La registrazione del diritto di servitù su terreni agricoli alla luce delle sentenze gemelle della Corte di Cassazione del 2 settembre 2024 e riflessioni sul diritto di superficie

Di Roberto Scalia e Matteo Clò -

Abstract (*)

La Corte di Cassazione, con tre pronunce identiche, consolida un orientamento espresso sin dal 2003 e ribadito in precedenti del 2019 e 2020 circa l’assoggettamento ad imposta di registro degli atti costitutivi di diritti di servitù su terreni agricoli, ritenendo che agli stessi si applichi l’aliquota del 9% in luogo di quella del 15%, in ragione di una interpretazione letterale, storica, sistematica e teleologica della disciplina contenuta nell’art. 1 della Tariffa Parte 1, TUR. Il ragionamento posto alla base di tali pronunce è stato adottato anche nell’unico precedente riguardante la costituzione del diritto di superficie su terreni agricoli ma l’Amministrazione finanziaria sostiene, ancora, una tesi di segno opposto. Le pronunce in esame offrono, pertanto, l’occasione per tornare a riflettere anche sulla disciplina applicabile, ai fini dell’imposta di registro, agli atti costitutivi di diritti di superficie su terreni agricoli.

Registration of the right of easement on agricultural land in the light of the Supreme Court’s twin judgments of 2 September 2024 and considerations on surface rights The Supreme Court, with three identical judgements, consolidates an orientation expressed since 2003 and reiterated in previous judgements of 2019 and 2020, concerning the liability to registration tax of the acts constituting rights of easement on agricultural land. The Court confirmed that the rate of 9 per cent, instead of 15 per cent, is applicable to them, and based this decision on a literal, historical, systematic and teleological interpretation of the rules contained in Article 1 of the Part 1, of the Italian TUR. Although the same reasoning underlying these pronouncements was also adopted in the only precedent concerning the establishment of a surface right on agricultural land, the Tax Administration still maintains an opposite view. Therefore, these judgments provide an opportunity to reflect again on the rules applicable, as regards registration tax, to deeds constituting surface rights on agricultural land.

Sommario: 1. La quaestio controversa e le decisioni della Corte. – 2. L’inquadramento civilistico della servitù nell’impianto della Tariffa Parte 1 del TUR. – 3. L’argomento storico e teleologico. – 4. L’argomento sistematico. – 5. L’impatto delle sentenze del 2024 sulla costituzione del diritto di superficie.

1. Con tre sentenze gemelle del 2024 (Cass. nn. 23494/2024, 23489/2024 e 23512/2024), la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema del trattamento impositivo, ai fini dell’imposta di registro, degli atti costitutivi di servitù su terreni agricoli, che – ai sensi dell’art. 1, Tariffa Parte 1 (per brevità, la “Tariffa”), D.P.R. n. 131/1986 (“TUR”) – potrebbero essere assoggettati ad aliquota proporzionale del 9% ovvero del 15%.

Tale pronuncia consente di svolgere qualche riflessione anche in merito al trattamento impositivo, ai fini dell’imposta di registro, della costituzione del diritto di superficie, tema sul quale, a fronte di un chiaro indirizzo della Corte di Cassazione si riscontra un contrario orientamento dell’Agenzia delle Entrate (cfr., sul punto, infra, par. 5).

La questione devoluta alla cognizione della Suprema Corte nelle sentenze gemelle del 2024 ruota attorno al significato dell’espressione contenuta nel secondo periodo dell’art. 1 della Tariffa che si rivolge al «trasferimento [che] ha per oggetto terreni agricoli e relative pertinenze (enfasi aggiunta)» » (assoggettato ad imposta con aliquota del 15%) laddove il primo periodo del medesimo art. 1 contempla, con espressione più ampia, dettagliata e onnicomprensiva, gli «[a]tti traslativi … della proprietà … in genere e atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e i trasferimenti coattivi (enfasi aggiunta)» gravati con la, più mite, aliquota del 9%.

L’Agenzia delle Entrate sostiene che, nel caso in esame, debba applicarsi l’aliquota del 15% avendo riguardo «alla natura del terreno anziché a quello della costituenda servitù».

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, confermando l’orientamento consolidatosi con i precedenti del 2003 (Cass. n. 16495/2003), del 2019 (Cass. nn. 22201/2019, 22220/2019, 22198/2019 e 22199/2019) e del 2020 (Cass. 6671 e 6677/2020), proponendo un’argomentazione che può suddividersi in tre parti.

Muovendo, nella prima parte, dal dato letterale dell’art. 1, Tariffa la Corte osserva che, al fine di includere o meno anche gli atti “costitutivi” di un diritto reale nella categoria dei trasferimenti, si debba affrontare l’inquadramento civilistico del diritto di servitù, osservando come non sia ammissibile «una concessione separata del godimento … della servitù, né sotto forma di costituzione di un diritto reale di usufrutto, di uso o anche di servitù».

Svolta questa premessa, il ragionamento della Corte si snoda, nella seconda parte, su un’interpretazione storica della disciplina contenuta nell’art. 1 della Tariffa che, negli anni ‘70, ha dato alla materia in esame “una veste più organica”, fondata sui “tipi di atti e non più … per tipi di beni” e che vede oggi contrapposti: (i) da una parte, gli atti “traslativi”, e (ii) dall’altro lato, gli atti “costitutivi”.

Conclude, infine, nella terza parte osservando che dall’argomento sistematico, si desume, con immediatezza, che, avendo il legislatore prescelto l’espressione “trasferimento”, si sia voluto assoggettare ad imposizione i soli atti che «prevedono il passaggio da un soggetto ad un altro della proprietà di beni immobili o della titolarità di diritti reali immobiliari di godimento», circostanza senz’altro non riferibile al diritto di servitù.

2. Le pronunce in commento si pongono nel solco dei precedenti della Corte di Cassazione del 2003, 2019 e 2020, muovendo da una descrizione degli istituti codicistici destinati ad applicarsi nei casi sottoposti al suo vaglio.

L’analisi del dato civilistico riveste notevole importanza, in ragione del fatto che, in assenza di indicazioni da parte del legislatore tributario su cosa si debba intendere per “trasferimento” (e quindi degli atti, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, possano essere ricondotti a tale nozione) dovrà farsi riferimento alla relativa disciplina civilistica, verificando non solo quale significato debba essere attribuito al termine “trasferimento”, ma altresì quali siano gli atti idonei a comportare il trasferimento di un bene e quali, invece, non lo siano (come osserva Fregni M.C., Obbligazione tributaria e codice civile, II ed., Torino, 1998, 8-9, nel caso in cui il legislatore tributario utilizzi termini appartenenti al diritto civile si deve ritenere che, nell’ipotesi in cui non sia attribuita agli stessi «una “colorazione” differenteil significato di tali termini sia precisamente quello che ad essi è attribuito dal codice civile» – sul tema cfr., anche Cipollina S., La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, 55 ss.; Velluzzi V., Interpretazione e tributi. Argomenti, analogia, abuso del diritto, Modena, 2015, 11 ss. – e, per una particolare ipotesi di istituto codicistico al quale è, invece, attribuito, ai fini fiscali, carattere di autonomia e specificità rispetto alla qualificazione assegnatagli in campo civile, sia consentito rinviare a Clò M., Note in materia di divisione ed imposta di registro, in Dir. proc. trib., 2020, 1, 123 ss.; Id., La rilevanza della collazione ai fini dell’imposta di registro sugli atti di divisione ereditaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2021, 4, 115 ss.).

Come noto, le servitù prediali appartengono al novero dei diritti reali di godimento su cosa altrui, unitamente all’enfiteusi, alla superficie, all’usufrutto, all’uso ed all’abitazione (cfr. Pugliese G., Diritti reali, in Enc. dir., 1964, XII, 775, e Chiarella M.L., Diritti reali di godimento, in Dig. disc. priv., Sez. civ., 2022). Il diritto di servitù, ai sensi dell’art. 1027 c.c., «consiste nel peso imposto sopra un fondo [c.d. servente, n.d.r.] per l’utilità di un altro fondo [c.d. dominante, n.d.r.] appartenente a diverso proprietario”.

A differenza di alcuni diritti di godimento (in particolare, quelli di superficie e di usufrutto), e similmente ad altri (in specie, a quelli di uso e di abitazione), quello di servitù non rappresenta un diritto idoneo ad essere oggetto di trasferimento.

Come rilevato nelle pronunce in commento, esso è, infatti, indissolubilmente legato alla proprietà del fondo a cui si riferisce, da un nesso che la Corte di Cassazione definisce «di accessorietà» e «di strumentalità», non potendo «essere trasferito separatamente dalla proprietà del fondo dominante», in ragione della «cosiddetta inalienabilità della servitù» (in dottrina, cfr. Comporti M., Servitù [dir. priv.], in Enc. dir., Milano, 1990, vol. XLII, 288, il quale osserva che il diritto di servitù è, infatti, «inconcepibile al di fuori dell’ancoramento ai due fondi, ne può utilizzarsi la trasmissione di esso senza la trasmissione della proprietà del fondo, o la riserva di esso nonostante la trasmissione della proprietà del fondo»).

Neppure, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, può ammettersi «una concessione separata del godimento (che costituisce il contenuto) della servitù, né sotto forma di costituzione di un diritto reale …, né sotto forma di un contratto di locazione», in virtù della «cosiddetta incedibilità dell’esercizio della servitù», essendo tale diritto trasferibile solo unitamente «alla proprietà del fondo dominante», con la quale «si trasferiscono normalmente le servitù che ineriscono attivamente a tale fondo, anche se nulla è stato stabilito al riguardo nell’atto di trasferimento», in ragione della «cosiddetta ambulatorietà della servitù» (cfr. Comporti M., op. cit., 288).

Tali considerazioni, come anticipato, hanno portato la Corte di Cassazione a ritenere che, poiché la servitù «si costituisce e non si trasferisce», gli atti costitutivi di tale diritto, anche se riferiti ad un terreno agricolo, non devono essere ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 1, terzo periodo, Tariffa, che, come anticipato, si riferisce alle sole ipotesi di «trasferimento [di] terreni agricoli e relative pertinenze», ma del primo periodo di tale articolo, il quale compie preciso riferimento agli atti «costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento». Nell’impossibilità di attribuire al termine “trasferimento” di cui all’art. 1, terzo periodo, un’accezione più ampia di quella che gli è propria in ambito civilistico, secondo la Suprema Corte, deve pertanto ritenersi che alla registrazione degli atti aventi carattere costitutivo (e non traslativo), come quelli con cui si costituiscono diritti di servitù su terreni agricoli, sia applicabile l’aliquota pari al 9%.

Diversa è l’ipotesi in cui un terreno agricolo venga ceduto, e con esso (automaticamente) anche la servitù che sullo stesso insiste. In tal caso, a seconda che il trasferimento sia o meno operato in «favore di […] coltivatori diretti e [di] imprenditori agricoli professionali, iscritti nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale», si applicherà l’aliquota del 15% (di cui all’art. 1, terzo periodo, Tariffa) o l’imposta in misura fissa (in ragione di quanto previsto dall’art. 2, comma 4-bis, D.L. 30 dicembre 2009, n. 194) (sulla disciplina applicabile alla registrazione di atti traslativi di terreni agricoli in favore dei soggetti di cui all’art. 1, terzo periodo, Tariffa, nonché sulle agevolazioni previste dall’art. 2, comma 4-bis, D.L. n. 194/2009, si vedano Salanitro G., Art. 1, Tariffa, Parte I, D.P.R. 131/1986, in Marongiu G., a cura di, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo IV: IVA e imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, 1008 ss. e Gliubich M., La tassazione nei trasferimenti immobiliari, in Fedele A. – Mariconda G. – Mastroiacovo V., a cura di, Codice delle leggi tributarie, Torino, 2014, 421 ss.).

3. Come è stato anticipato, la Corte di Cassazione, nel solco delle pronunce del 2003 ed in quelle del 2019, valorizzando il dato storico, ha posto in evidenza le differenze intercorrenti tra il disposto dell’attuale art. 1, Tariffa, TUR e quello di cui ai previgenti artt. 1 e 1-bis, Allegato A Parte I, D.P.R. n. 634/1972, che disciplinavano gli «atti a titolo oneroso… [e] la rinuncia pura e semplice agli stessi» della proprietà dei “beni immobili” in generale, da un lato (art. 1) e dei “terreni agricoli e relative pertinenze”, dall’altro, (art. 1-bis).

Ad avviso della Corte nell’art. 1, Tariffa del TUR, furono accorpate le disposizioni dei previgenti artt. 1 e 1-bis, D.P.R. 634/1972, «dando all’intera materia una veste più organica» accogliendo una distinzione basata sulla «tipologia di atti da sottoporre a registrazione» che, a differenza di quanto avveniva nel sistema precedente, si basa sui «tipi di beni» e non sui «tipi di atti».

Così facendo, la Corte priva di pregio la tesi, sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, che una tale modifica normativa non sarebbe stata possibile, stante l’identità di principi e criteri direttivi posti dall’art. 8 L. n. 825/1971, che avrebbero vincolato, in egual misura, i redattori: (i) del D.P.R. n. 634/1972, (ii) delle modifiche intervenute nel 1977 e, infine, (iii) del TUR.

L’argomentazione della Cassazione, alla luce di una più attenta e meditata disamina storica, palesa ancor più l’erroneità della tesi erariale che, a ben vedere, affonda le radici in una superficiale e tralatizia analisi storica condotta in un documento di prassi della metà degli anni ‘70 (Ministero delle Finanze, ris. n. 300821/1975).

È bene osservare, a tal fine, che l’attuale assetto normativo non presenta alcuna soluzione di continuità o contraddittorietà rispetto all’obiettivo della delega del 1971 di addivenire ad una “sostanziale revisione” dell’imposta di registro, mitigando le aliquote «eccessive … tali da determinare gravi danni alla vita economica e deformazioni nello svolgimento degli affari» (Relazione al Disegno di Legge, N. 1635, 1° luglio 1969, par. 13) da un lato e assicurando una maggiore certezza rispetto alla complessa e farraginosa legislazione previgente (cfr. intervento in aula Santagati, in Atti parlamentari, V legislatura, 413., 24 febbraio 1971, 26037).

Al primo dei due obiettivi – riduzione delle aliquote, poi tradotto nella norma della legge delega, in “revisione e razionalizzazione” delle aliquote – risponde, ancora oggi, l’impianto della Tariffa che sottopone, in generale, alla più lieve imposizione con aliquota del 9% tutti gli atti, traslativi o costitutivi, di diritti reali su qualsiasi bene immobile, prevedendo, come deroga, che i soli “trasferimenti” di terreni agricoli siano assoggettati alla, più gravosa, imposizione del 15%. Anche la limitazione a questa deroga, contemplata nella seconda parte dell’art. 1 Tariffa, circoscritta alle sole ipotesi in cui tali “trasferimenti” comportino la fuoriuscita del terreno dalla proprietà agraria, si pone nel solco dell’art. 1-bis D.P.R. n. 634/1972, introdotto nel 1977 per «motivi certamente di politica finanziaria e non tributari» (cfr. Comm. trib. centr., dec. 1113/94: «[l]’ art. 1 bis è stato aggiunto … con finalità non tanto fiscali quanto di politica agricola, sociale e del territorio» e, in dottrina, Gliubich M., op. cit., 422, e Busani A., L’imposta di registro, Milano, 2009, 610-611, nt. 550) che rispecchiano quelli che emersero, dopo ampio dibattito parlamentare, nell’adozione della Legge di delega 825/1971.

La norma fu, infatti, introdotta con il ben preciso obiettivo di porre un freno alla speculazione edilizia a quel tempo in corso sui terreni agricoli (cfr. Comm. trib. centr, dec. n. 4106/84), mirando ad assoggettare a più gravoso prelievo del 15% la maggior potenzialità economica sottesa ad un’eventuale destinazione non agricola (id est, a quel tempo, precipuamente edificatoria) e non già a penalizzare, in generale, tutte le vicende traslative relative ai terreni agricoli rispetto a quelle dei fabbricati (cfr. Cicognani F., La tassazione indiretta della vendita di fabbricati da demolire tra interpretazione degli atti e presunzione di accessione, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2012, II, 16 ss.).

Tale finalità, per puntualità, era emersa già nei lavori parlamentari che condussero all’adozione della delega del 1971, quando furono presentati, contestualmente, due emendamenti volti, l’uno, a preservare la “situazione di favore” (per la proprietà contadina) vigente ante 1971 e l’altro, all’opposto, ad ottenere «un inasprimento dell’imposta di registro per gli atti compiuti da persone che non siano imprenditori agricoli» (cfr. emendamenti 7. 9. e 7. 11., Prearo, in Atti parlamentari, V legislatura, 413., 24 febbraio 1971, 26037-26038) nonché emendamento 7. 2., Esposto).

Ne scaturì l’acceso dibattito che condusse alla conservazione delle «esenzioni e delle riduzioni … per … i trasferimenti di terreni destinati alla formazione od arrotondamento delle imprese agricole diretto-coltivatrici» (art. 8, comma 2, n. 2), L. n. 825/1971 recepito nell’art. 80, comma 2, D.P.R. n. 634/72) evidenziando, tuttavia, la difficoltà di trovare un bilanciamento tra la (i) legittima esigenza di tutelare «coloro che lavorano la terra», da un lato, e (ii) l’obiettivo di non disincentivare l’attrazione «di qualsiasi capitale e soprattutto … della capacità imprenditoriale» verso le campagne scoraggiando, appunto, le sole fattispecie in cui i terreni agricoli fossero distratti dall’attività agricola per esser resi infruttiferi o destinati a finalità edificatorie, dall’altro (nel suo intervento in relazione al subemendamento proposto dall’on. Esposto all’emendamento proposto 7. 11. [Prearo], il Ministro delle finanze Preti si domandava, ad incipit del proprio intervento, «se siamo nell’Italia del 1971 oppure nell’Italia di cento anni fa o … in quale paese sottosviluppato, dove l’agricoltura rappresenta la massima fonte di reddito» (in Atti parlamentari, V legislatura, 413., 24 febbraio 1971, 26050).

Viene in considerazione, a questo proposito, il secondo dei grandi obiettivi della riforma, ovvero quello di assicurare maggiore «certezza dell’obbligazione tributaria» (cfr. Camera dei Deputati, Bima, relatore, Relazione della VI Commissione permanente sul disegno di legge “Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria, 22 maggio 1970, Parte I, Capitolo III, 20).

In tale contesto, infatti, il tema dei “trasferimenti” (meritevoli o da scoraggiare), trattato unitariamente, lasciava intravedere la presupposizione che tale espressione dovesse esser compiutamente declinata nello spettro delle norme incentivanti dell’epoca (cfr. emendamenti 7. 9. e 7. 11., Prearo, cit. ove si fa riferimento alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 114/48 cui fece seguito la L. n. 604/54, permansa nell’ordinamento sino ai nostri giorni) che disciplinavano esclusivamente atti “traslativi”, ovvero cessione, permuta, trasferimento di enfiteusi (o costitutivi nel solo caso dell’enfiteusi), atti a determinare lo “spostamento” dell’attività agricola da un soggetto ad un altro, senza pregiudicare la formazione ed arrotondamento della proprietà agricola (pregiudizio che, all’opposto, si sarebbe verificato nel caso di edificazione del suolo che ne avrebbe definitivamente compromesso la capacità produttiva).

Al termine “trasferimenti” doveva, quindi, attribuirsi un significato tecnico ben preciso, rivolto ai soli atti traslativi in favore dei coltivatori diretti, dal momento che, su altri fronti, l’assemblea parlamentare avvertì l’esigenza di sfuggire a capziose e late espressioni atecniche, come nel caso dell’espressione «trasferimenti immobiliari» (cfr. Camera dei Deputati, Bima, relatore, Relazione cit., Parte VIII, Capitolo III, 75).

4. Il tenore letterale della disposizione in esame viene poi ulteriormente analizzato dalla Corte osservando, sul piano sistematico, che nel primo periodo dell’art. 1, (i) agli atti traslativi «implicanti cioè un trasferimento di un diritto da un soggetto a un altro» viene equiparata la rinuncia abdicativa nella quale «è sempre un altro soggetto ad acquistare la titolarità del diritto rinunciato» e (ii) sono, altresì, comprese «le espropriazioni per pubblica utilità … conseguenti a procedure coattive».

Stando all’«architettura della normativa» che contrappone gli atti traslativi a quelli costitutivi di diritti reali di godimento, ne discende o, meglio, «sembra indiscutibile che il termine “trasferimento”, conformemente all’etimo latino, sia stato usato dal legislatore per indicare tutti quegli atti che prevedono il passaggio da un soggetto ad un altro della proprietà di beni immobili o della titolarità di diritti reali immobiliari di godimento».

Come argomento ulteriore e derivante dai precedenti (un «ulteriore corollario») la Corte si cimenta con i presupposti civilistici sui quali si basa la disciplina (cfr. supra par. 2) osservando che il termine “trasferimento” non può essere riferito agli atti, come la costituzione di servitù, che “costituiscono” diritti reali di godimento in assenza di qualsivoglia trasferimento di diritti o facoltà, ma comportando la sola compressione del diritto di proprietà di questi a vantaggio di un fondo dominante.

Su questo aspetto, l’argomentazione della Corte si fa ancor più puntuale e rigorosa, declinando il proprio ragionamento sull’impianto normativo (quella che, pure definisce l’«architettura normativa») in esame, osservando che l’impiego del termine “trasferimento” per la prima volta nell’art. 1, primo periodo «apporta un duplice ordine di argomenti per suffragare l’interpretazione letterale». Trascurando il primo, che si limita a ribadire quanto già affermato in merito alle peculiarità del diritto di servitù (cfr. par. 2 supra), la Corte valorizza l’argomento della costanza terminologica nella sedes materiae, osservando che sarebbe illogico ipotizzare che «dopo poche parole e pur potendo fare generico riferimento agli atti di cui al primo periodo, il legislatore, per non ripeterne l’elencazione, abbia usato il termine “trasferimento” in forma desemantizzata o atecnica intendendo includervi (anche) gli atti di costituzione dei diritti reali di godimento su cosa altrui quali le servitù prediali».

Così, congiungendo le conclusioni sul piano sistematico, con quelle già addotte sui profili storico e teleologico, la Corte giunge a conclusioni che sembrano non prestare il destro ad alcuna critica.

Del resto, sviluppando ulteriormente tale argomento si può convenire con chi ha osservato che il riferimento esplicito agli “atti traslativi e costitutivi” in altra parte della Tariffa (nota II-bis) dimostri la più limitata portata dell’espressione “trasferimenti” (Marzo S.F., L’Imposta di registro sulla costituzione e sul trasferimento della superficie e della proprietà superficiaria, in Dir. prat. trib., 2021, 5, II, 2308-2309, osservando, peraltro, che la medesima questione del significato del termine “trasferimento”, sorta con riferimento all’INVIM, sia stata risolta negli stessi termini da Perrone L., L’imposta sull’incremento di valore sugli immobili: primi spunti critici, in Riv. dir. fin. e sc. fin., I, 1973, I, 514)

5. Nelle pronunce in annotazione, la Corte consolida larga parte degli argomenti già sviluppati nei precedenti del 2003 sul trattamento impositivo, ai fini dell’imposta di registro, della costituzione di servitù, consentendo di riflettere, a latere, sull’estensibilità di tali argomentazioni anche alla fattispecie della concessione del diritto di superficie su terreni agricoli.

Come si è anticipato nel par. 1, tale riflessione si rende opportuna poiché, allo stato, a fronte dell’orientamento della Suprema Corte, volto a riconoscere che anche per la costituzione del diritto di superficie debba applicarsi la, più mite, imposta del 9% (Cass. n. 3461/2021 cui adde CGT I Milano, XVII, n. 3606/2023, CTP Reggio Emilia, I, n. 175/2022 e CTP Lecco, I, n. 143/2021), si registra un orientamento svalutativo dell’Amministrazione finanziaria che ritiene inestensibili le motivazioni della Corte al di fuori della fattispecie della servitù.

L’Agenzia delle Entrate ha, infatti, accolto, sin qui, gli orientamenti della Suprema Corte esclusivamente con riferimento alla costituzione del diritto di servitù (nella ris. n. 4/E/2021, constatando che «[l]e conclusioni assunte dal giudice di legittimità si fondano sulla peculiare natura del diritto di servitù» l’Agenzia «invita[]le strutture territoriali a riesaminare le controversie pendenti concernenti la tassazione degli atti costitutivi di servitù su terreni agricoli e, ove la tassazione sia stata operata secondo criteri non conformi a quelli» enunciati dalla Cassazione, abbandonando le posizioni assunte con la ris. n. 92/E/2000, riprese nella circ. n. 18/E/2013, par. 4.16).

Occorre, quindi, precisare come la Corte di Cassazione sia giunta alle medesime conclusioni – fondate su presupposti e argomentazioni comuni – nelle due distinte ipotesi della costituzione dei diritti di servitù e di superficie, e come sia proprio su tali basi che si fonda la lettura “svalutativa” degli orientamenti di legittimità, proposta dall’Agenzia delle Entrate, che ritiene non estensibili i principi formulati dalla Suprema Corte trattando del regime impositivo relativo alla costituzione della servitù anche alle vicende che possano interessare il diritto di superficie, posta la sostanziale diversità dei due istituti.

Occorre, quindi, interrogarsi se le differenze tra i due istituti pongano un ostacolo affinché l’orientamento della Suprema Corte in tema di servitù possa estendersi al diritto di superficie (tra gli altri, Puri P., Questioni controverse in tema di tassazione ai fini delle imposte indirette del diritto di superficie, in GT – Riv. giur. trib., 2015, 11, 889, nt. 1; Ventrella T., La costituzione del diritto di superficie per la realizzazione di un impianto fotovoltaico: la natura agricola del terreno che innalza l’imposta di registro, in Rass. trib., 2021, 4, 1117, nt. 3, la quale richiama l’orientamento espresso da Ghinassi S. – Nastri M.P. – Petteruti G., Profili fiscali degli atti relativi agli impianti fotovoltaici, Studio n. 35-2011/T del CNN, 8).

Sotto il profilo civilistico, la servitù e la superficie sono accomunate dal fatto che entrambe, qualora costituite su un dato terreno, comportano la limitazione del diritto di proprietà del soggetto che risulta titolare dello stesso, a favore, rispettivamente, del fondo dominante (nel caso della servitù) e del titolare del relativo diritto (nel caso della superficie) (cfr. Agenzia delle Entrate, Risposta ad Interpello n. 365/2023 nella quale si afferma che «pur concernendo una controversia in tema di tassazione di un atto di costituzione del diritto di superficie, la Suprema Corte richiama espressamente precedenti pronunce sul diritto di servitù»). Con specifico riferimento al diritto di superficie, la Corte di Cassazione rileva, infatti, come «l’istituto non comporta … un frazionamento della titolarità giuridica del suolo che … rimane in capo al concedente, ma una compressione per quest’ultimo del diritto di proprietà a seguito della rinuncia ad esercitare il suo pieno potere di disposizione sul bene gravato dal diritto di superficie» (Cass. n. 3461/2021).

Entrambi i diritti reali di godimento, quantomeno in una fase iniziale, si costituiscono, e non si trasferiscono. Tuttavia, il diritto di superficie ha caratteristiche differenti da quello di servitù, potendo, una volta costituito, essere oggetto di autonomo trasferimento (così, per tutti, Bianca M., La proprietà, in Diritto civile, vol. VI, Milano, 2017, 412 ss. e per le distinte posizioni, monista, duale e tripartita, lumeggiate in dottrina, cfr., di recente, Ligozzi M.T., Il diritto di superficie. Costruzioni al disotto e al disopra del suolo, Studio n. 152-2022/C del CNN, 2 ss.).

Alla luce delle differenze intercorrenti tra servitù e superficie, pare opportuno effettuare una breve analisi dell’istituto della superficie, al fine di verificare la correttezza delle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nel 2021, nonché l’estensibilità a tale diritto reale di godimento delle conclusioni cui la Suprema Corte è giunta con riferimento alle servitù prediali.

La superficie è definita, a seconda dei casi, come «il diritto, costituito dal proprietario di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri che ne acquista la proprietà (concessione ad aedificandum) (art. 952 comma 1 c.c.)» o «il diritto di proprietà sulla costruzione già esistente alienata separatamente dalla proprietà del suolo (art. 952 comma 2 c.c.)» e, in ambo i casi, «la concessione superficiaria è rivolta a vincere il principio dell’accessione» di cui all’art. 934 c.c., potendo il diritto di superficie venire in rilievo soltanto con riferimento alle costruzioni cui tale principio è applicabile, «cioè quelle unite al suolo perché ivi sono state lavorate o almeno collocate, che, come tali, diventano costruzioni immobili» (Pasetti Bombardella G., Superficie [dir. priv.], in Enc. dir., 1990, XLIII, 1471 e 1477).

Essendo, in entrambi i casi, la costituzione del diritto di superficie legata alla costruzione di un fabbricato (già esistente o meno), è evidente come tale diritto interessi quasi esclusivamente i terreni edificabili, e solamente in minima parte quelli agricoli, i quali sono generalmente sprovvisti di capacità edificatoria. La situazione pare, tuttavia, essere cambiata con l’avvento delle energie rinnovabili, e, in particolare, con il riconoscimento della possibilità di realizzare impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili anche in aree classificate come zone agricole, senza mutare la destinazione urbanistica del terreno su cui tali impianti sono collocati (cfr. art. 12, comma 7, D.Lgs. n. 387/2003 e, sul punto, Piscitello A., La qualificazione urbanistica dei terreni: effetti sulle imposte indirette, Studio n. 16-2018/T del CNN. Relativamente a tale possibilità è di recente intervenuto il D.L. n. 63/2024 che ha introdotto nell’art. 20 D.Lgs. n. 199/2021, il comma 1-bis, inteso a limitare, sebbene solo in parte, «l’installazione degli impianti fotovoltaici con moduli collati a terra, in zone classificate agricole dai piani urbanistici vigenti»).

Il riconoscimento di tale possibilità ha, infatti, comportato una diffusione dell’istituto della superficie anche con riferimento ai terreni agricoli, i proprietari dei quali hanno iniziato a costituire diritti di superficie in favore di soggetti terzi al fine di permettere loro di realizzare impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili classificabili come beni immobili (relativamente alla collocazione su un terreno agricolo di un impianto energetico qualificabile come bene mobile, in ragione dell’inapplicabilità del principio dell’accessione, non viene, infatti, in rilievo la costituzione di un diritto di superficie, quanto piuttosto la stipula di contratti ad effetti obbligatori, come quelli di locazione o di comodato), senza tuttavia alienare la proprietà di tali terreni (in tal senso, cfr. anche Puri P., op. cit., 885).

Ciò ha portato ad interrogarsi sul trattamento applicabile ai fini dell’imposta di registro agli atti costitutivi di diritti di superficie insistenti su terreni agricoli.

Come anticipato, la Corte di Cassazione, con argomentazioni simili a quelle formulate con riferimento alle ipotesi di costituzione di diritti di servitù (richiamando espressamente quanto affermato nella precedente pronuncia del 2003), ha ritenuto che la registrazione di atti costitutivi di diritti di superficie su terreni agricoli sia da ricondurre all’ambito di applicazione dell’art. 1, primo periodo, Tariffa, e non a quello del successivo terzo periodo, con conseguente applicazione dell’aliquota del 9% (e non di quella del 15%) (Cass. n. 3461/2021).

Tale conclusione deve ritenersi condivisibile, analogamente a quanto si è ritenuto con riferimento all’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione con riferimento alla registrazione di atti costitutivi di diritti di servitù. Ciò non solo dal punto di vista letterale, storico e sistematico, ma anche da quello teleologico.

Come anticipato, l’art. 1, terzo periodo, Tariffa, nella misura in cui impone un’aliquota maggiorata rispetto a quella del primo periodo, è volto a disincentivare non, in generale, tutte le vicende traslative relative ai terreni agricoli, ma solo quelle idonee a comportare una mutazione della destinazione d’uso di tali terreni, che perderebbero la loro natura agricola (in favore dell’acquisto del carattere dell’edificabilità), acquisendo una maggior potenzialità economica (da cui potrebbe, peraltro, derivare la manifestazione di una maggiore capacità contributiva) (sull’assunzione della «stipulazione di un atto […] come indice di attitudine contributiva», per tutti, Tesauro F., Novità e problemi nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1975, I, 90 ss. ora in Fichera F. – Fregni M.C. – Sartori N., a cura di, Scritti scelti di diritto tributario, vol. I, Torino, 2022, 302 ss.).

Il rischio che ciò accada sembra doversi escludere sia in riferimento all’ipotesi in cui sopra ad un terreno agricolo sia costituita una servitù prediale, sia a quella in cui sopra a tale terreno sia costituito un diritto di superficie finalizzato alla realizzazione di un impianto energetico alimentato da fonti rinnovabili. In tale ultima ipotesi, infatti, il terreno su cui grava il diritto di superficie non solo conserva la propria destinazione urbanistica, ma ben potrebbe continuare ad essere coltivato (dal proprietario o dal superficiario), come avviene, ad esempio, nel caso in cui siano realizzati impianti di tipo agrifotovoltaico (che combinano la produzione di energia rinnovabile con la coltivazione di terreni agricoli). Né pare potersi trascurare il fatto che (sebbene ai soli fini delle imposte sui redditi), qualora il superficiario sia un imprenditore agricolo, al ricorrere di determinate condizioni, le attività di «produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali … e fotovoltaiche … costituiscono attività connesse ai sensi dell’art. 2135, terzo comma, del codice civile» e come tali «si considerano produttive di reddito agrario» (art. 1, comma 423, L. n. 266/2005).

A ciò si aggiunga che, con riferimento all’ipotesi in cui il diritto di superficie venga concesso al fine di permettere la realizzazione di impianti di produzione di energie da fonti rinnovabili, lo stesso avrà con tutta probabilità una durata temporale limitata, parametrata alla vita utile, o al periodo di reddittività, dell’impianto che si intende installare. Ne consegue che, una volta decorso il termine pattuito, ed estinto il relativo diritto di superficie, il terreno, non avendo mutato la propria destinazione, potrà nuovamente essere coltivato.

Da quanto affermato pare si possa escludere che, anche sotto il profilo teleologico, la costituzione di diritti di superficie su terreni agricoli, debba essere disincentivata mediante l’applicazione dell’aliquota maggiorata di cui all’art. 1, terzo periodo, Tariffa.

Come si è detto, a differenza di quello di servitù, il diritto di superficie, una volta costituito, può essere trasferito in maniera autonoma rispetto alla proprietà del terreno su cui insiste. In ragione delle considerazioni svolte dalla Suprema Corte secondo la quale l’art. 1, terzo periodo, Tariffa, sarebbe «applicabile al trasferimento e non alla costituzione di un diritto reale di godimento» (in tal senso, cfr. anche Marzo S.F., op. cit., 2307), potrebbe ritenersi che alla registrazione degli atti costitutivi di diritti di superficie su terreni agricoli sia applicabile l’aliquota del 9%, mentre alla registrazione degli atti di trasferimento dei medesimi diritti sia applicabile l’aliquota del 15%.

Una simile conclusione, tuttavia, non pare condivisibile.

Valorizzando ulteriormente l’argomento letterale, dovrebbe infatti ritenersi che solamente gli atti aventi per oggetto il «trasferimento … [di] terreni agricoli» scontino l’aliquota del 15%, mentre gli «atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento» (a prescindere dalla tipologia di bene immobile su cui insistono tali diritti), dovrebbero scontare l’imposta nella misura del 9%. Ad analogo risultato sembra giungersi attraverso l’argomento storico. Come già rilevato, infatti, nell’art. 1, terzo periodo, Tariffa, D.P.R. n. 131/1986, non vi è alcun riferimento agli “atti traslativi e costitutivi di diritti reali immobiliari” su terreni agricoli, come invece accadeva nel previgente art. 1-bis, Tabella A, Parte I, D.P.R. n. 634/1972.

A ciò si aggiunga che, con specifico riferimento alle ipotesi di cui all’art. 952, comma 2, c.c., ossia qualora il diritto di superficie sia stato costituito al fine di far acquisire (e mantenere) al superficiario la titolarità del bene immobile già esistente sul suolo di proprietà del concedente, potrebbe attribuirsi precipua rilevanza, ai fini tributari, al fatto che la cessione, da parte del superficiario, del diritto di superficie comporti la cessione del diritto di proprietà del bene immobile realizzato sul terreno cui si riferisce tale diritto (come rilevato in dottrina, infatti, il diritto del superficiario sulla costruzione «è espressamente qualificato come diritto di proprietà e come tale trova la sua disciplina»: Pasetti Bombardella G., op. cit., 1472).

Sebbene in ambito civilistico si discuta relativamente al fatto che la cessione della «proprietà superficiaria» – «esito dell’esercizio della concessione a edificare sul suolo altrui e sorta quindi in modo originario» – si accompagni o meno al trasferimento del connesso diritto di superficie (cfr., sul punto, in merito ai profili fiscali, si vedano le considerazioni formulate da Marzo S.F., op. cit., 2297 ss. e da Ventrella T., op. cit., 1115 ss.), tale cessione potrebbe essere ricondotta nel novero di quelle aventi ad oggetto la «proprietà di beni immobili in genere» di cui all’art. 1, primo periodo, Tariffa, poiché dalla stipula della stessa deriva il trasferimento non tanto del diritto di superficie sul terreno agricolo, quanto piuttosto della proprietà del bene immobile che insiste su tale terreno.

Argomentando in tal senso, dovrebbe ritenersi applicabile alla registrazione degli atti di cessione di diritti di superficie (qualora il bene immobile a cui essi si riferiscono sia già stato realizzato) la medesima imposta che si applicherebbe ad una “normale” vendita di bene immobile, la quale è pari al 9% di cui all’art. 1, primo periodo, Tariffa, e non al 15% di cui al successivo terzo periodo. Ciò anche al fine di evitare il rischio di un’irragionevole disparità di trattamento tra la cessione della piena proprietà di un determinato bene immobile e quella della proprietà superficiaria dello stesso.

Da quanto affermato pare, pertanto, escludersi che anche alla registrazione degli atti di cessione di diritti di superficie gravanti su terreni agricoli possa essere applicata l’aliquota maggiorata di cui all’art. 1, terzo periodo, Tariffa.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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