano capo alla società italiana dante causa da cui le perdite erano originate.

Né la Direttiva europea né la disciplina italiana prevedono un obbligo per lo Stato della società risultante dalla fusione transfrontaliera di consentire l’utilizzo nel proprio territorio di perdite maturate all’estero dall’incorporata. In definitiva, la logica della Direttiva è la seguente: se gli Stati membri consentono, per le fusioni domestiche, il trasferimento all’incorporante delle perdite pregresse realizzate dall’incorporata, tale riporto deve essere concesso anche nelle fusioni transfrontaliere, ma solo per il tramite della stabile organizzazione che l’incorporante eventualmente mantenga nello stato dell’incorporata (Sartori N., op. cit., 140-141 e 284-285; Vande Velde I., How Does the CJEU’s Case Law on Cross-Border Loss Relief Apply to Cross-Border Mergers and Divisions?, in EC Tax Rev., 2016, 3, 132 ss., e Stevanato D., Riorganizzazioni internazionali di imprese, in Lupi R. – Stevanato D., a cura di, La fiscalità delle operazioni straordinarie d’impresa, Milano, 2002, 706-707).

3. La novità in commento, ossia l’integrazione dell’art. 181 con la previsione di utilizzo, nelle fusioni “in entrata”, di perdite definitive estere, rimuoverebbe un ostacolo significativo alla riorganizzazione dei gruppi transfrontalieri, almeno sulla carta.

Un breve sguardo all’evoluzione giurisprudenziale del filone “Marks & Spencer” frena, però, l’istintivo entusiasmo. Come accennato, infatti, le pronunce susseguitesi, nel tentativo di fornire una definizione di “definitività” delle perdite, hanno finito per ridimensionare ulteriormente la portata di quella che già era nata come un’“eccezione”. Tali precedenti saranno senz’altro rilevanti nell’interpretazione della nuova disposizione, come testimonia il loro espresso richiamo nella relazione illustrativa allo schema di decreto delegato.

Due chiarimenti in senso restrittivo giungono proprio da sentenze della Corte di Giustizia concernenti le perdite estere nell’ambito di fusioni transfrontaliere.

Con la sentenza “A Oy” del 21 febbraio 2013 (C-123/11), la Corte si è pronunciata su una disciplina finlandese che, analogamente a quella italiana (attuale), pur ammettendo il trasferimento delle perdite nelle fusioni domestiche, nulla disponeva in merito al riporto delle perdite nelle fusioni transfrontaliere “in entrata”. Accertata l’esistenza di una restrizione alla libertà di stabilimento, astrattamente giustificabile in base alle stesse esigenze imperative riscontrate nel caso “Marks & Spencer”, la Corte ha però precisato che le perdite estere non possono essere considerate definitive sol perché, dopo la fusione, la controllata estera venga liquidata senza che permanga in quel territorio una stabile organizzazione. La Corte ha rimesso, invece, la decisione al giudice nazionale, chiedendo di valutare se la società incorporante abbia effettivamente dimostrato che l’incorporata ha esaurito tutte le possibilità di prendere in considerazione le perdite nel proprio Stato, verificando che non percepisca più alcuna entrata in quel territorio.

Nella sentenza “Memira” (sent. 19 giugno 2019, C-607/17), è stata scrutinata la disciplina svedese che, in caso di liquidazione di una controllata estera del gruppo, ammetteva – con requisiti stringenti che riecheggiano l’“eccezione Marks & Spencer” – la deduzione in Svezia delle sue perdite, possibilità preclusa invece in caso di fusione. Nelle Conclusioni, l’Avv. gen. Kokott aveva escluso che potesse soccorrere la “Direttiva riorganizzazioni”, poiché – come già constatato – l’assorbimento delle perdite della controllata estera sarebbe possibile solo per il tramite di una stabile organizzazione che eventualmente residui in quello stesso Stato, a seguito dell’operazione. La Corte ha ritenuto non definitive le perdite, in quanto Memira avrebbe dovuto provare a cedere ad un terzo la controllata estera (par. 26). Poiché la società svedese non aveva dimostrato tentativi infruttuosi in tal senso, «la sola circostanza che il diritto dello Stato di residenza della controllata non consenta il trasferimento di perdite in caso di fusione non è di per sé sufficiente per considerare le perdite della controllata come definitive» (par. 27). Non è decisivo neppure il fatto che nello Stato della società controllata non esistesse altra entità che avrebbe potuto dedurre le perdite post fusione (ad esempio, una stabile organizzazione). E ciò in quanto – si ribadisce – «le restrizioni al trasferimento delle perdite mediante fusione derivanti dalla normativa dello Stato di residenza della controllata non sono determinanti fintantoché l’impossibilità di far prendere in considerazione le perdite da parte di un terzo, in particolare dopo una cessione il cui prezzo comprenderebbe il loro valore fiscale, non sia stata dimostrata dalla società controllante» (par. 30).

Si consideri, poi, un’altra insidia emersa da diversi precedenti. Secondo la Corte, la definitività delle perdite estere non può risultare dal fatto che lo Stato in cui sono maturate escluda qualsiasi possibilità di riporto delle perdite, poiché «uno Stato non [può] essere tenuto a prendere in considerazione, ai fini dall’applicazione della propria normativa fiscale, le conseguenze eventualmente sfavorevoli dipendenti dalle specificità della normativa di un altro Stato» (Corte di Giustizia UE, 23 ottobre 2008, C-157/07, Finanzamt für Körperschaften III in Berlin v Krankenheim Ruhesitz am Wannsee-Seniorenheimstatt GmbH, par. 50. In tal senso, altresì, Id., 7 novembre 2013, C-322/11, K, par. 79, e Id., 3 febbraio 2015, C-172/13, Commissione europea c. Regno Unito [Marks & Spencer II]). Ne deriva l’irrilevanza delle “ragioni giuridiche” ai fini della prova della definitività delle perdite: la controllante non può, quindi, opporre all’Amministrazione finanziaria del proprio Stato di stabilimento la presenza nello Stato estero di limiti temporali al riporto delle perdite o la vigenza di determinate regole antielusive tali da rendere impossibile l’utilizzo delle perdite nel Paese stesso. Occorre provare, con un onere particolarmente gravoso per il contribuente, che la perdita subita dalla controllata potrebbe essere teoricamente utilizzata nello Stato della fonte (possibilità legale), ma che la compensabilità in detto Stato è di fatto impossibile poiché la controllata ivi residente non percepisce più ricavi nello stesso, a seguito della cessazione delle proprie attività commerciali attraverso la cessione o eliminazione di tutti i propri attivi produttivi di ricavi (impossibilità fattuale) (sia consentito rinviare a Francioso C., L’utilizzo transfrontaliero delle perdite infragruppo: evoluzione dell’orientamento della Corte di giustizia dalla sentenza Marks & Spencer al chiarimento del concetto di final losses, in Dir. prat. trib. int., 2016, 4, 1519 ss.; a Id., Ancora in tema di perdite transfrontaliere: le sentenze svedesi Memira holding e Holmen, in questa Rivista, 2019, 2, 594, e alla dottrina e giurisprudenza ivi citate).

Ulteriori complicazioni sussistono qualora le perdite derivino, non da una controllata, bensì da una stabile organizzazione esente, perché, prima di giungere a valutarne la “definitività”, la Corte ha talora escluso che tale situazione transfrontaliera fosse paragonabile ad una situazione domestica e meritasse, dunque, la tutela offerta dalla libertà di stabilimento. Nelle pronunce “Nordea Bank”, “Timac Agro”, “Bevola” e “W AG”, la comparazione si è basata sul criterio della potestà impositiva dello Stato di residenza sull’entità estera: se questo, per prevenire o attenuare la doppia imposizione degli utili di una società residente, esenta il reddito della branch estera (e non consente la deduzione delle perdite), allora essa non è comparabile ad una sede secondaria posseduta nel medesimo Paese (situazione domestica) (Corte di Giustizia UE, 17 luglio 2014, C-48/13, Nordea Bank Denmark A/S v Skatteministeriet; Id., 17 dicembre 2015, C-388/14, Timac Agro Deutschland GmbH v Finanzamt Sankt Augustin; Id., 12 giugno 2018, C-650/16, A/S Bevola, Jens W. Trock ApS c. Skatteministeriet; Id., 22 settembre 2022, C-538/20, Finanzamt B c. W AG). La differenza consisterebbe nel fatto che, nel primo caso, lo Stato di residenza non ha potestà impositiva sul reddito della stabile organizzazione, mentre, nel secondo, ha potestà impositiva su tutti i redditi della società residente. Invece, la comparabilità è stata confermata quando lo Stato di residenza assoggetta a tassazione gli utili della branch estera con il metodo della World wide taxation, pur concedendo un credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero. Ciò non è coerente, però, coi precedenti sulle perdite delle controllate estere, dichiarati espressamente applicabili anche rispetto alle stabili organizzazioni (sent., 15 maggio 2008, C-414/06 e sent., 23 ottobre 2008, C-157/07): infatti, nel caso Marks & Spencer, benché il Regno Unito non avesse potestà impositiva sulle controllate estere, i gruppi domestici erano stati ritenuti comparabili a quelli transfrontalieri in caso di perdite definitive.

I precedenti citati – specialmente quelli concernenti le società estere – saranno senz’altro rilevanti nel determinare la “definitività” delle perdite, nozione di per sé sfuggente. La stessa relazione illustrativa allo schema di decreto menziona alcuni approdi, anche restrittivi, come il caso Memira. Essa specifica, infatti, che, secondo tali pronunce, non è sufficiente che la società estera sia posta in liquidazione o che la disciplina fiscale locale non consenta alcun riporto delle perdite, essendo invece necessario che: (i) abbia terminato la propria attività commerciale attraverso la cessione o l’eliminazione di tutti i propri asset potenzialmente produttivi di ricavi; (ii) la perdita non risulti utilizzabile dalla società estera a compensazione dei redditi propri dell’esercizio e/o degli esercizi precedenti, né risulti compensabile con utili prodotti da altre entità facenti parte del medesimo gruppo (come, ad esempio, in ipotesi di consolidato locale); (iii) la perdita non risulti utilizzabile per gli esercizi futuri dalla controllata o da un terzo, anche a seguito, ad esempio, di cessione a quest’ultimo della controllata medesima (in cui il prezzo della compravendita tenga conto del valore fiscale delle perdite) o di acquisizione mediante fusione della stessa.

4. Venendo ora agli adempimenti necessari per la compensazione transfrontaliera, lo schema di decreto richiede la rideterminazione della perdita secondo la normativa tributaria italiana, e, nella specie, secondo gli artt. 81 ss. TUIR.

A questo proposito, la Corte di Giustizia, in passato, si è limitata a raccomandare di adottare metodi che evitino «disparità di trattamento rispetto alle regole di calcolo che sarebbero applicabili se tale fusione fosse stata effettuata con una controllata residente» (Corte di Giustizia UE, 21 febbraio 2013, C-123/11, A Oy, par. 61, commentata criticamente da Lang M., Has the Case Law of the ECJ on Final Losses Reached the End of the Line?, in Eur. Tax., 2014, 12, 530). La Corte ha chiarito, infatti, che allo stadio attuale del diritto dell’Unione, la libertà di stabilimento non impone agli Stati di scegliere fra le regole di determinazione dello Stato in cui la perdita è maturata o quelle dello Stato in cui sarà utilizzata dopo esser divenuta definitiva. Ha precisato però anche che la questione non può esser posta in modo astratto ed ipotetico, ma deve essere eventualmente oggetto di un’analisi caso per caso.

Nella norma proposta, l’espresso rinvio alle regole italiane di determinazione della base imponibile delle società e degli enti commerciali residenti appare conforme a tali indicazioni.

Per acquisire certezza preventiva sulla definitività delle perdite, la relazione illustrativa ammette la possibilità di presentare l’interpello probatorio, che, tuttavia, con la riforma risulta fortemente ridimensionato, potendo essere presentato – previo pagamento del neoistituito contributo – solo dai soggetti aderenti alla cooperative compliance o che presentano l’interpello sui nuovi investimenti (art. 11, comma 2, L. 27 luglio 2000, n. 212, come riformulato dal D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219). L’attuale formulazione dello schema di decreto non reca traccia di tale possibilità: poiché l’interpello probatorio può essere presentato solo «nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 11 cit.), è ragionevole attendersi un’integrazione in tal senso nel testo normativo definitivo.

5. Accingendosi a codificare criteri affermatisi nella giurisprudenza europea, come già avvenuto col recepimento della “dottrina Schumacker” nell’art. 24 TUIR, l’Italia progredisce nella rimozione di ostacoli fiscali al godimento delle libertà fondamentali nel Mercato Unico europeo.

L’iniziativa in materia di perdite estere definitive, pur apprezzabile, sconta però alcuni limiti.

Lo schema di decreto delegato per il momento si limita a recepire il c.d. “no possibility test” di derivazione giurisprudenziale nel solo contesto delle fusioni infra-UE “in entrata”, pur sussistendo altre situazioni in potenziale conflitto con la libertà di stabilimento. Poiché il criterio di delega concernente le perdite estere definitive non è circoscritto alle sole fusioni transfrontaliere, sarebbe auspicabile che la disposizione delegata favorisse la libertà di stabilimento anche in caso di scissione totale o chiusura di una controllata estera o di una branch esente che ha maturato perdite, qualora non permanga nello Stato estero alcuna entità di gruppo che possa assorbirle.

Sul piano europeo, i numerosi dubbi applicativi suscitati dall’eccezione “Marks & Spencer” e il suo progressivo ridimensionamento ad opera delle pronunce successive la rendono ormai operativa in un ventaglio di ipotesi circoscritto, ponendo a carico delle imprese un onere probatorio difficilmente sostenibile. È opportuno quindi continuare a monitorare con attenzione l’evoluzione del diritto derivato europeo, che – dopo il fallimento dei negoziati sulla CCCTB – vede ora nella proposta di Direttiva BEFIT una nuova opportunità di dotarsi di un meccanismo di compensazione transfrontaliera delle perdite, a regime e non più solo in via d’eccezione.

(*)  Testo, rivisto e ampliato, della relazione svolta dall’Autrice al Convegno di Studi “Riforma fiscale ed operazioni straordinarie”, tenutosi a Roma il 7 giugno 2024 e organizzato dall’Università di Roma “La Sapienza”, Dipartimento di Diritto ed Economia delle attività produttive.

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