La presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società a ristretta base: il punto sulla giurisprudenza (Parte prima)

Di Roberto Succio -

(commento a /notes to, Cassazione, sez. V, sent. 10 ottobre 2024, n. 26473)

 

Abstract  (*)

La Suprema Corte affronta il tema della tassazione presuntiva, che comporta l’utilizzo di mezzi indiretti per accertare l’imponibilità fiscale, nel contesto della tassazione delle piccole imprese. Vi è una presunzione, non legale ma giurisprudenziale, secondo cui i soci di una società a ristretta base partecipativa – legati tra loro da legami familiari o personali – sono beneficiari dello stesso “reddito occulto” ottenuto dalla loro società. Secondo la legge, questo reddito deve essere tassato sia a livello societario che a livello dei singoli soci. Tale presunzione è confutabile. Il problema principale riguarda l’onere della prova: in generale, il Fisco deve dimostrare l’esistenza di maggiori ricavi occulti, mentre il contribuente è tenuto a provare tutti gli elementi di fatto che riducono o escludono l’obbligo fiscale. In questa particolare situazione, la Corte fornisce diverse osservazioni su cosa debba essere provato, da chi e fino a quale livello o grado di certezza.

The jurisprudence on the presumption of hidden profits distribution in companies with a restricted social basis (Part one) – The Supreme Court faces the topic of presumptive taxation, which involves the use of indirect means to ascertain tax liability, in small business taxation. There is a presumption, not a legal but a judicial one, that the participants of a limited liability company – linked one to another by family or personal connections – are the beneficiaries of the same “shadow income” gained by their company. According to the law, this income has to be taxed at the company level and at the participant level. This presumption is rebuttable. The main problem involves the burden of proof: generally speaking, tax Authorities must substantiate higher income items, while the taxpayer is required to prove all the factual bases that reduce or exclude the tax burden. In this peculiar situation, the Court offers multiple remarks about what must be proved, who must prove it and to what level or degree must it be proved

 

Sommario: 1. Il caso. – 2. La presunzione in rilievo: l’accertamento degli utili societari extrabilancio nelle società a “ristretta base”. – 3. Gli elementi costitutivi della presunzione: dal fatto noto al fatto ignoto.

1. L’Agenzia delle Entrate notificava al contribuente persona fisica un avviso di accertamento per un maggior reddito percepito quale socio di una s.r.l. per il medesimo periodo d’imposta sottoposto ad accertamento nei confronti della società partecipata. A fondamento dell’atto impositivo, l’Ufficio poneva la partecipazione del contribuente, nella misura del 10%, al capitale sociale della società in argomento compartecipata da altri due soci – uno dei quali amministratore unico – nella misura, rispettivamente, del 50% e del 40%

Con autonomo avviso di accertamento – che risultava non impugnato e quindi definitivo – l’Ufficio aveva infatti in precedenza contestato alla società ridetta l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi per il 2008 e, di conseguenza, l’omessa dichiarazione del reddito d’impresa conseguito nell’anno 2007.

La sentenza oggetto di scrutinio da parte della Corte di legittimità aveva accolto il ricorso in appello del contribuente, ritenendo “convincente” la difesa del medesimo nella parte in cui aveva argomentato e documentato (depositando documentazione bancaria) “circa la sua estraneità all’esercizio dell’attività d’impresa”, in particolare: 1) di essersi occupato esclusivamente di musica come tecnico del suono; 2) di non avere alcuna “competenza in ordine a qualsivoglia aspetto economico e di gestione”; 3) di essersi disinteressato dell’attività della società, costituita per gestire i rapporti del gruppo musicale con le case discografiche; 4) di ritenere non operativa la s.r.l. «a seguito del passaggio in epoca precedente della gestione della totalità degli interessi economici del gruppo ad altra società», della quale il contribuente non era socio.

Secondo l’Amministrazione finanziaria ricorrente di fronte alla Suprema Corte, il giudice del merito aveva errato nel ritenere il contribuente adempiente rispetto all’onere probatorio contrario alla presunzione di distribuzione degli utili extracontabili, non già attraverso la dimostrazione che i maggiori ricavi fossero stati accantonati o reinvestiti dalla società, bensì attraverso l’allegazione del suo sostanziale disinteresse per l’attività concretamente svolta dalla società. Tale allegazione era sorretta nel giudizio di merito dalla semplice produzione della documentazione bancaria personale, nella quale non risultava traccia dell’effettiva riscossione degli utili extra contabili prodotti dalla società.

Nella fattispecie, la s.r.l. nei confronti della quale venne accertato il maggio reddito – “a monte” dell’avviso di accertamento oggetto della sentenza qui annotata, notificato al socio in essa partecipante – non aveva mai presentato dichiarazione dei redditi tra il 2003 e il 2009, nonostante sui suoi conti correnti fossero transitati consistenti somme, derivanti dall’attività d’impresa svolta. Ancora, come si evince dalle risultanze in atti, non era mai stata convocata alcuna assemblea né approvato alcun bilancio e neppure risultava mai redatta alcuna scrittura contabile.

Parimenti, il socio ricorrente non aveva presentato alcuna dichiarazione. L’accertamento dell’Ufficio si fonda quindi sulla presunzione della distribuzione in capo ai soci del reddito sottratto all’imposizione societaria, presunzione che a sua volta risulta basata a – come illustra la Corte anche nell’ordinanza in rassegna – sulla ristretta composizione della stessa, elemento idoneo a fondare la prova, sia pur presuntiva, della ripartizione del reddito in oggetto in capo ai soci; il tutto salva la prova del contrario da parte di costoro.

I Giudici di legittimità in primo luogo ricordano come alcune sentenze della Corte individuino il contenuto della prova contraria a carico dei soci nella sola dimostrazione che i maggiori ricavi dell’ente siano stati accantonati o reinvestiti[1], prova che il contribuente «può fornire anche nel suo ruolo di titolare meramente formale delle quote, ma estraneo di fatto alla gestione societaria, perché comunque il ruolo formale permetterebbe, se del caso, di accedere ai libri sociali per acquisire elementi a tal fine».

In secondo luogo, si ricorda in sentenza il diverso orientamento della medesima Corte Suprema secondo il quale il socio, onde fornire «la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria», può difendersi, in via alternativa, provando di avere «ricoperto un ruolo meramente formale di semplice intestatario delle quote sociali, senza avere concretamente svolto alcuna delle attività di gestione e controllo riservate dalla legge (e dallo statuto) al socio della società a responsabilità limitata»[2].

Aderendo al sopra riportato orientamento, la pronuncia in nota conclude affermando che «una volta dimostrata, a dispetto della ristretta base sociale, l’assoluta estraneità del socio alla gestione e alla vita stessa della società, la suddetta massima di esperienza (n.d.r. la ristretta base societaria) perde il suo rilievo probatorio e non consente più di ritenere legittima la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili in favore di tutti i soci».

Alla luce del sopra esposto principio, la sentenza cassa la pronuncia di appello non avendo il giudice territoriale adeguatamente indagato né motivato proprio in ordine alla prova fornita da parte del socio in ordine alla sua estraneità alla conduzione della società.

2. Va ricordato che dal punto di vista del diritto sostanziale, nel vigente sistema impositivo la tassazione per trasparenza dei redditi societari, vale a dire la tassazione degli stessi in capo ai soci a prescindere da una distribuzione di utili agli stessi, è prevista soltanto per le società di persone ex art. 5 TUIR e, su specifica opzione, per alcune società di capitali secondo gli artt. 115 e 116 TUIR.

Fuori da questi casi, i redditi societari sono ordinariamente tassati in capo alla società, mentre i soci sono tassati sugli utili che la società in qualsiasi forma distribuisce in forza degli artt. 45 e 89 TUIR. Questa proposizione intanto evidenzia in primo luogo una differenza quanto al momento dell’imposizione, dal momento che il prelievo in capo alla società è legato al conseguimento del reddito societario mentre quello in capo ai soci è legato alla distribuzione dell’utile da parte della società.

Essa rivela anche che ciò che è reddito per la società non necessariamente è reddito per i soci e viceversa. Per i soci è reddito l’utile, se e nella misura in cui distribuito; l’utile, distribuito o meno, come è noto non coincide con il reddito della società.

Quest’ultimo si determina infatti, in via generale, apportando al primo le variazioni in aumento e in diminuzione imposte o ammesse dalla normativa tributaria come prevede l’art. 83 TUIR.

Ne consegue che, mentre la rettifica dei redditi societari tassati per trasparenza si riflette necessariamente sulla posizione dei soci, implicando una corrispondente rettifica dei redditi degli stessi a prescindere dalla sua causa, la rettifica dei redditi societari non tassati per trasparenza non si riflette necessariamente, in via per così dire automatica, sulla posizione dei soci. Poiché la tassazione di questi ultimi presuppone una distribuzione di utili, affinché la rettifica dei redditi societari si rifletta sulla posizione dei soci occorre in primo luogo che riguardi l’utile, nel senso che dipenda dall’accertamento di fatti rivelatori di un utile extrabilancio e non dall’accertamento di un’inosservanza delle regole di variazione (all’utile stesso) previste dalla normativa tributaria. In questa seconda ipotesi, infatti, il maggiore reddito non si connette ad un maggiore utile, e senza un maggiore utile non è configurabile un interessamento della posizione dei soci.

Occorre, inoltre, che l’utile extrabilancio accertato sia stato distribuito ai soci, e da questi quindi materialmente appreso.

L’Agenzia delle Entrate dovrà dunque provarne il trasferimento in capo ai soci e tale prova può essere offerta, come ovvio, in via diretta o in via indiretta, anche quindi attraverso meccanismi probatori di tipo presuntivo. Infatti, la destinazione ai soci non è la sola destinazione ove può giungere tale utile sottratto a imposizione, poiché è possibile che esso venga mantenuto nel patrimonio della società, a vario titolo, per essere sia da essa utilizzato per produrre ricavi, sia da essa incamerato per rafforzarne la solidità patrimoniale pur non evidenziato – ovviamente, in quanto occultato al Fisco – nelle scritture contabili e nel bilancio.

Proprio su questo profilo si appuntano da tempo le osservazioni critiche della dottrina, che ha sempre sottoposto a critica serrata il meccanismo presuntivo in argomento[3]: chi scrive ritiene che lo stesso presenti invece una stretta consequenzialità logica senza dubbio solida nel suo dipanarsi e ragionevole nelle conclusioni alle quali porta, salvo rendere necessari alcuni correttivi interpretativi e meglio comunque risultando applicata ove fossero oggetto di coordinamento – come si vedrà in conclusione – i due giudizi che possono scaturire dalla impugnazione dei due avvisi di accertamento, che originariamente sorgono, quello nei confronti della società, “a monte” e quello in nei confronti dei soci, “a valle”.

La presunzione in parola è stata originariamente applicata, sin da metà degli anni Ottanta, con riguardo agli accertamenti diretti ad accertare – anche induttivamente – maggiori ricavi o minori costi in capo a società a ristretta base familiare[4] per poi dedurre come conseguenza logica la ripartizione del conseguente imponibile societario sottratto a imposizione tra i soci.

Risultava infatti del tutto ragionevole – sulla base dell’id quod plerumque accidit – presumere la sussistenza di uno stretto vincolo di solidarietà e in questo caso di “complicità” tra i soci che prende le mosse dall’affectio societatis del quale diviene declinazione per connotarsi qui negativamente come vera e propria compartecipazione all’evasione.

Ecco, quindi, la legittimazione logica della presunzione di distribuzione pro-quota tra soci, che nel quantum segue la proporzione alla partecipazione societaria e nel quandum si colloca nell’anno in cui si sia realizzato il maggior reddito extracontabile.

Si deve rammentare che in via generale le presunzioni “non legali” (vale a dire quelle non previste direttamente dalla legge ma elaborate prevalentemente in sede giurisprudenziale, come quella in argomento) possono essere sempre utilizzate dal Giudice al fine di fondare il proprio convincimento[5].

Come efficacemente illustra la dottrina, la presunzione in argomento appartiene a tal genere di meccanismi probatori e costituisce «una regola pretoria di inversione dell’onere della prova, operante in sostanza come se vi fosse una presunzione legale, pur in mancanza di una volontà legislativa di derogare al principio del libero convincimento del giudice»[6]

In particolare, trattandosi di presunzioni semplici, il Giudice deve valutare se, guardando in concreto e quindi con riferimento al caso specifico, gli elementi presuntivi semplici utilizzati dall’Ufficio al fine di fornirne la prova di cui è onerato siano certi e comunque logicamente idonei a dar prova del “fatto incerto” (vale a dire della sottrazione a imposizione del reddito a livello della partecipazione dei singoli soci alla società) e quindi tali da dimostrare la fondatezza dell’accertamento azionato nei confronti di costoro. Tale valutazione non può quindi essere effettuata in “astratto”, ma deve tener conto delle caratteristiche del caso specifico.

Certamente, le presunzioni semplici o di origine giurisprudenziale, in quanto non previste da alcuna disposizione di legge come quella in esame, si configurano come particolarmente aggressive con riferimento alla distribuzione occulta ai soci di utili sottratti a imposizione da parte di società a ristretta base.

Come efficacemente illustrato dalla dottrina, la presunzione in argomento appartiene al novero delle «presunzioni nate nella pratica applicazione del giudice» le quali «hanno finito per consolidarsi nella giurisprudenza, fino a costituire vere e proprie presunzioni giurisprudenziali, che, in alcuni casi, sembrano proporre soluzioni contrastanti con scelte sistematiche del legislatore»[7]; ne deriva, secondo la medesima dottrina, che la presunzione in oggetto «nata come una presunzione semplice si è trasformata in una presunzione che, in tutto e per tutto, funziona alla stregua di una presunzione legale con un esito imposto, ossia senza alcun libero apprezzamento del giudice, salvo solo la prova contraria a carico del contribuente».

Nel tempo, poi, la stessa avrebbe pericolosamente, nota autorevole critica dottrina «mutato pelle e contenuto, irrigidendosi sempre più e trasformandosi in una vera e propria presunzione de facto assoluta, in quanto, sempre de facto, pressoché invincibile»[8].

Il principio ridetto assume quindi come dato di comune esperienza, così come si scrive nella pronuncia in commento, il fatto che gli utili extrabilancio prodotti da una società partecipata da un numero limitato di soggetti, anziché essere reinvestiti o accantonati, vengano immediatamente distribuiti ai soci.

«Essere socio di una società di capitali con compagine sociale ristretta significa quindi trovarsi in una situazione oggettiva, che è giuridicamente rilevante perché, anche senza voler ipotizzare analogie con la sfera dell’illiceità parlando di “complicità” in senso tecnico, lo scarso numero dei soci si converte nel dato qualitativo della maggior conoscibilità degli affari societari. La giuridicità di tale situazione oggettiva si esprime attraverso la sottoposizione del socio all’onere di conoscere»[9].

È infatti costantemente ripetuto dalla giurisprudenza che la ristrettezza dell’assetto societario implica, normalmente, un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, nonché un elevato grado, da parte loro, di compartecipazione e di conoscenza degli affari sociali[10]: tale conoscenza ricomprende quindi anche sia la percezione a livello societario, sia la concorde ripartizione a livello dei singoli soci del reddito sottratto a imposizione.

Più di recente, fermo restando che la presunzione in esame è stata sempre ancora messa in relazione al principio per cui il socio di società a ristretta base societaria ha l’onere di conoscenza e di controllo degli affari sociali, si è detto che tale soggetto si può difendere efficacemente soltanto dimostrando che la conoscibilità gli era stata resa impossibile da fattori straordinari, dando prova quindi delle iniziative che aveva intrapreso per sopperire a tale situazione, nonché, qualora volesse addurre la propria estraneità alla gestione sociale, di dimostrare la propria estraneità e la mancanza di ingerenza nella conduzione societaria attraverso una attività concreta di dissociazione[11] o comunque di non coinvolgimento nella gestione diretta e personale degli affari societari.

Certo può sostenersi – e si è sostenuto – che la maggiore conoscibilità degli affari societari non implica la loro effettiva conoscenza de facto: è ben possibile che alcuni soci possano comunque in concreto essere estranei alla gestione di detti affari, perché non interessati o perché esclusi intenzionalmente dagli altri partecipanti alla compagine sociale per le più varie, commendevoli o meno che siano, ragioni.

Si tratta in concreto di un rischio non del tutto eliminabile, per costoro, in forza di un principio paragonabile dal punto di vista logico al dettato cuius commoda eius et incommoda, che discende dall’esercitare, sia pure mediatamente per mezzo della società, una attività economica.

Altra immediata obiezione che può formularsi, in ordine al meccanismo presuntivo che ci occupa, è quella relativa al disconoscimento della maggiore conoscibilità degli affari societari come attendibile indicatore dell’effettiva conoscenza da parte di tutti i soci dell’utile extrabilancio, specificamente in ordine alle scelte relative alla sua destinazione.

In altre parole, il fatto che tutti i soci sappiano o non possano non sapere dell’esistenza dell’utile extrabilancio e partecipino alle scelte relative alla sua destinazione, non implica ex se che esso sia, in quel determinato caso oggetto di accertamento, sempre e solo devoluto ai soci stessi anziché al rafforzamento dell’impresa mediante accantonamento e/o reinvestimento. In questo caso, l’evasione perpetrata sarebbe unicamente quella a livello societario, non ripetendosi la sottrazione a imposizione a livello dei singoli soci: costoro non verrebbero allora in concreto a realizzare il presupposto del possesso di reddito, ai fini della imposizione personale di ciascuno ai fini IRPEF.

Resta però generalmente plausibile che l’utile extrabilancio, proprio come l’utile di bilancio (questo secondo transitato regolarmente prima nelle scritture contabili, quindi nel bilancio, in ultimo nella dichiarazione reddituale e IVA) sia suscettibile di distribuzione ai soci, sicché resta da esaminare in concreto la plausibilità di una presunzione che ne vuole la distribuzione nello stesso esercizio in cui è conseguito dalla società.

Ritengo che un approccio scevro da pregiudizi debba partire dalla considerazione secondo la quale non può affermarsi in esordio la valenza generalizzata della presunzione nei confronti di tutte le società a ristretta base partecipativa, e neppure nei confronti di tutti i soci, sempre e comunque.

Si tratta di una regola di esperienza non sempre grave e precisa, in primo luogo, in termini di id quod plerumque accidit.

La gestione di tale tipologia di società a ristretta base è non di rado, specialmente ove i rapporti tra i soci sono di famigliarità o stabile convivenza come avviene tra marito e moglie, tra genitori e figli o tra fratelli o ancora tra partners conviventi, sostanzialmente esclusiva di un socio “tiranno” o comunque del tutto predominante che agisce gestendo la società come una sorta di “propria” impresa individuale.

In tali casi, l’art. 116 c.p.c., che rimette pur sempre al giudice del merito la valutazione in concreto delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.[12] dovrà prendere in esame tale circostanza relativa alle concrete modalità di governo della società per verificare se risulti plausibile prima e provato poi che la destinazione dell’utile extrabilancio sia stata effettivamente indirizzata dalla compagine sociale – per così dire – “democraticamente”, quindi con la partecipazione di tutti o quasi tutti alla sua spartizione, oppure “autoritativamente”, cioè secondo la regole di gestione ordinarie della società, vale a dire la sola volontà del soggetto o dei soggetti (spesso ovviamente l’amministratore o gli amministratori) che materialmente in concreto dirigono l’andamento quotidiano degli affari societari.

3. Si deve ricordare che in linea generale la prevalente dottrina ritiene che nel processo tributario trovi applicazione, quanto ai principi che governano la ripartizione dell’onere della prova, l’art. 2697 c.c.[13].

Va peraltro non dimenticata la distinzione tra posizione formale e posizione sostanziale assunta dalle parti nel processo tributario, processo di natura impugnatoria nel quale però parte sostanziale è l’Ufficio quanto alla prova dei fatti costituitivi della pretesa azionata con l’atto; il contribuente viene quindi onerato della prova dei fatti modificativi ed estintivi della pretesa in argomento.

È quindi l’Ufficio onerato in via generale di provare i fatti costitutivi della pretesa. Tale prova può peraltro essere fornita non solo per mezzo di elementi di prova diretta, ma anche per mezzo di elementi probatori presuntivi.

Spesso il legislatore viene incontro alle difficoltà dimostrative che l’Ufficio altrimenti incontrerebbe, stabilendo a favore dell’Amministrazione finanziaria specifiche presunzioni juris tantum (con salvezza, quindi, della prova contraria del contribuente) da essa utilizzabili in sede accertativa: si pensi, tra molte altre, alla presunzione di cessione e di acquisto ex art. 53 D.P.R. n. 633/1972; alla presunzione della natura di ricavi dei prelevamenti annotati nei conti bancari e non risultanti dalle scritture contabili ex art. 32, comma 1, n. 2), D.P.R. n. 600/1973; alla presunzione di cessione di azienda ex art. 15, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 131/1986; alla presunzione di trasferimento delle accessioni nel caso di trasferimento immobiliare ex art. 24 D.P.R. n. 131/1986.

In detti casi, posto che si tratta di presunzioni relative ex art. 2727 c.c. come tali appartenenti al campo delle prove, si viene a configurare un’inversione dell’onere probatorio a favore dell’Ufficio o, più esattamente, un alleggerimento dell’onere della prova che in capo ad esso grava, come sempre avviene, nel senso che quest’ultimo può assolvere il proprio onere di prova tramite le presunzioni dette, mentre tocca al contribuente l’onere di controprova[14]. In difetto dell’adempimento di detto ultimo onere, sarà ritenuta provata la pretesa sorretta dagli elementi indiziari.

Centrale ai fini della comprensione e della valutazione del concreto operare del meccanismo presuntivo è allora l’individuazione del fatto noto.

Per giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità, fino all’entrata in vigore della legge delega n. 111/2023 sulla quale si tornerà, il «fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci». D’altro canto, la medesima Corte di Cassazione si è attestata sul convincimento che il socio, per sottrarsi all’operatività della regola, debba dimostrare che i “maggiori utili extracontabili” societari siano stati “accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti”[15], con ciò separando concettualmente e giuridicamente il fatto noto – che va provato dall’Ufficio – con la controprova – che va fornita dal contribuente.

Dall’esame della casistica giurisprudenziale si trova chiara conferma a tale affermazione nella maggior parte dei casi: quando una società è costituita da pochi soci, questi sono legati per l’appunto da rapporti familiari ma ai fini dell’operatività della presunzione in oggetto, come si evince dalle motivazioni rese dalla giurisprudenza di legittimità, ciò che rileva non è il legame di parentela, ma solo la ristretta base partecipativa[16].

Tale ultimo elemento di fatto risulta di semplice accertamento.

L’essere la società partecipata da un numero ristretto di soci è fatto rilevabile alla luce delle iscrizioni a registro delle imprese, in modo senza dubbio oggettivo e incontestabile. La partecipazione ristretta alla compagine sociale consente anche di avere precisa contezza della misura in cui ciascun socio partecipa al capitale sociale. Essendo tale la modalità di divisione dell’utile societario ottenuto previa sottoposizione del medesimo alle imposte, assume una sua dignità logica l’affermazione secondo la quale secondo la medesima misura – sia pure con modalità occulte al Fisco – si è tra i soci suddiviso l’utile sottratto a imposizione, quindi, anch’ esso si presume ripartito tra i detti soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale[17].

Ora è ben vero che tale meccanismo onera l’Ufficio di dimostrare solo – in realtà – non uno ma due fatti, vale a dire la ristrettezza della partecipazione societaria e l’esistenza dell’accertamento societario: è altrettanto vero, peraltro, che si tratta di elementi dotati di una loro robustezza probatoria, da un lato, e per nulla sfuggenti nel loro contenuto.

Nondimeno, va sottolineata una netta differenza tra i due.

Se il primo costituisce fatto noto ai fini dell’applicazione del meccanismo presuntivo, il secondo è mero antecedente logico-giuridico, che al limite può assumere natura puramente indiziaria, non di prova diretta della sottrazione a imposizione dell’utile extrabilancio da parte dei soci.

Se infatti può rilevarsi la essenzialità dei fatti sopradetti, che possono dedursi e introdursi nel processo il primo semplicemente in forza delle verifiche a registro imprese e il secondo in forza della allegazione agli atti di causa dell’avviso di accertamento societario, d’altro canto è indubitabile che la vis probatoria di elementi presuntivi va valutata con riferimento al loro concreto contenuto, non certo con riguardo al numero degli elementi dedotti. È infatti ben possibile che alcuni elementi presuntivi abbiano una vis probatoria ridotta o poco significativa, mentre altri elementi risultino ben più convincenti un quanto dotati nel complesso di gravità, precisione e concordanza assai rilevante ai fini della prova del fatto ignoto.

Sommessamente, ritengo che nel meccanismo presuntivo che ci occupa il fatto noto risieda – ed è questo l’elemento di forza della presunzione in argomento – unicamente e solamente nella ristrettezza della base societaria: tale esso si rivela proprio per la sua oggettiva determinazione, che è scevra da ogni valutazione differente dal mero riscontro, positivo o negativo, della sua esistenza.

Diversamente, l’esistenza dell’accertamento societario “a monte”, per quanto tutt’altro che irrilevante, viene in rilievo quale elemento indiziario, ulteriore ma e secondario – o per meglio dire mero antecedente logico-giuridico, come si esprime parte della giurisprudenza di legittimità con appropriatezza che condivido[18] – dovendo la sua oggettività esser valutata caso per caso come sussistente o meno.

In questo tale elemento è diverso dal fatto noto per così dire fondante, la cui oggettività o lo rende sussistente, quindi idoneo a ritenere acquisita o non acquisita, nella complessiva valutazione del materiale probatorio in atti, la prova del fatto noto (l’evasione a livello dei soci).

In armonia con questa considerazione, la Corte di legittimità ha precisato[19] come in tema di redditi da partecipazione in società di capitali a base ristretta, ogni qual volta vi sia pendenza separata dei giudizi relativi all’accertamento del maggior reddito contestato alla società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio si impone la sospensione ex art. 295 c.p.c. – applicabile al giudizio tributario in forza dell’art. 1 D.Lgs. n. 546/1992 – in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società; tale sentenza, con l’accertamento ivi oggetto di giudizio, costituisce appunto l’antecedente logico-giuridico non solo nelle ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili ma in tutti i casi di contestazione rivolti alla compagine sociale relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.

Deve infatti ritenersi che la presunzione in argomento operi – sino alle recenti modifiche normative di cui oltre si dirà – sia nel caso dell’accertamento di maggiori ricavi occulti sia in quello di costi fittizi da operazioni inesistenti, dal momento che ciò che rileva è la rideterminazione in misura maggiore del reddito societario dichiarato, indipendentemente dalle ragioni che sostengono tale operazione. In tale seconda ridetta ipotesi, il costo riportato in dichiarazione corrisponderebbe, infatti, al denaro rimasto nella disponibilità dell’impresa che ben potrebbe essere illecitamente ripartito tra i soci. Analogamente, uguale conclusione si raggiunge nel caso di disconoscimento di costi indeducibili che, alterando l’utile fiscale per la indebita deduzione di costi effettivamente sostenuti, comportano, comunque, un maggiore reddito d’impresa rispetto a quello dichiarato, distribuibile poi tra i soci nel corso dell’esercizio considerato[20].

Non pare qui convincente l’obiezione di parte della dottrina[21] secondo la quale «tale ultima impostazione non appare, però, affatto condivisibile, se solo si considera che la nozione di reddito fiscale imponibile non coincide necessariamente con quella di utile finanziario distribuibile. Il reddito imponibile, infatti, è correlato alle regole di determinazione del reddito d’impresa e alle variazioni da apportare al risultato del conto economico che si contrappone al concetto di utile civilisticamente inteso, caratterizzato da effettiva liquidità a disposizione dell’impresa». L’osservazione è infatti basata su una determinazione dell’utile in forza delle regole del TUIR, che qui non può trovare applicazione poiché quanto sottratto a imposizione non transita per il bilancio perché non viene rilevato dalle scritture contabili, essendo appunto sottratto a imposizione.

Quanto appena riferito consente di porre nella corretta luce le vicende relative all’accertamento operato “a monte” dell’accertamento in capo ai soci: l’accertamento societario, sotto questo profilo, risulta, come si è detto, un antecedente logico – giuridico ulteriore; esso, quindi, non è elemento noto (nel senso quindi di elemento certo) ma è elemento munito di valore probatorio puramente indiziario, distinto e autonomo rispetto al fatto certo operante nel ragionamento presuntivo.

Tale antecedente può in concreto declinarsi nelle varie forme che può assumere l’accertamento operato in capo alla società, sia per quanto concerne la tipologia di accertamento in senso stretto (analitico induttivo, induttivo, ecc.) sia per quanto concerne il contenuto delle contestazioni mosse dall’Ufficio e ancora sia per quanto riguarda la sorte procedimentale o processuale dell’avviso di accertamento diretto alla società partecipata.

Nella giurisprudenza di legittimità[22] – pure tutt’altro che concorde e stabile, sino almeno alla pronuncia che si annota – si è chiarito a più riprese come l’accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa legittimi, anche nell’ipotesi di accertamento con adesione, la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e pertanto prescinde dalle modalità di accertamento, ferma restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria dimostrando che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti.

E alla luce di tali considerazioni va interpretata, secondo chi scrive, la disposizione contenuta nella legge delega n. 111/2023, secondo la quale per evitare l’abuso della presunzione di distribuzione di utili nelle società a ristretta base partecipativa, si prevede all’art. 17, lett. h), n. 4), «la limitazione della possibilità di presumere la distribuzione ai soci del reddito accertato nei riguardi delle società di capitali a ristretta base partecipativa ai soli casi in cui è accertata, sulla base di elementi certi e precisi, l’esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti, ferma restando la medesima natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci».

Risulta qui confermata dalla lettera della legge, la natura anche presuntiva del contenuto dell’accertamento societario che consente il ribaltamento delle risultanze accertative in capo ai soci: in primo luogo gli elementi presuntivi sin qui utilizzati sono sicuramente certi e precisi, non potendosi ammettere presunzioni che non siano rispettosi dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.

In secondo luogo, l’accertamento societario potrà avere ad oggetto sia la rideterminazione di maggiori elementi positivi, facendo emergere ricavi non dichiarati, sia la rideterminazione di minori componenti negativi, fondandosi sul ridimensionamento dei costi, per qualsiasi ragione fondante il loro disconoscimento.

Innovativa è invece la qualificazione del maggior reddito accertato in capo ai soci, che viene qualificato come reddito finanziario, risultando quindi esclusa la natura di reddito di impresa sin qui attribuitagli dalla giurisprudenza.

In precedenza, anteriormente alla riforma del 2023, il beneficio dell’esenzione parziale operava con riguardo all’imposizione degli utili societari, come ha illustrato la Corte[23] di legittimità «unicamente nel caso in cui, come questa Corte ha più volte sottolineato, si fa riferimento ai soli redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile, di talché l’atipicità era riferita solo alla nomenclatura attribuita agli stessi dalla società, ma rimaneva condizionata al positivo riscontro della loro effettiva maturazione per effetto dell’inserimento in bilancio[24] per i redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile e non per gli utili extrabilancio; tali utili una volta accertati per altra via, vanno imputati e quindi sottoposti a imposizione in misura ordinaria quindi intera e non ridotta»[25].

L’innovazione legislativa qualifica ora come reddito “finanziario” il maggior reddito accertato in capo ai soci, con ciò derivandone – pare potersi dire – l’esclusione dello stesso dalla diversa categoria di reddito di impresa e la determinazione dello stesso ex art. 44 TUIR con l’applicazione, riguardo la determinazione nel quantum, delle relative regole, peraltro non uniche né univoche.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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[1] Ex plurimis, Cass. n. 18032/2013, Cass. n. 24534/2017, Cass. n. 29412/2017, Cass. n. 32959/2018, tutte citate in motivazione.

[2] Così hanno ritenuto Cass., sez. V, ord. 7 giugno 2024, n. 15991; Cass., sez. VI-V, ord.4 marzo 2022, n. 7170; Cass., sez. V, ord. 15 settembre 2021, n. 24870; Cass., sez. V, ord. 1° dicembre 2020, n. 27445; Cass., sez. V, ord. 24 luglio 2020, n. 15895; Cass., sez. VI-V, ord. 9 luglio 2018, n. 18042; Cass., sez. V, sent. 14 luglio 2017, n. 17461; Cass., sez. VI-V, ord. 22 dicembre 2016, n. 26873; Cass., sez. VI-V, ordinanza 2 febbraio 2016, n. 1932, sempre ricordate in motivazione.

[3] Perrone A., Perché non convince la presunzione di distribuzione di utili ‘occulti’ nelle società di capitali a ristretta base proprietaria, in Riv. dir. trib., 2014, 5, 575 ss.; Marcheselli A., La presunzione di distribuzione degli utili societari delle c.d. società a ristretta base, tra induzioni ragionevoli e abnormità istruttorie, in Riv. giur. trib., 2016, 1, 88 ss.

[4] Si vedano Cass. civ. n. 941/1986; Cass. civ. n. 2870/1990. Circa la necessità dell’esistenza del vincolo familiare al fine di giustificare razionalmente la presunzione in esame, si legga Bartolazzi Menchetti E.M., ‘Multilivello’ la presunzione di distribuzione degli utili nelle società a ristretta base partecipativa, nota a Cass. civ. n. 13841/2021, in Tax News, 10 febbraio 2023.

[5] Lovisolo A., Limiti della presunzione e distribuzione di utili nelle società a ristretta base azionaria, in Dir. prat. trib., 1971, II, 543 ss.

[6] Schiavolin R., La giurisprudenza sulla distribuzione presunta degli utili di società di capitali a base ristretta si allontana sempre più dai dati normativi, in Dir. prat. trib., 2023, 4, 1246.

[7] Tinelli G., Diritto processuale tributario, Padova, 2021, 218; Carinci A. – Rossetti S., Distribuzione di utili in nero ai soci di società a ristretta base partecipativa: presunzione o regime di tassazione?, in il fisco, 2021, 1, 2707 ss.; in argomento anche Vanz G., Criticità nell’applicazione in ambito tributario della regola giurisprudenziale della “vicinanza della prova”, in Dir. prat. trib., 2021, 6, 2586.

[8] Contrino A., Ancora sulla presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società di capitali “a ristretta base proprietaria”, in Rass. trib., 2013, 5, 113 ss.

[9] Così Cass., sez. trib., 29 gennaio 2008, n. 1906.

[10] Cass. civ. n. 6780/2003; Cass. civ. n. 18640/2008; Cass. civ. n. 5076/2011; Cass. civ. n. 18032/2013; Cass. civ. n. 24572/2014; Cass. civ., 2 febbraio 2021, n. 2224; Cass. civ., 20 marzo 2000, n. 3254; Cass. civ., 2 febbraio 2016, n. 1932; Cass. civ., 24 luglio 2009, n. 17358. Secondo Cass. civ., 29 luglio 2016, n. 15828 la ristrettezza dell’assetto societario normalmente implica un vincolo di solidarietà e di “reciproco controllo” dei soci nella gestione sociale e un elevato grado di compartecipazione e di conoscenza degli affari sociali.

[11] Cass., sez. trib., 3 giugno 2021, n. 15393.

[12] Locatelli G., La presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili delle società di capitali a ristretta base partecipativa, in Corr. trib., 2018, 38, 2914 ss.

[13] Attribuisce all’Amministrazione finanziaria la veste di attrice in senso sostanziale, Comoglio L.P., Profili processuali e rilevanza processuale dell’avviso di accertamento, in Riv. not., 1984, II, pag. 166; Tinelli G., Prova (dir. trib.), in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, 5.

[14] Secondo quanto osservato in generale sulle presunzioni relative dalla dottrina processual-civilista: da ultimo Taruffo M., Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. dir. proc. civ., 1992, I, 733 ss.

[15] Ex multis, Cass., 15 maggio 2003, n. 7564; Cass., 22 aprile 2009, n. 9519; Cass., sez. trib., 2 marzo 2011, n. 5076; Cass., sez. trib., ord. 18 ottobre 2012, n. 17928; Cass., 26 novembre2014, n. 25108; Cass., sez. VI, ord. 14 dicembre 2016, n. 25808; Cass., ord. 9 marzo 2016, n. 4656; Cass., ord. 23 febbraio 2016, n. 3535; Cass., sez. trib., 29 luglio 2016, n. 15824; Cass., 25 maggio 2016, n. 10793; Cass., sez. VI, ord. 11 aprile 2016, n. 7103; Cass., 18 ottobre 2017, n. 24534; Cass., sez. VI, ord. 23 marzo 2017, n. 7592; Cass., ord. 9 luglio 2018, n. 18042; Cass., sez. trib., ord. 29 gennaio 2020, n. 1970; Cass., sez. VI, ord. 14 febbraio 2020, n. 3735; Cass., ord. 22 aprile 2021, n. 10732); si veda sul punto Locatelli G., La presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili della società di capitali a ristretta base partecipativa, cit.; De Petris G., La presunzione di distribuzione di utili extracontabili nelle società a ristretta base sociale: attuali e future difficoltà per il socio/contribuente, in Riv. Dott. Comm., 2021, 4, 680 ss.

[16] Si rimanda a Cass., sez. V, 12 novembre 2012, n. 19680; Cass., sez. V, 4 maggio 2021, n. 11599.

[17] Su questo tema, si segnalano in dottrina i contributi di Marino T., Le società di capitali a base azionaria ristretta o familiare e la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori ricavi accertati, in Boll. trib., 1998, 623 ss.; Paparella F., La presunzione di distribuzione degli utili nelle società di capitali a ristretta base azionaria, in Dir. prat. trib., 1995, II, 453 ss.; Della Valle E., Presunzione di riparto di utili occulti nelle società a ristretta base azionaria, in Le Società, 1991, 826; Beghin M., L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a “ristretta base” tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni, in GT – Riv. giur. trib., 2004, 5, 433 ss.; Contrino A., Ancora sulla presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società di capitali “a ristretta base proprietaria”, cit.; Stevanato D., La presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito societario, in Corr. trib., 2004, 13, 1009 ss.

[18] Cass. civ., 23 maggio 2019, n. 13989; Cass. civ., 22 giugno 2021, n. 17696; Cass. civ., 28 dicembre 2017, n. 31043.

[19] Cass., sez. V, ord. 26 gennaio 2021, n. 1574.

[20] Cass. civ., sez. V, 2 febbraio 2021, n. 2224.

[21] Garganese F. – Falcone C.M., Presunzione di distribuzione degli utili di società di capitali a ristretta base e nuovo riparto dell’onere della prova, in Corr. trib., 2024, 1, 77 ss.

[22] Cass., sez. V., ord. 20 dicembre 2018, n. 32959.

[23] In argomento Cass., sent. n. 2752/2024 che conferma le indicazioni interpretative espresse da Cass., sez. VI-V, ord. n. 35293/2022.

[24] Cass. n. 8730/2021.

[25] Cass. n. 9137/2021.

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