Prime applicazioni dei principi europei in materia di società di comodo: alla ricerca di uniformità
Di Giuseppe Mercuri
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(commento a/notes to Cass. civ., sez. V, sent. 9 settembre 2024, n. 24163; Cass. civ., sez. V, sent. 9 settembre 2024, n. 24174; Cass. civ., sez. V, sent. 9 settembre 2024, n. 24176; Cass. civ., sez. V, sent. 11 settembre 2024, n. 24416; Cass. civ., sez. V, ord. 11 settembre 2024, n. 24442; Cass. civ., sez. V, ord. 28 novembre 2024, n. 30655)
Abstract (*)
La Corte Suprema di Cassazione ha recentemente applicato i principi di diritto enucleati dalla Corte di Giustizia UE in relazione al regime sulle società di comodo. Tuttavia, permangono alcune difformità applicative che meritano un ripensamento delle circostanze rilevanti ai fini della “defettibilità” della disciplina in discorso.
First applications of European principles on shell companies: in search of uniformity – The Italian Supreme Court of Cassation recently applied the legal principle set out by the Court of Justice of the EU regarding the Italian shell companies regime.However, there are still disparities in implementation that require a rethinking of the “facts” relevant for the purposes of the “defeasibility” of the discipline in question
Sommario: 1. Le prime pronunce recanti il principio di diritto enucleato dalla Corte di Giustizia UE. – 2. L’evanescenza della scriminante delle situazioni oggettive impedienti a fronte dell’assorbente questione dell’operatività in concreto. – 3. Le difformità applicative da rimuovere. – 4. Considerazioni conclusive.
1. Dopo la sentenza Feudi di San Gregorio della Corte di Giustizia UE in tema di società di comodo, non si è fatta attendere l’applicazione del diritto europeo da parte della Suprema Corte di Cassazione (per i primi commenti della sentenza, v. Gaeta A., Società di comodo: la perdita definitiva del credito contrasta con la Direttiva IVA, in il fisco, 2024, 15, 1434-1435; Dellapina M., La CGUE scardina la disciplina delle società di comodo ammettendo la detrazione IVA, in L’IVA, 2024, 5, 13-20).
Da una prima lettura di tali pronunce, si ritrae il convincimento che l’attenzione della giurisprudenza di legittimità sia alta sulle problematiche correlate al malfunzionamento di un regime presuntivo irrazionale (v. Mercuri G., Una prima picconata (europea) al regime delle società di comodo, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1, 557-565; per gli approfondimenti monografici, si vedano Ronco S.M., Forma commerciale e impresa nell’imposizione sui redditi, Pisa, 2021, 131 ss.; Petrillo G., L’abuso dello schermo societario nella disciplina fiscale delle società di comodo. Profili sistematici ed effetti distorsivi, Bari, 2018; Miceli R., Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2017; Tosi L., a cura di, Le società di comodo, Padova, 2008).
Tali primi arresti volgono nel senso del recepimento del principio di diritto enucleato dai giudici europei. Tuttavia, permangono alcune incertezze nel momento dell’individuazione dei fatti rilevanti ai fini della fattispecie presuntiva e in quello concernente la loro sussunzione con riguardo alle circostanze pacifiche in quei determinati giudizi.
Muovendo dal principio di diritto, la Suprema Corte ricalca sostanzialmente quanto statuito in sede europea.
E difatti, in tali pronunciamenti, si conferma che il disconoscimento della qualità di soggetto passivo IVA e, quindi, il diniego del diritto di detrazione dell’IVA sugli acquisti non può discendere dall’insufficienza delle operazioni IVA a valle. Ciò discende dalla constatazione della mancanza di qualsiasi addentellato normativo all’interno dell’art. 167 della Direttiva 2006/112, nonché della incompatibilità con i superiori principi su cui poggia il sistema IVA europero, cioè quelli di neutralità e di proporzionalità.
Secondo la disciplina europea, ai fini del diritto alla detrazione (fermi gli altri requisiti sostanziali), rileva esclusivamente che l’operatore economico eserciti effettivamente un’attività economica. E difatti, è «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica a prescindere «dallo scopo o dai risultati di detta attività» (sull’ampiezza di tale nozione si veda Contrino A., Incertezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2011, 3, I, 535-599). Più nel dettaglio, per «attività economica» si intende ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, nonché quelle di professione libera o assimilate e, in specie, lo «sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità» (art. 9 Direttiva 2006/112). Sicché, la costruzione a livello nazionale di un regime presuntivo che subordina il diritto alla detrazione al raggiungimento di una certa soglia non trova alcuna base giuridica nella Direttiva IVA. Anzi, proprio perché i risultati dell’iniziativa economica sono espressamente esclusi dal perimetro della rilevanza ai fini della soggettività, non si può porre una questione meramente “quantitativa” poggiante su una soglia, dovendosi piuttosto applicare un parametro di carattere qualitativo generalmente individuato nello sfruttamento di “property”per ottenere (sia pur in chiave prospettica) introiti stabili dalla cessione di beni o dalla prestazione di servizi.
Questa compenetrazione fra soggettività passiva e presupposto è perfettamente colta dalla giurisprudenza europea e (ora) anche da quella italiana. Si può dire che è del tutto sufficiente un nesso fra l’attività economica, la soggettività passiva, il diritto alla detrazione (ove siano rispettati gli altri requisiti dell’effettivo sostenimento dei costi e della loro inerenza) e, quindi, la neutralità dell’imposta.
Il sistema IVA europeo – poggiando su tali concetti e sul principio di proporzionalità – non tollera limitazioni o compressioni del diritto alla detrazione, altrimenti il rapporto giuridico tributario non risponde alle finalità europee. La consustanzialità di tale situazione giuridica con gli altri elementi del sistema integrato (europeo e nazionale) non ammette misure interne o prassi amministrative che possano mettere strutturalmente a repentaglio il funzionamento del “meccanismo”, perché un ingranaggio fondamentale (quello della detrazione) si rivelerebbe difettoso.
Se ciò vale in linea di principio, non è dato escludere la sussistenza di valide giustificazioni che consentono di ridurre la portata di tale diritto, quali quelle correlate al contrasto alle frodi o all’evasione dell’imposta.
Questa operazione può essere condotta dal legislatore nazionale solo se ricorrono “elementi oggettivi” idonei a dimostrare la rispondenza in concreto dei fenomeni che possono essere legittimamente contrastati dagli Stati membri. Su questo profilo, si rimarca ancora una volta la funzione strutturante del principio di proporzionalità. A livello nazionale, le misure di lotta all’evasione e alle frodi perseguono (certamente) finalità perfettamente legittime, ma devono essere coerenti con tale prospettiva (idoneità) e non devono spingersi oltre quanto strettamente necessario per perseguire quello scopo (necessità). Sotto il primo profilo, si tratta di adeguare la risposta ordinamentale alla “concretezza”, apprezzandosi il ruolo della proporzionalità nell’attività rivolta ai fatti (da parte dell’Amministrazione finanziaria, a monte, e da parte del giudice tributario, a valle) o, come si legge nelle sentenze rammentate, un’operazione avente ad oggetto la “realtà effettiva” (più in generale sui problemi relativi alla precisione delle presunzioni, all’individualizzazione dell’accertamento e all’approssimazione del risultato si rinvia a Marcheselli A., La prova nel nuovo processo tributario, Milano, 2024, 77 ss.). Non è possibile prevedere una presunzione generale di frode o di evasione in relazione ad una misura nazionale, per ciò che il risultato sarebbe quello di paralizzare il sistema economico o, comunque, quello di disincentivare fortemente gli scambi e le iniziative economiche. Né è possibile negare la situazione soggettiva sulla base di mere “supposizioni”.
Detto in altri termini, sia a livello generale e astratto (ossia nel momento di definizione della fattispecie presuntiva), sia a livello applicativo (ossia in sede di verifica delle circostanze concrete), non è possibile negare il diritto di detrazione per un mero problema di “soglia” se non si guarda a ciò che l’iniziativa economica ha fatto in concreto.
Il richiamo all’oggettività degli elementi probatori volge proprio in questo senso, escludendo un trattamento fiscale in peius a causa della mera insufficienza dei ricavi.
Risulta invece rilevante che il soggetto eserciti effettivamente l’attività economica nel senso descritto dall’art. 9 della Direttiva IVA.
In questo senso è del tutto apprezzabile il principio di diritto enucleato da Cass. Civ., Sez. V, ord. 11 settembre 2024, n. 24442 (Pres. Luciotti – Rel. Succio), secondo cui «in materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, sent. 7 marzo 2024 in causa C-341/22, Feudi di San Gregorio Aziende Agricole s.p.a.), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, abbia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi ».
2. Si può ritrarre, quindi, un primo punto essenziale ai fini della ricostruzione della disciplina. Il regime italiano delle società di comodo – così come risulta all’esito dell’applicazione dei principi europei – viene messo in crisi anche nelle proprie basi di semplificazione dell’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, quale tipica funzione delle fattispecie presuntive nel diritto tributario.
Se la base fattuale predeterminata dall’art. 30 L. n. 724/1994 non può risolversi solo nel mero riscontro matematico dei coefficienti applicati al valore degli asset, non ha più senso neppure l’esistenza della stessa fattispecie presuntiva, per ciò che l’Amministrazione finanziaria non beneficia nemmeno di quell’alleggerimento del carico probatorio che dovrebbe essere realizzato dalla misura presuntiva.
L’art. 30 citato è quindi una norma defettibile, in quanto essa – pur essendo astrattamente applicabile ad un caso (a fronte del mancato superamento del test di operatività poggiante sulla soglia dei ricavi minimi) – non può essere applicata ove l’iniziativa economica sia esistente e operativa in concreto.
Detto in altri termini, il diritto europeo e i suoi principi (art. 9 Direttiva IVA, neutralità e proporzionalità) rendono “meno” rilevante il tema quantitativo posto dall’art. 30 cit., ove ricorra un’iniziativa economica indipendente mediante lo sfruttamento di asset.
È meno rilevante, perché – se l’iniziativa economica manca del tutto – (i) riemerge il ruolo del test di operatività, (ii) scatta la qualificazione del soggetto in termini di società non operativa e, quindi, (iii) si producono gli effetti del trattamento fiscale peggiorativo previsto dall’art. 30 ricordato (in specie, quello dell’imputazione dei redditi minimi presunti).
Ma è chiaro che, se è così, la presunzione non funziona nemmeno sotto il profilo dell’accelerazione o semplificazione dell’azione di accertamento, nonché dalla mitigazione dell’onere probatorio di cui all’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992 che dovrebbe ritrarsi da una fattispecie presuntiva. Sicché, l’intervento europeo ha assestato un duro colpo a questa disciplina anche sotto il profilo della ragionevolezza della misura in relazione all’attività amministrativa.
Rimane da capire poi se abbia ancora senso prevedere “situazioni oggettive impedienti” in funzione scriminante, cioè quelle circostanze che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi (comma 4-bis dell’art. 30 cit.).
Secondo la giurisprudenza di legittimità anteriore alla sentenza Feudi di San Gregorio, si deve trattare di problematiche attinenti alle effettive condizioni del mercato, atte a dimostrare l’erroneità dell’esito quantitativo del test di operatività (Cass. n. 16472/2022; Cass. n. 4019/2019; Cass. n. 16204/2018). La funzione scriminante delle “situazioni oggettive impedienti” si realizza quando il mancato raggiungimento dei ricavi minimi presunti non dipende da una scelta volontaria (Cass. n. 16697/2021; Cass. n. 27976/2020) o quantomeno consapevole dell’imprenditore (Cass. n. 23384/2021; Cass. n. 34642/2019; Cass. n. 31618/2019; Cass. n. 21358/2015; in dottrina v. già Tosi L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 366), dovendosi trattare di circostanze estranee alla dinamica della gestione dell’impresa tale da impedire lo svolgimento dell’attività secondo risultati reddituali conformi agli standard minimi legali (Cass. n. 24314/2020). Si pensi al caso trattato dalla Suprema Corte (anteriore alla sentenza Feudi di San Gregorio), là dove ha (giustamente) riconosciuto l’efficacia scriminate di una situazione oggettiva in cui la società contribuente – operante nel settore della produzione e vendita dell’amianto – aveva subito perdite a causa dei costi sostenuti per il reperimento di succedanei di tale materiale, nonché a cagione dei difetti della merce importata da una società danese (Cass. n. 30627/2023).
Questo caso concreto attesta che un’attività economica esisteva, in quanto ricorreva un’attività di sfruttamento di beni per ricavarne introiti stabili. Quindi, alla luce della nuova giurisprudenza europea, la questione relativa all’esistenza dell’attività economica indipendente ai fini della soggettività passiva IVA risulta (oggi) del tutto assorbente rispetto alla singola “eccezione” al regime delle società di comodo, quale recata dal comma 4-bis dell’art. 30 in esame.
Questo discorso riguarda anche le iniziative nel cui ambito vengono poste in essere anche attività meramente prodromiche o propedeutiche che integrano già “attività economica” ai fini della soggettività passiva IVA. E difatti, l’impiego dei beni o servizi (reale o previsto) non incide sulla nascita del diritto alla detrazione, potendo semmai determinare solo l’entità della detrazione iniziale alla quale il soggetto passivo ha diritto e l’entità delle eventuali rettifiche durante i periodi successivi (CGUE, C-248/20). Più precisamente, vi è un “effetto acquisitivo” del diritto alla detrazione (una volta sorto), ancorché l’attività economica non sia stata successivamente realizzata. Questo si spiega, perché non si possono realizzare ingiustificate difformità applicative tra quelle imprese che realizzano già operazioni imponibili e altre (in fieri) che sostengono investimenti per avviare le attività suscettibili di realizzare (in via potenziale) operazioni soggette all’IVA (cfr. anche Risposta ad interpello n. 584/2021). Il che avrebbe come conseguenza quella di dar luogo a una violazione della neutralità dell’imposta. Si pensi anche al caso dello studio di fattibilità commissionato a terzi sulla cui base il soggetto passivo ha deciso di non dare concreto inizio all’attività economica per effetto dei risultati non confortanti (CGCE, C-110/94; CGUE, C-734/19).
Se così è in generale e tornando alla disciplina delle società di comodo, il tema dell’esercizio dell’attività economica indipendente (sia pur in fase germinale) mette fuori gioco anche la questione delle “situazioni oggettive impedienti”, in quanto – se l’iniziativa “fa” (cioè sfrutta beni/servizi per ricavare introti stabili sia pur in via potenziale) – tanto basta per il riconoscimento della soggettività passiva e del diritto alla detrazione. Le altre circostanze economiche impedienti diventano irrilevanti, proprio perché esse presuppongono già che l’iniziativa sia collocata sul mercato e, come tale, subisce l’(inevitabile) impatto di fattori endogeni o esogeni rispetto alle dinamiche gestionali. Se c’è una gestione, c’è anche attività economica ai sensi dell’art. 9 della Direttiva IVA. L’assorbenza della questione rende ultronea la verifica degli ulteriori impedimenti derivanti dal mercato o da una gestione “inconsapevole”.
La conseguenza è che si deve dar seguito a quella giurisprudenza di legittimità secondo cui l’Amministrazione finanziaria e i giudici tributari devono adottare un approccio “realista”, nel senso che il regime delle società di comodo non può trovare applicazione se è dimostrata l’operatività in concreto e, quindi, la “realtà effettiva” (Cass. n. 8856/2024; Cass. n. 16472/2022; Cass. n. 4946/2021; Cass. n. 26219/2021; in dottrina già Tassani T., La disciplina delle “società non operative” (dopo la legge finanziaria 2008), in Studio n. 20-2008/T, Consiglio Nazionale del Notariato, 16; v. da ultimo anche Viotto A., Considerazioni critiche sulla disciplina delle società di comodo, anche alla luce delle recenti aperture nella giurisprudenza di legittimità, in Riv. trim. dir. trib., 2023, 1, 157-188). E difatti, anche alla luce del diritto europeo, non si può intravedere nel test previsto dal comma 1 dell’art. 30 cit. una presunzione assoluta circa la qualificazione della società come non operativa a cagione del mero disallineamento fra ricavi minimi presunti e ricavi effettivi. Questa ricostruzione non aveva solide fondamenta né prima e men che mai ne ha dopo la sentenza Feudi di San Gregorio.
Queste considerazioni sono foriere di dubbi di legittimità della fattispecie presuntiva non solo nella prospettiva di tutela del contribuente (per tutte le ragioni che da sempre sono state rimarcate in dottrina), ma anche sul piano della ragionevolezza della misura nell’interesse dell’Amministrazione finanziaria, atteso che la presunzione ha perso gran parte della sua funzione di alleggerimento dell’onere probatorio a carico degli Uffici. In questo senso, ci si potrebbe interrogare se l’art. 30 possa dirsi ancora coerente non solo rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 53 Cost. (in quanto – in specie e fra l’altro – vi è un’incoerenza di fondo nel ritenere produttivi di reddito soggetti che “non operano”, mancando un nesso logico fra i due termini di riferimento alla luce del principio di capacità contributiva), ma anche rispetto all’art. 97 Cost. sotto il profilo del buon andamento dell’Amministrazione finanziaria, per ciò che la fattispecie non è idonea a raggiungere neppure i benefici immaginati sotto il profilo della riduzione dell’attività istruttoria e dell’onere probatorio (per tutti i dubbi di legittimità costituzionale posti dall’art. 30 si rinvia a Viotto A., Considerazioni critiche, cit.).
3. Il themadecidendum e il thema probandum, quindi, vertono – ormai ed essenzialmente – sulla operatività in concreto. Ma ci si deve chiedere cosa sia sufficiente per dimostrare l’esistenza di tale circostanza.
Su questo piano, si registrano alcune difformità applicative da parte delle recenti sentenze in esame.
Sono del tutto apprezzabili le conclusioni cui è pervenuta l’ordinanza n. 24442/2024 che ha recepito appieno i principi europei, cassando la sentenza del giudice di merito che aveva affermato l’idoneità e la sufficienza del mancato raggiungimento della soglia per escludere la soggettività IVA e rinviando alla Corte tributaria competente per gli ulteriori accertamenti in fatto circa l’effettivo esercizio dell’attività economica da parte della contribuente.
Allo stesso modo risulta pienamente conforme al diritto europeo quanto rimarcato dalla sentenza n. 24416/2024. E difatti, la Suprema Corte ha riconosciuto la spettanza del diritto di detrazione, ricordando altresì che tale situazione soggettiva rimane ferma anche in assenza di operazioni attive e, segnatamente, là dove vi siano attività di carattere preparatorio, purché finalizzate alla costituzione delle condizioni d’inizio effettivo dell’attività tipica (sul punto si richiamano espressamente Cass. n. 25635/2022; Cass. n. 23994/2018). Sicché, vertendo l’esame sulle concrete vicende relative ad una società esercente l’attività di servizi nel settore turistico-alberghiero, la Corte ha ritenuto di cassare con rinvio la sentenza di seconde cure in ragione degli ulteriori accertamenti di merito da condurre. Qui si sottolinea che, per tale via, non si introduce un nuovo thema probandum, ma si richiede al giudice competente di dare luogo al «necessario accertamento della realtà concreta», ciò derivando direttamente dal diritto europeo a causa della mancanza di “esaustività” degli indici di cui all’art. 30 cit. circa la dimostrazione dell’inconsistenza dell’attività economica.
Richiama i principi enucleati in sede europea anche la sentenza n. 24176/2024. Tuttavia, tale pronuncia – pur rievocando la discutibile tesi della ratio antielusiva della misura – sembra cogliere la distinzione fra il tema della prova dell’operatività in concreto (questione che prescinde dalla soglia desunta dall’applicazione dei coefficienti di cui all’art. 30, comma 1 cit. e, quindi, dai risultati concretamente conseguiti) e il tema della prova delle “oggettive situazioni impedienti” (questione come detto ormai assorbita dal primo thema decidendum/probandum alla luce degli esiti della giurisprudenza europea). E difatti, risultava pacifico in causa che la società aveva sostenuto un investimento tramite l’acquisto di un immobile da adibire a sala cinematografica, quale unico compendio immobiliare iscritto nell’attivo dello stato patrimoniale. Sennonché, tale immobile non era suscettibile di utilizzazione in concreto (a causa del prolungamento dei tempi di completamento dei locali destinati allo svolgimento dell’attività), cosicché la società non aveva ancora potuto avviare l’erogazione dei propri servizi. In questo caso, la Suprema Corte ha giustamente rigettato il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria, senza disporre alcun rinvio al giudice di merito, ritenendo che fosse sufficiente alla luce del principio di diritto europeo la pacificità della circostanza che la società aveva esercitato effettivamente un’attività economica. Alla luce di quanto attestato anche con il sopralluogo dei funzionari dell’Amministrazione finanziaria, ricorreva un nesso diretto e immediato tra l’acquisto dell’immobile e l’attività economica da implementare. Essendo pacifico ciò, la Suprema Corte ha ritenuto (correttamente) di dover «prescindere dall’accertamento sulla sussistenza di situazioni oggettive che giustificavano l’inoperatività della società contribuente». Ciò appare del tutto corretto, proprio perché questo profilo è logicamente assorbito dalla pacifica esistenza di un’attività economica (sia pur in fieri).
Meno condivisibili appaiono le conclusioni riversate nelle sentenze nn. 24163 e n. 24174 del 9 settembre 2024. È vero che tali giudizi vertevano sull’applicazione del regime delle società di comodo ai fini reddituali. Tuttavia, anche con riferimento a tale materia, la Suprema Corte aveva riconosciuto la possibilità di provare “l’operatività reale” ai fini della defettibilità dell’art. 30 cit. (v. supra). E difatti, la Suprema Corte – pur ritenendo “inconferente” il principio di diritto enucleato con la sentenza Feudi di San Gregorio – ha comunque riconosciuto rilevanza alla dimostrazione della «non operatività in concreto». In particolare, i Supremi Giudici l’hanno confermata alla luce dei fatti pacifici in causa, sostenendo che l’evasione fiscale sarebbe stata constatata sulla base di «elementi oggettivi». Sennonché, i dati accertati dai giudici di merito (riversati nella parte in fatto) non sembravano deporre in favore di tale conclusione. E difatti, la società contribuente era proprietaria di terreni (per il 70% costituiti da boschi e in parte adibiti a coltivazione di foraggio) e di due fabbricati che per la maggior parte dell’anno risultavano locati al un socio accomandante (marito della socia accomandataria) e per due mesi all’anno venivano «sfruttati» (sic) come agriturismo per un corrispettivo annuo di 40.000 euro. Nonostante la pacificità di tali fatti, la Suprema Corte – confermando la sentenza di merito – ha negato l’operatività in concreto.
Orbene, sul punto, preme osservare che l’assegnazione dei beni al socio non appare una circostanza idonea ai fini dell’applicazione del regime delle società di comodo. Se vi è stato un disallineamento fra il corrispettivo annuo per concessione in godimento degli asset sociali al socio/familiare e il loro valore di mercato, la misura da applicare non è quella prevista dall’art. 30 L. n. 724/1994, ma la tassazione come reddito diverso in capo al socio della differenza fra quei due parametri (art. 67, lett. h-ter, TUIR).
Se poi uno “sfruttamento” dei beni aziendali come agriturismo v’è stato, allora sussiste anche un’attività economica in concreto che ha realizzato introiti “reali” in misura anche abbastanza considerevole. Né la stagionalità dell’iniziativa può essere un elemento ostativo al riconoscimento dell’iniziativa, perché altrimenti si dovrebbe negare tale qualificazione anche con riguardo a tutte le strutture recettizie, stabilimenti balneari, agli impianti sciistici e così via.
Quindi, se quei dati erano pacifici, la premessa (i.e. l’operatività effettiva) non sembra coerente con le conclusioni del sillogismo giudiziale posto in concreto.
Probabilmente può aver avuto un impatto sul “sentiment” dei giudici la circostanza dell’assegnazione dei beni al socio/familiare, ma questa è una vicenda che (come già detto) assume rilevanza per diversi fini fiscali, esistendo una misura specificamente prevista (art. 67 cit.) e meno invasiva rispetto a quella delle società di comodo.
Da ultimo si segnala l’ord. 28 novembre 2024, n. 30655 che si occupa della questione dell’operatività in concreto (pur non richiamando i principi di diritto ribaditi dalle pronunce settembrine e dai giudici europei). In questo caso, il giudice di merito aveva escluso l’operatività, nonostante la società contribuente fosse impegnata nell’attività di bonifica dall’amianto in relazione all’unico immobile di cui era proprietaria. La Suprema Corte ha correttamente individuato «l’inoperatività in assoluto» quale «presupposto applicativo» dell’art. 30. A questo riguardo, l’ordinanza valorizza la circostanza che la società – esercente attività di trasporto – non disponeva né di personale, né di mezzi di trasporto, avendo emesso solo tre fatture attive nell’arco di 17 anni. Ciò posto, i giudici escludono la rilevanza all’attività di bonifica svolta «concretamente negli anni 2000- 2007» (si consideri che il periodo di imposta oggetto di accertamento era il 2006).
L’inquinamento da amianto quindi rendeva inutilizzabile l’asset. Ma – secondo l’ordinanza – ciò non conterebbe, in quanto gli altri dati (cioè l’assenza di un’organizzazione di mezzi e di uomini e l’assenza di operazioni attive) sarebbero prevalenti per predicare l’inesistenza di una struttura imprenditoriale. Per tali ragioni, si esclude che la società abbia svolto «in generale (od in “assoluto”) la propria attività», in quanto le opere di bonifica «non ebbero alcuna incidenza concreta» sull’attività «la cui sola effettività attribuisce significato ad una sua temporanea sospensione per fatto oggettivo e dunque l’inapplicabilità dei parametri di cui all’art.30, comma 4-bis., l. cit.». Qui, riemerge quella sovrapposizione di piani fra attività economica e situazioni oggettive impedienti di cui si diceva. Se un imprenditore è impegnato nell’attività di bonifica dall’inquinamento di amianto (che, purtroppo, come è scientificamente dimostrato, dà luogo a contaminazione a lungo termine), ciò vuol dire che sta già effettuando un investimento (di lunga durata) in funzione prodromica o preparatoria alla propria iniziativa. Ciò significa che c’è già un’attività economica. In questa fase, l’imprenditore non può (e non deve) assumere dipendenti o mezzi per ragioni di coerenza economica, perché tali ulteriori costi (aggiungendosi a quelli di bonifica) non sarebbero certamente remunerati per inutilizzabilità dei locali destinati a costituire la base logistica per l’attività di trasporto (a questo riguardo, si consideri la posizione strategica di Ferentino lungo l’autostrada A1). Queste considerazioni forse avrebbero meritato un ulteriore approfondimento in sede di rinvio alla luce dell’assorbenza della questione (di merito) circa l’operatività anche in fase di mero investimento prodromico (come chiarito dalle precedenti Cass. n. 24176/2024 e Cass. n. 24416/2024) rispetto alle situazioni oggettive impedienti.
Rimane fermo il principio di diritto secondo cui occorre accertare l’effettività dell’iniziativa anche in fase germinale o di implementazione, perché la struttura (intesa come organizzazione di mezzi o di persone) può ragionevolmente non esistere in tali momenti a causa della sua iniziale antieconomicità. Se non fosse così, sarebbe evidente la disparità di trattamento (in violazione del parametro di cui agli artt. 3 e 53 Cost.) fra imprese che sostengono impegnativi investimenti iniziali e quelle che non sono tenute ad affrontare le medesime criticità.
4. Le difformità in sede applicativa testè evidenziate non possono che essere sanate dal legislatore. Anche in questa sede, si torna nuovamente ad auspicare la totale abolizione del regime delle società di comodo (v. già Melis G., Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi dir. trib., 2006, 10, 1325 ss.), essendo ormai una disciplina asistematica, intrinsecamente contraddittoria e, oltretutto, priva di vantaggi anche a favore dell’Amministrazione finanziaria in termini di sgravio delle attività istruttorie (atteso che le indagini devono comunque avere a oggetto l’operatività in concreto). Dopo la sentenza Feudi di San Gregorio, tale normativa appare fortemente claudicante e ha smarrito la propria funzione (se mai l’ha avuta).
Tuttavia, non sono molto confortanti gli attuali esiti dello schema di riforma delle imposte sui redditi. Sul tema delle società di comodo non v’è traccia di alcun intervento (almeno per ora), fermo restando che la legge delega n. 111/2023 richiede l’individuazione di «nuovi parametri» per qualificare le «società senza impresa», nonché di «cause di esclusione» da riferire a parametri di congruità basati sul «numero di lavoratori dipendenti» e alla luce del tipo di «attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa» (art. 9, comma 1, lett. b), nn. 1 e 2).
Probabilmente si è ancora in attesa degli sviluppi in sede europea sulla proposta della Commissione in materia di shell companies.
Per il momento si registrano solo le sollecitazioni date dalla Commissione Finanze al Governo, affinché – in attuazione della legge delega – ridetermini le aliquote delle categorie di beni la cui redditività presunta non risulta in linea con i valori medi di mercato (ad esempio, partecipazioni e immobili). Si suggerisce altresì l’introduzione di un meccanismo di revisione periodica, ovvero, in alternativa, la razionalizzazione della disciplina con un “intervento mirato” al «contrasto del mero godimento dei beni messi a disposizione dei soci e dei loro familiari gratuitamente o a fronte di un corrispettivo inferiore al valore normale» (v. il Parere del 19 novembre 2024 reso dalla VI Commissione permanente – Finanze allo “Schema di decreto legislativo recante revisione del regime impositivo dei redditi, atto n. 218”).
Come ricordato sopra, l’art. 67, lett. h-ter, TUIR già si occupa di questo tema e tale disciplina appare del tutto esaustiva per la tassazione dei beni assegnati ai soci, ancorché la dottrina abbia messo in evidenza le criticità della tassazione dei meri risparmi di spesa (Beghin M., I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, in Corr. trib., 2012, 14, 1059-1067).
Fermo ciò, come si è già rimarcato nel precedente contributo in questa Rivista, la disciplina delle società di comodo merita un ripensamento dei “criteri di entrata” quali hallmarks di sostanza minima (riferibili all’utilizzo di locali, all’accensione di conti correnti, a circostanze riferibili ad amministratori e lavoratori, ecc.) e, quindi, degli effetti (i.e. attivazione di un alert per l’Amministrazione finanziaria, contraddittorio, disconoscimento di benefici fiscali previsti anche a livello convenzionale ed eventuale tassazione per trasparenza dei redditi in capo ai soci). Ciò dovrebbe essere coerente con il fine di concentrare il focus sulle società “senza impresa” e, quindi, disincentivare la realizzazione di wholly artificial arrangements (coerentemente con il diritto europeo) per contrastare il vero fenomeno delle letter box, delle front entities o delle società fantasma costituite per conseguire vantaggi fiscali nelle operazioni cross-border oppure per ottenere altri tipi di benefici (convenzionali e non).
Tuttavia, la dottrina ha messo in evidenza anche le criticità della proposta europea sulle shell companies (specie sotto il profilo dell’impatto negativo sul “remote working”), rilevando (i) la vaghezza di alcuni requisiti, (ii) taluni profili di incoerenza rispetto ai fini perseguiti e (iii) l’incremento dei costi amministrativi (cfr. Arginelli P., Are the Substance Requirements under the EU Shell Companies Directive Proportional? A Critical Assessment, in Kostić S.V. et al. [a cura di], Mobility of Individuals and Workforces: Tax Challenges Raised by Digitilization, Amsterdam, IBFD, 2024).
Fermo che tali aspetti dovranno essere considerati in sede di adozione finale della proposta (se sarà accolta dal Consiglio dell’UE), la misura europea di contrasto può condurre ad una valutazione positiva, ove siano apportati i correttivi segnalati in dottrina (Pistone P. – Nogueira J.F.P. – Turina A. – Lazarov I., Abuse, Shell Entities and Right of Establishment: A Plea for Refocusing Current Proposals and Achieving Deeper Coordination within the Internal Market, in World Tax Journal, 2022, 14, 2, 187- 236).
Tornando sul versante nazionale, si torna ad auspicare un intervento definitivo nelle sedi parlamentari per mettere da parte l’esperienza (né ragionevole, né ragionata) della disciplina attuale e per sostituirla con una nuova che risponda maggiormente al principio di capacità contributiva e ai principi europei. La legge delega non sembra indicare criteri direttivi pienamente coerenti con tale prospettiva. Come è stato efficacemente segnalato (v. Beghin M., Forme di esercizio dell’impresa e imposizione sui redditi, in Rass. trib., 2023, 4, 758-772), l’art. 9, comma 1, lett. b) non si preoccupa del fatto che il modello di predeterminazione del reddito presenta difetti strutturali, mantenendolo fermo. L’attenzione viene incentrata solo su una ridefinizione del perimetro soggettivo tramite nuovi parametri per predicare l’esistenza di una “società senza impresa”, dovendosi ritrarre un restringimento del raggio applicativo della misura.
Per queste ragioni, si dovrebbe abbandonare la prospettiva seguita dalla legge delega e tornare nelle aule parlamentari per ripensare interamente il meccanismo con requisiti diversi (ricollegati a una sostanza minima di impresa, tralasciando – così e definitivamente – conclusioni inferenziali rimesse a dati meramente quantitativi correlati ai risultati dell’attività) e con effetti diversi (disconoscimento di benefici fiscali e non già creazione di redditi innaturali).
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Arginelli P., Are the Substance Requirements under the EU Shell Companies Directive Proportional? A Critical Assessment, in Kostić S.V. et al. (a cura di), Mobility of Individuals and Workforces: Tax Challenges Raised by Digitilization, Amsterdam, IBFD, 2024
Beghin M., I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, in Corr. trib., 2012, 14, 1059-1067
Beghin M., Forme di esercizio dell’impresa e imposizione sui redditi, in Rass. trib., 2023, 4, 758-772
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