L’atto di indirizzo e le criticità irrisolte in tema di abuso del diritto

Di Giuseppe Zizzo -

Abstract (*)

A quasi dieci anni dall’introduzione della clausola generale antiabuso, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha rilasciato un atto di indirizzo interpretativo e applicativo sull’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Esso si pone, sostanzialmente, in linea con le soluzioni interpretative offerte in modo ricorrente dalla prassi amministrativa e con le indicazioni fornite nella relazione illustrativa allo schema del D.Lgs. n. 128/2015, lasciando irrisolte alcune criticità, che meritano una migliore o diversa messa a fuoco.

Almost ten years after the introduction of the general anti-abuse clause, the Ministry of Economy and Finance has issued an interpretative and applicative address on art. 10-bis of the Taxpayer’s Rights Statute. It is substantially in line with the interpretative solutions offered in a recurrent manner by administrative practice and with the indications provided in the explanatory report to the draft of Legislative Decree 128/2015, leaving some critical issues unresolved, which deserve a better or different focus.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Sostanza economica e vantaggi fiscali. – 3. Sostanza economica e contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. – 4. Contrasto con le finalità delle norme fiscale e contrasto con i principi dell’ordinamento tributario. – 5. Non marginalità delle valide ragioni extrafiscali.

1. L’atto di indirizzo relativo all’abuso del diritto pubblicato il 27 febbraio scorso, a quasi dieci anni dall’adozione della clausola generale, non presenta significativi tratti innovativi, né prospetta approfondimenti di particolare impegno o esemplificazioni di portata dirimente. Si muove all’interno di confini sicuri, in alcuni passaggi riproponendo soluzioni interpretative offerte in modo ricorrente dall’Agenzia delle Entrate, in altri richiamando le indicazioni fornite nella relazione illustrativa allo schema del D.Lgs. n. 128/2015.

Per questa ragione non intendo in questa sede ripercorrerne interamente i contenuti, ma soffermarmi brevemente su quegli snodi che, a mio parere, meritano una migliore o diversa messa a fuoco.

2. L’atto, in primo luogo, ripropone la tesi, punto fermo negli interventi dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente gli elementi costitutivi della fattispecie dell’abuso sarebbero tre: il conseguimento di vantaggi fiscali indebiti; l’assenza di sostanza economica; l’essenzialità del vantaggio fiscale. Osserva, tuttavia, che gli ultimi due «finiscono per rivelarsi speculari: il vantaggio fiscale indebito può dirsi essenziale – dunque, non necessariamente esclusivo, ma comunque più che prevalente – proprio quando, a ben guardare, l’operazione risulta priva di sostanza economica, in quanto inidonea a produrre significativi effetti extrafiscali».

In realtà, i due elementi sono solo in parte speculari, e perciò sovrapponibili. Da una parte, le condotte inidonee a produrre “effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali” inevitabilmente sono condotte che “realizzano essenzialmente vantaggi fiscali”. Laddove in concreto realizzassero “effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali” non potrebbero, infatti, essere qualificate come inidonee a tal fine. Dall’altra, se è vero che le condotte che “realizzano essenzialmente vantaggi fiscali” sono condotte che non realizzano “effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, è anche vero che non necessariamente sono condotte “inidonee” a produrre gli effetti in questione.

L’indagine sulla sostanza economica è certamente un’indagine di stampo oggettivo. Il riferimento alla inidoneità colloca però la verifica relativa agli effetti economico-giuridici sul piano di quelli ottenibili, oltre che di quelli ottenuti, spingendola dunque verso le oggettive potenzialità della condotta (sul versante extrafiscale). Non necessariamente una condotta che, in concreto, produce unicamente (o pressoché unicamente) vantaggi fiscali deve quindi essere definita come sprovvista di sostanza economica ai fini dell’applicazione della clausola antiabuso. I significativi effetti economico-giuridici, che conferiscono detta sostanza, potrebbero infatti manifestarsi (anche) solamente a livello di ragionevole valutazione prognostica.

3. L’atto, in secondo luogo, ripropone la tesi, pure espressa dall’Agenzia delle Entrate, ma nei fatti spesso disattesa dalla stessa, secondo cui la qualificazione della condotta deve muovere dall’indagine sul primo fattore indicato, e più precisamente dall’indagine sulla natura dei vantaggi fiscali conseguiti, anziché da quella sulla sostanza economica. Questa impostazione mi lascia perplesso. Nella clausola, i due fattori hanno una capacità connotante concorrente. La verifica in ordine alla natura dei vantaggi fiscali è, dunque, certamente fondamentale, tanto da essere (giustamente) richiesta dalla clausola. La sua anteposizione a quella in ordine alla sostanza economica non è però funzionale all’applicazione di quest’ultima.

L’effetto di inopponibilità associato alla clausola implica infatti che il contrasto con le finalità delle pertinenti norme o con i principi dell’ordinamento tributario, che segna i vantaggi fiscali come indebiti, sia quello che dipende da un’incongruenza tra la forma giuridica adottata e il mutamento di assetto economico-giuridico prodotto, riscontrabile tanto nel caso in cui la condotta sia inidonea ad incidere nella sfera economico-giuridica dell’agente (se non sotto il profilo dell’onere d’imposta), quanto in quello in cui la condotta, pur idonea ad incidere nella sfera economico-giuridica dell’agente, non corrisponde alla soluzione più diretta ed efficiente all’uopo disponibile. Solo per questi contrasti, infatti, il rimedio dell’inopponibilità si manifesta un rimedio appropriato.

Quando il contrasto dipende, anziché dalla suddetta incongruenza, semplicemente da un’insufficiente specificazione testuale della fattispecie, la negazione dei connessi vantaggi fiscali presuppone che l’ordinamento attribuisca alle finalità delle pertinenti norme o ai principi dell’ordinamento tributario la capacità di dare vita, nel settore del diritto considerato, a norme estranee alla lettera, mediante addizione degli elementi ritenuti (alla luce di dette finalità o di detti principi, ingiustamente) assenti. Non richiede, invece, un’azione sulla situazione di fatto, da realizzare con lo strumento dell’inopponibilità utilizzato dalla clausola.

L’applicazione della clausola non comporta la modifica, in senso restrittivo o estensivo, della portata delle pertinenti norme. Comporta la modifica (a motivo dell’inopponibilità della condotta) del fatto da assumere come rilevante. Ne consegue che, nella sua applicazione, l’accertamento relativo alla sostanza economica deve avvenire in via prioritaria. Esso, infatti, condiziona quello relativo alla natura dei vantaggi fiscali, che comunque va esperito, e non può considerarsi assorbito nel primo, potendo rivelare la compatibilità, o comunque la non contrapposizione, dei vantaggi stessi con le finalità di dette norme o con detti principi, e di conseguenza escludere la natura abusiva della condotta. Il compito dell’indagine sulla natura dei vantaggi fiscali, più che quello di esporre un conflitto con le finalità di dette norme o con detti principi, è quello di determinare il rilievo da attribuire, nell’applicazione della normativa considerata, alla carenza di sostanza economica. Di determinare, cioè, se questa carenza debba ritenersi ammessa dalla stessa, e quindi irrilevante (nel senso di inidonea ad attivare la clausola), o non ammessa, e quindi rilevante (nel senso di idonea ad attivare la clausola).

4. In terzo luogo, l’atto afferma che la verifica sulla natura dei vantaggi si manifesta più difficile nel caso di condotte complesse, articolate in più fasi, e che in questi casi «può essere opportuno riferirsi, oltre alla ratio delle norme applicate dal contribuente, ai principi dell’ordinamento tributario».

Questa indicazione impone una riflessione. Per operare, il conflitto con i principi non deve duplicare il conflitto con le finalità delle singole norme. Il riscontro di questo secondo conflitto attribuisce, infatti, di per sé, natura indebita ai vantaggi ottenuti, rendendo irrilevante la ricorrenza del primo. Il conflitto con i principi è pertanto destinato a produrre effetti solo quando gli stessi si proiettano oltre le loro specificazioni, coprendo situazioni non regolate dalle norme che ne costituiscono attuazione.

Ne consegue, anzitutto, che, prima di indagare sulla ricorrenza di un conflitto con i principi, occorre indagare sulla ricorrenza di un conflitto con le finalità delle singole norme, non solo di quelle applicate, fonte dei vantaggi fiscali considerati, come sembra ipotizzare l’atto, ma pure di altre, non applicate, laddove dovesse emergere la fungibilità, quanto ad effetti economico-giuridici, della loro fattispecie con la condotta osservata. Il conflitto con le finalità delle norme applicate è comunque necessario. Tuttavia, mentre nel primo caso concentra il disvalore della condotta, nel secondo è l’estraneità alla fattispecie della diversa norma a fornire il perno intorno a cui ruota detto disvalore.

Ne consegue, inoltre, che, anche a volere fermarsi ai principi citati dall’atto, su cui sussiste (verosimilmente) un generale consenso, come il divieto di doppie deduzioni, il divieto di salti di imposta, il principio della continuità dei valori fiscalmente, nel valorizzare il conflitto con i principi si profila il serio rischio di un inammissibile sovvertimento delle scelte legislative. In particolare, delle scelte espresse nella configurazione delle singole norme, specie di quelle applicate. Più queste sono nette, e, soprattutto, manifestano insensibilità al profilo della carenza di sostanza economica, più si riducono i margini per l’utilizzo del contrasto con i principi quale catalizzatore della clausola. Maggiore è, infatti, la resistenza che sono in grado di opporre a detto utilizzo.

5. Da ultimo, l’atto ripropone la tesi, prospettata dalla citata relazione illustrativa, secondo cui la “non marginalità” delle ragioni extrafiscali (economiche, personali, familiari), che escludono l’abuso, si configurerebbe «solo se l’operazione non sarebbe stata posta in essere in loro assenza. Occorre, appunto, dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni». La tesi, cioè, che risolve la non marginalità nella decisività.

Anche questa soluzione è discutibile. La non marginalità sicuramente non implica che le ragioni extrafiscali siano le uniche in grado di giustificare la condotta osservata, anche perché risulterebbe pressoché impossibile negare in radice, ad una condotta che permette di raggiungere un risparmio d’imposta, un oggettivo nesso con ragioni di indole fiscale. Ma neppure necessariamente implica che le ragioni extrafiscali siano determinanti. Potrebbe essere sufficiente che siano non insignificanti, non trascurabili, e perciò idonee ad assicurare un effettivo concorso di ragioni fiscali ed extrafiscali alla giustificazione della condotta osservata. Quest’ultima lettura appare, da un lato, più aderente al carattere sfumato dell’espressione utilizzata, che non orienta in modo netto verso la decisività delle ragioni considerate, dall’altro, più idonea a valorizzare il ruolo di queste ultime. Se occorresse la dimostrazione della loro decisività, infatti, non solo si aprirebbe un fronte di grave incertezza, non essendo individuati i criteri per eseguire questa valutazione, ma altresì si produrrebbe una forte compressione della capacità di dette ragioni di incidere sull’applicazione della clausola.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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