RECENTISSIME DALLA CORTE COSTITUZIONALE – Corte costituzionale, sent. 27 marzo 2025, n. 36 – Sulla (parziale) illegittimità costituzionale del nuovo divieto di nova in appello nel processo tributario

Di Lucrezia Caramia -

Le questioni di legittimità costituzionale (*)

La Corte costituzionale, con sentenza 27 marzo 2025, n. 36 si è pronunciata su due questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 58, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992 come introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023 – in attuazione della delega di riforma del sistema fiscale di cui alla L. n. 111/2023 – sollevate dalla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia, rispettivamente con le ordinanze del 9 luglio 2024 e del 27 settembre 2024. I giudici rimettenti dubitavano della legittimità costituzionale di tale disposizione paventandone il contrasto con gli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 102, comma 1 e 111, commi 1 e 2 della Carta costituzionale. Più nel dettaglio, la disposizione censurata, introducendo un divieto probatorio “assoluto”, impedirebbe al giudice di appello la valutazione di “indispensabilità” prevista dal novellato comma 1 dell’art. 58 in relazione a determinate tipologie di documenti “predeterminati” dal legislatore, così travalicando i limiti della pur ampia discrezionalità a lui riservata, intervenendo, di fatto, in un ambito riservato all’Autorità giurisdizionale. La nuova norma, inoltre, sembrerebbe vulnerare il contraddittorio minando la garanzia della parità tra le parti del processo e il conseguente diritto di difesa.

La Consulta ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui vieta «il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti».

Ad avviso dei giudici remittenti, anche la disciplina transitoria che prevede l’applicazione della novella ai giudizi instaurati in grado di appello a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore sarebbe “indubbiamente irrazionale”, lesiva del legittimo affidamento dei cittadini, in evidente contrasto con gli artt. 3 e 111 della Carta costituzionale. Con la medesima pronuncia, la Corte ha dunque ritenuto costituzionalmente illegittimo tale disposizione ritenendo ben superato il limite della ragionevolezza da parte del legislatore italiano laddove ha esteso gli effetti della nuova disposizione processuale a situazioni giuridiche già maturate nel previgente assetto normativo, determinando conseguenze non dissimili da quelle della c.d. retroattività impropria.

Il (tentativo) di dialogo

1. Le vicende da cui originano le ordinanze di rimessione presentano aspetti comuni: nel primo caso il contribuente impugnava in primo grado una intimazione di pagamento fondata su sei cartelle di pagamento relative a diversi tributi, eccependo diversi profili di illegittimità, tra i quali l’omessa notificazione degli atti ad essa presupposti. I giudici di prime cure accoglievano il ricorso solo con riferimento al difetto di notificazione di due delle sei cartelle di pagamento considerate. Giunti in appello, l’Agenzia delle entrate-Riscossione produceva ulteriori documenti volti a dimostrare l’avvenuta notifica delle cartelle poste a fondamento dell’ingiunzione. Sicché, il contribuente eccepiva l’irritualità di tale deposito in ossequio al nuovo disposto normativo di cui all’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992.

Similmente, nel secondo caso, il contribuente ricorreva avverso una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria contestando la mancata notificazione di cinque cartelle di pagamento richiamate nell’atto impugnato; la sentenza di primo grado accoglieva il ricorso, in quanto, a fronte della tardiva costituzione dell’ente resistente, i Giudici non avevano potuto considerare i documenti dalla stessa depositati. Dopo aver appellato la decisione, l’Agenzia delle entrate-Riscossione, produceva nuovamente i documenti depositati in primo grado.

Ambedue i giudizi di primo grado venivano promossi nella vigenza della formulazione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992 anteriore alle modifiche allo stesso apportate dall’art. 1, comma 1, lett. bb), D.Lgs. n. 220/2023. Tuttavia, i giudizi di appello, incardinati dopo l’entrata in vigore della novella, soggiacciono, considerata la disciplina transitoria di cui all’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 229/2023 che prevede l’immediata applicabilità ai giudizi in corso, ai nuovi divieti probatori. Ad avviso dei giudici rimettenti, infatti, l’inequivoco tenore letterale della norma impedisce una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.

2. Investita della questione, la Consulta avvia il suo percorso argomentativo ripercorrendo l’evoluzione del quadro normativo relativo ai “nova” in appello: l’originaria versione dell’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992 sanciva l’impossibilità per il giudice di disporre nuove prove, salvo che non le ritenesse «necessarie ai fini della decisione» o che la parte dimostrasse «di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile». La disposizione legislativa soggiungeva, al secondo comma, che era «fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti».

Preliminarmente, nonostante la coincidenza della littera legis con quanto previsto dall’art. 345, comma 3, c.p.c., la Corte evidenzia la sostanziale diversità esistente tra le due discipline; alla luce del principio di specialità fatto salvo dall’art. 1 D.Lgs. n. 546/1992, non poteva trasferirsi tout court l’esegesi, in tema di produzione di documenti in appello, della disposizione processualcivilistica la quale fissa sul piano generale il principio dell’inammissibilità dei “nuovi mezzi di prova” e, quindi, anche delle produzioni documentali. Nel processo tributario, com’è noto, l’art. 58 D.Lgs. n. 546/1992, oltre a consentire al giudice d’appello la possibilità di disporre “nuove prove” in due specifici casi, faceva espressamente salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti. Il generale divieto di cui all’art. 58, quindi, subiva un duplice temperamento: la prima ipotesi prevista (tuttora) dalla norma costituisce, a ben guardare, un’applicazione del generale concetto di rimessione in termini (cfr. art. 153, comma 2, c.p.c.) qualora la parte dimostri di non aver potuto fornire le prove (che non sembrano risultare “necessarie” ma semplicemente “rilevanti” ai fini della soluzione della controversia) nel grado precedente del giudizio per causa ad essa non imputabile.

La seconda ipotesi era quella relativa alle prove «necessarie ai fini della decisione». Sul punto, parte della dottrina ha ritenuto significativa la diversità terminologica di “necessarietà della nuova prova” valevole in materia tributaria rispetto a quella di ‘indispensabilità’ della stessa più propriamente civilistica (cfr. Sandulli P. – Socci A., Manuale del nuovo processo tributario, Bologna, 1997). Dottrina maggioritaria ha invece sostenuto la sostanziale equivalenza dei due termini, riportando e condividendo le medesime incertezze che hanno caratterizzato, seppure nella fase iniziale, l’applicazione dell’analoga disposizione recata dall’art. 437 c.p.c. concernente il regime delle facoltà istruttorie nel secondo grado del processo del lavoro e manifestatesi successivamente anche in relazione all’art. 345, comma 3, c.p.c. A tal proposito, non essendo questa la sede per approfondire i diversi orientamenti spiccati circa l’individuazione effettiva delle prove che, benché nuove, potevano essere ammesse in appello, si riporta il prevalente orientamento che ha ritenuto necessaria l’ammissione di nuovi mezzi istruttori in appello soltanto nelle residuali ipotesi in cui «in loro difetto risulti impossibile accertare simili fatti» (così, Russo P., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 272-273; per un’ampia casistica si rinvia a Bianchi L., Commento all’art. 58 D. Lgs. n. 546/1992, in Consolo C. – Glendi C., a cura di, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2008, 633 ss.).

L’eccezione più consistente al divieto di nuove prove era tuttavia stabilita dal secondo comma dell’art. 58, secondo cui era fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti: alla luce delle limitazioni poste dall’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 in relazione all’utilizzo di altri mezzi probatori, non sorprende la rilevanza della prova documentale nell’ambito del contenzioso tributario (non essendo questa la sede per approfondire il tema generale dei mezzi di prova nel processo tributario, si rammenta al lettore la modifica dell’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992 ad opera dell’art. 4 L. 16 settembre 2022, n. 130 il quale, nella sua nuova formulazione, introduce la prova testimoniale nel processo tributario. Resta fermo il divieto di giuramento). La libertà concessa alle parti nell’esercizio di tale facoltà non era, a ben guardare, assoluta. Per una corretta interpretazione della norma, infatti, occorreva tenere in debita considerazione le precise limitazioni derivanti da previsioni normative disseminate nel D.Lgs. n. 546/1992: in ottemperanza a quanto prescritto dall’art. 57, i nuovi documenti dovevano costituire il supporto probatorio delle domande e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e già avanzate da ciascuna delle parti nel primo grado di giudizio (Russo P. – Coli F. – Mercuri G., Diritto processuale tributario, Milano, 2024, 265). L’ulteriore ipotesi in cui non trovava applicazione il secondo comma dell’art. 58 concerneva il giudizio di appello a seguito di rinvio. L’art. 63 D.Lgs. n. 546/1992, al terzo comma, difatti, specifica che «le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza cassata e non possono formulare richieste diverse da quelle prese in tale procedimento, salvi gli adeguamenti imposti dalla sentenza di cassazione». La riassunzione della causa che segue alla sentenza di rinvio della Corte di Cassazione instaura un ‘processo chiuso’ (cfr. Gianoncelli S., Il divieto di jus novorum in appello, in Tesauro F., a cura di, Codice commentato del processo tributario, Milano, 2016, 819), in cui è preclusa alle parti ogni possibilità di proposizione di nuovi elementi, siano essi domande, eccezioni nonché istanze probatorie (cfr. Cass., n. 4096/2007; Cass., n. 15952/2006).

Del resto, la Corte costituzionale aveva ritenuto legittimo l’art. 58, nella formulazione previgente, sul presupposto che «la previsione che un’attività probatoria, rimasta preclusa nel giudizio di primo grado, possa essere esperita in appello non è di per sé irragionevole, poiché il regime delle preclusioni in tema di attività probatoria mira a scongiurare che i tempi della sua effettuazione siano procrastinati per prolungare il giudizio, mentre la previsione della producibilità in secondo grado costituisce un temperamento disposto dal legislatore sulla base di una scelta discrezionale, come tale insindacabile» (cfr. Corte cost., sent. 14 luglio 2017, n. 199 del).

3. Un aspetto non direttamente affrontato dalla sentenza in rassegna ma strettamente collegato alle presenti riflessioni, riguarda il rapporto tra motivazione dell’atto di accertamento e oggetto del processo tributario. Una simile giustapposizione appare immediatamente comprensibile se si evidenziano le modifiche apportate, in attuazione della riforma, all’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.

L’attuale formulazione della norma prevede espressamente, al comma 1, che ogni provvedimento impugnabile deve essere motivato con l’indicazione delle prove a suo fondamento, per poi specificare, al comma 1-bis, che tali fatti e tali mezzi di prova non possono essere «successivamente modificati, integrati e sostituiti se non attraverso l’adozione di un ulteriore atto». Invero, come rilevato da attenta dottrina, una motivazione che conduca alla identificazione delle fonti di prova utilizzate a suo fondamento appare necessaria oltre che conforme ad un assetto procedimentale che riconosce al provvedimento impositivo una efficacia costitutiva provvisoriamente esecutiva (così, Marcheselli A., Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 2025, 1 e pubblicato online il 5 gennaio 2025, www.rivistadirittotributario.it).

Quanto appena chiarito risulta estremamente rilevante se ci si sposta sul piano dei poteri riservati al giudice tributario che decide, in osservanza del principio dispositivo di cui agli artt. 99 c.p.c. e 2907 c.c., la legittimità della pretesa per come è “esposta” nella motivazione del provvedimento di accertamento, nei limiti di quanto eccepito con i motivi di ricorso del contribuente. In una seconda e complementare accezione, il principio dispositivo, attribuisce alle parti il monopolio sulle fonti di prova dei fatti medesimi in virtù del cosiddetto onere di allegazione (v. Paparella F., Lezioni di diritto tributario, Milano, 2021, 386 ss). Il coordinamento di tali regole, procedimentali e processuali, impone all’Amministrazione finanziaria (non solo) di selezionare i fatti che intende sottoporre all’esame del giudice (ma anche) di dimostrare l’esistenza degli stessi, individuando nella motivazione dell’atto i relativi mezzi di prova. Pertanto, in giudizio, le sarà concesso esclusivamente “emendare” il fondamento dell’atto, nei limiti dei fatti e delle prove già enunciati all’interno della motivazione.

A chiusura (e conferma) del “sistema”, interviene il comma 5-bis dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 come introdotto dalla L. n. 130/2022, laddove prevede che l’Amministrazione finanziaria “prova in giudizio” il fondamento della pretesa. Tale norma non vuole concedere, com’è ovvio, la possibilità di portare “nuove” prove in giudizio a sostegno dei fatti a fondamento della pretesa impositiva; al contrario, intende garantire l’imparzialità del giudice che deve annullare l’atto quando la pretesa non risulti provata in maniera “circostanziata” e “puntuale”.

4. Nel quadro normativo succintamente descritto si innesta la novella introdotta dal D.Lgs. n. 220/2023 in attuazione dell’art. 19, comma 1, lett. d), della legge delega di riforma del sistema fiscale n. 111/2023, secondo cui non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti nell’ottica, secondo la relazione di accompagnamento del medesimo decreto, di un «rafforzamento del divieto di produrre documenti nei gradi successivi al primo»; divieto che, tuttavia – come appena visto – non esisteva. Resta comunque eccezionalmente ferma, secondo la nuova norma, la possibilità per il giudice di secondo grado di acquisire le prove pretermesse nel primo grado, in ragione della loro indispensabilità ai fini della decisione (come previsto dall’art. 345, comma 3, c.p.c. fino alla riforma del D.L. n. 83/2012 e come tuttora prevede l’art. 437, comma 2, c.p.c. – nelle controversie in materia di lavoro – oltreché nel giudizio amministrativo di appello, dall’art. 104, comma 2, c.p.a.), oppure in esito alla dimostrazione della riferibilità della mancanza probatoria a causa non imputabile alla parte appellante.

Da ultimo, interviene il terzo comma del nuovo art. 58 D.Lgs. n. 546/1992, secondo il quale non è mai consentito il deposito di «deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere, nonché di notifiche dell’atto impugnato ovvero di atti che ne costituiscono presupposto di legittimità e che possono essere prodotti in primo grado, anche ai sensi dell’art. 14, comma 6-bis». Stante il carattere perentorio della formulazione legislativa, il divieto di depositare tali atti appare inderogabile.

Tale preclusione, precisa la Corte, concerne due tipologie di documenti di diversa natura e funzione: nella prima parte del periodo, l’ampiezza semantica della terminologia utilizzata dal legislatore comprendente le “deleghe”, le “procure” e gli “altri atti di conferimento di potere” porta ad in includere nella categoria diversi atti tra i quali non solo le deleghe con cui viene attribuito il potere di firma degli atti impositivi e gli atti di conferimento della rappresentanza sostanziale, ma anche quelli «costituenti presupposto della rappresentanza processuale e quelli di designazione del difensore abilitato all’assistenza tecnica in giudizio». Ad avviso della Consulta, tali atti non costituiscono temi di prova soggetti alle ordinarie preclusioni istruttorie «in quanto non attengono al merito della causa, ma alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica e, quindi, alla regolare costituzione del rapporto processuale». Si prenda, ad esempio, il caso della procura, ossia l’atto con cui la parte attribuisce ad uno dei soggetti abilitati ex art. 12 D.Lgs. n. 546/1992, la propria difesa in giudizio investendolo del cosiddetto ius postulandi, ossia il potere di compiere in nome e per conto della parte tutti gli atti processuali, i quali non siano espressamente riservati alla parte. Inibire il deposito in appello di simili atti, pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comporta una ingiustificabile compressione del diritto alla prova quale nucleo essenziale del diritto di difesa e del contraddittorio. Del resto, l’istituto della rimessione in termini di cui all’art. 153, comma 2, c.p.c., è senz’altro applicabile anche al rito tributario, nell’ottica della tutela delle garanzie difensive e dell’attuazione del giusto processo, operando sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali “interni” al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà “esterne” e strumentali al processo, quali l’impugnazione dei provvedimenti sostanziali che sono oggetto delle tutele processuali concesse (cfr. Cass., n. 12544/2015 richiamata in motivazione, nonché Cass., n. 8715/2014, con nota di Marcheselli A., Quando la rimessione in termini salva dalla decadenza nel processo tributario? in Corr. trib., 2014, 7, 1621 ss., n. 21304/2019, n. 4585/2020, n. 17237/2021).

La compressione di tali garanzie costituzionalmente rilevanti, conclude sul punto la Corte, non può ritenersi adeguatamente bilanciata dalle finalità acceleratorie e deflattive che informano il nuovo sistema delle preclusioni probatorie in appello.

Diversamente, nella seconda parte della norma il riferimento è alla notifica dell’atto impugnato e di quelli ad esso presupposto. Ad avviso della Consulta, in questo caso, la scelta del legislatore di vietare il deposito delle notificazioni anche ove risultino indispensabili alla decisione, non contrasta con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, comma 1, Cost., né con il diritto alla prova – ex art. 24, comma 2, Cost., – e al contraddittorio – ex art. 111 Cost. Le notificazioni, infatti, a differenza degli atti appena esaminati, forniscono la prova di una condizione di validità dell’esercizio della funzione impositiva, consentendo, da un lato, la produzione degli effetti degli atti di accertamento ed integrando, dall’altro, un requisito di validità dell’atto consequenziale. Pertanto, la dimostrazione della notificazione contestata è, in tali casi, da sola sufficiente a definire il giudizio. Nel caso dei nova istruttori in appello, specifica la Corte, «la causa non imputabile coincide con un fatto estraneo alla sfera di controllo della parte che rende impossibile la tempestiva deduzione della prova in prime cure». Ai fini della già citata rimessione in termini, infatti, il giudice deve effettuare una valutazione delle circostanze con riferimento al parametro della normale diligenza richiesta nel caso concreto (cfr. Cass. n. 30324/2024). Appare dunque evidente come, quando il giudizio di primo grado venga instaurato per difetto di regolare notifica, l’atto tributario abbia già prodotto i suoi effetti per mezzo della notificazione e sull’Amministrazione ricade l’inderogabile, in quanto tale non procrastinabile, dovere di documentare il procedimento notificatorio.

Invero, proprio la mancata acquisizione della prova della notifica degli atti della riscossione e di quelli ad essi presupposti – come testimoniato, del resto, dalle descritte vicende processuali delle ordinanze di rimessione – ha condotto, nel tempo, ad una proliferazione eccessiva di giudizi. La posizione della Consulta appare coerente, a ben guardare, con quanto già deciso, di recente, con la sentenza n. 190 del 17 ottobre 2023, che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis del d.p.r. n. 602/1973, come modificato dall’art. 3-bis del d.l. n. 146/20211, in quanto investirebbero le scelte discrezionali del legislatore, risolvendosi così in una richiesta di un inaccettabile intervento additivo della Corte. La Consulta, anche in quel caso, rinveniva la ratio della disposizione censurata proprio nella finalità di ridimensionare quell’orientamento giurisprudenziale che, estendendo le occasioni di tutela dinanzi al giudice tributario, ha provocato una proliferazione di giudizi e aveva, di fatto, introdotto le impugnazioni anticipate affermando la contestabilità di atti, normativamente esclusi, e ritenuti impugnabili solo in via interpretativa. Già in quella sede la Corte costituzionale invitava il Governo a dare efficace attuazione ai princìpi e criteri direttivi per la revisione del sistema nazionale della riscossione al fine di superare «la grave vulnerabilità e inefficienza, anche con riferimento al sistema delle notifiche, che ancora affligge il sistema italiano della riscossione», che hanno condotto ad una proliferazione eccessiva di giudizi talvolta, ma non sempre, strumentali, a cui il legislatore del 2021 ha inteso porre rimedio.

Del resto, la soluzione accolta dalla Consulta nella sentenza in rassegna appare condivisibile se si considera, in aggiunta alle considerazioni sinora esposte, l’innovazione tecnologica che ormai innerva ogni fase del procedimento tributario, comprese le notifiche degli atti impositivi. Come attualmente previsto dall’art. 60-ter, D.P.R. n. 600/1973 (introdotto, in attuazione della delega fiscale, dall’art. 1, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 13/2024, in materia di accertamento tributario) l’Amministrazione finanziaria ha la facoltà di notificare a gran parte dei contribuenti (imprese individuali, società, professionisti iscritti ad Albi od elenchi) gli atti di accertamento e di riscossione anche in modalità telematica, tramite posta elettronica certificata (per approfondimenti sull’attuale disciplina cfr. Selicato G., Notifiche e comunicazioni digitali, in Giovannini A., a cura di, La riforma fiscale. I diritti e i procedimenti, vol. III, Pisa, 2024, 29 ss.). La PEC, introdotta nell’ordinamento italiano con D.P.R. n. 68/2005, è una particolare tipologia di posta “digitale” che permette di conferire ad un messaggio di posta elettronica, quanto al momento della spedizione e del ricevimento, il medesimo valore di una raccomandata con avviso di ricevimento tradizionale; la notifica via PEC è infatti in grado di fornire una prova legale dell’avvenuta ricezione del messaggio – e di tutti gli atti ad esso allegato – da parte del destinatario. Più nel dettaglio, la validità della trasmissione del messaggio è attestata rispettivamente dalla ricevuta di accettazione rilasciata dal gestore del mittente e dalla ricevuta di consegna nella casella di posta elettronica certificata rilasciata dal gestore del destinatario, a prescindere dall’avvenuta lettura di questi. In presenza di tali ricevute, dunque, l’atto è perfezionato, oltre che documentato. L’immediatezza delle notifiche via PEC semplifica con ogni evidenza, per la parte pubblica, l’onere di dimostrare, all’occorrenza, la regolarità del procedimento notificatorio.

Ciò non fa altro che avvalorare quanto condivisibilmente sostenuto dalla Corte costituzionale: le notificazioni non possono essere annoverati quali tradizionali “fatti” di un processo necessitante di “prova” (sul concetto di prova cfr. Marcheselli A., Manuale di diritto tributario, Milano, 2024, 249 ss.; Id., La prova nel nuovo processo tributario, Milano, 2024, 40 ss.). I documenti attestanti la notificazione di un atto impositivo, infatti, non forniscono la prova di un fatto o di un diritto “controverso”, bensì la prova di una condizione di validità ed efficacia dell’atto medesimo, per tale ragione «la produzione degli stessi nei giudizi in cui tale profilo risulti controverso esaurisce l’attività istruttoria».

In ragione di tale “attitudine dimostrativa” la Consulta condivide, ritenendola ragionevolmente bilanciata, la scelta del legislatore di escludere l’operatività del modello temperato di cui all’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 rispetto alle notificazioni, poiché inutilmente dilatoria.

5. Da ultimo, la Consulta “mette in salvo” il legittimo affidamento dei contribuenti italiani, quale “condizione soggettiva” della certezza del diritto ed elemento fondamentale e indispensabile di uno Stato di diritto (cfr. Marcheselli A., Affidamento e buona fede come principi generali del diritto procedimentale e processuale tributario: uno spunto in materia di obbligazioni solidali e plurisoggettività, in Dir. prat. trib., 2009, 3, 439 ss. e la dottrina ivi citata).

Essa, infatti, ritiene fondate le censure di illegittimità costituzionale sollevate in relazione al regime transitorio di cui all’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 220/2023; trattasi, nel caso di specie, di una norma con effetti sfavorevoli incidenti «sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi instaurati nel vigore della precedente normativa». In altri termini, una parte che nel giudizio di primo grado, incardinato nella vigenza del precedente sistema probatorio, non ha prodotto documenti confidando sulla possibilità di farlo in appello, si è ritrovato, fino a qualche giorno fa, nella imprevedibile (rectius, irragionevole) situazione di dover giustificare con gli attuali canoni di “indispensabilità” un deposito che, diversamente, gli sarebbe stato precluso.

Del resto, conclude la Corte, la disciplina transitoria relativa alla previgente disciplina dei nova in appello era chiara nel prevedere l’in-applicabilità di tali disposizioni «ai giudizi già pendenti in grado di appello davanti alla commissione tributaria di secondo grado e a quelli iniziati davanti alla commissione tributaria regionale se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore».

(*) La rubrica è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane. 

1 In forza del quale l’estratto di ruolo non costituisce atto impugnabile e, al contempo, non è impugnabile la cartella di pagamento adducendo vizi di notifica, salvi i casi espressamente previsti dalla legge (per approfondimenti, cfr. Odoardi F., L’impugnazione degli atti della riscossione tra vecchie e nuove problematiche, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 2, e pubblicato online il 3 settembre 2024, www.rivistadirittotributario.it).

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