Effetto diretto e IVA. Possibili evoluzioni di una nozione al confine fra politica e diritto

Di Guglielmo Fransoni -

Abstract (*)

Il saggio analizza l’evoluzione della nozione di effetto diretto del diritto dell’Unione Europea, con particolare riferimento alla sua applicazione in ambito tributario. Dopo aver evidenziato il carattere intrinsecamente “evolutivo” del principio dell’effetto diretto con particolare riferimento alle più recenti aperture giurisprudenziali relativi all’operatività del principio nei rapporti orizzontali e in quelli “verticali inverso” si evidenziano i possibili riflessi di questa giurisprudenza in materia di IVA.

Direct effect and VAT. Possible evolutions of a notion on the verge between policy and law – The essay examines the evolution of the concept of direct effect in European Union law, with a particular focus on its application in tax matters. After highlighting the inherently evolutionary character of the principle of direct effect, with specific reference to the most recent jurisprudential developments regarding the principle’s applicability to horizontal and “reverse vertical” relationships, possible implications of this jurisprudence in the field of VAT are outlined.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’evoluzione del principio di effetto diretto: il quadro generale. – 3. (Segue). Gli ultimi arresti giurisprudenziali. 4. I riflessi nell’ambito del diritto tributario e dell’imposta sul valore aggiunto. – 5. Conclusioni.

1. Quella di effetto diretto è, con ogni evidenza, una nozione da maneggiare con cura.

La dimostrazione di questa affermazione è offerta già dalla sua origine storica. Non solo la sentenza della Corte Giustizia 5 febbraio 1963, Vand Gend & Loos, C-26/62 fu pronunciata con una stretta maggioranza (4 voti favorevoli e 3 contrari), ma soprattutto essa fu l’espressione di un preciso “ideale”, di una concezione dell’assetto di quella che, allora, era la Comunità (per un’efficace ricapitolazione della “storia” della sentenza Van Gend & Loos, anche con la specifica evidenziazione del ruolo svolto dal giudice italiano Trabucchi, v. Gallo D., Direct effect in EU Law, Oxford, OUP, 2025, 7).

Fermo restando che tutto il diritto è intriso di politicità, non si può negare che alcune sue manifestazioni esibiscono questo profilo in maniera più marcata. La sentenza appena citata ne è un esempio paradigmatico.

Come tutte le idee davvero vincenti sul piano politico e istituzionale, il principio dell’effetto diretto è stato forgiato in modo da bilanciare adeguatamente innovazione e conservazione.

Nell’affermare che il diritto europeo prevale sul diritto nazionale imponendo ai giudici di disapplicare quest’ultimo e nel prevedere, al tempo stesso, precise e rigorose condizioni, la Corte di Giustizia ha compiuto un miracolo di equilibrismo, riuscendo a coniugare la “separatezza” degli ordinamenti comunitario (oggi, eurounitario) e nazionali con la capacità del primo di “incidere” sui secondi.

Inutile dire che si tratta di un equilibrio massimamente delicato, perché due ordinamenti davvero “separati” sono, a rigore, anche logicamente “indifferenti”. Il diritto, tuttavia, coniuga il profilo logico con quello assiologico; conseguentemente ciò che non può ammettersi in termini di pura logica, diventa possibile in termini valoriali (cfr. Ruggeri A., Le fonti del diritto eurounitario e i loro rapporti con le fonti interne, in Costanzo P. – Mezzetti L. – Ruggeri A., Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione Europea, Torino, 2022, 322 ss. dove si sottolinea la peculiarità della scelta secondo cui, in forza dell’indirizzo fatto proprio dalla Corte Costituzionale, una norma “di valore”, qual è l’art. 11 Cost., è stata trasformata in una norma “sulle fonti di produzione”).

Cosicchè è realizzabile (e sta resistendo da oltre sessant’anni) un complesso rapporto di equilibri intersistemici in cui coesistono, entro certi limiti, “separatezza” e “incidenza”.

Entro certo limiti, per l’appunto.

E la questione è che questi limiti sono necessariamente contestuali. La quantità di “incidenza” che risulta accettabile – assiologicamente e, quindi, politicamente – non è definita una volta per tutte e si modifica con il contesto generale.

Nel declinare i confini dell’effetto diretto occorre, come dicevamo in apertura, essere consapevoli, per un verso, che essi non sono aere perennium e, per altro verso, che l’oltrepassamento dei medesimi può avere conseguenze molto gravi (ma, verosimilmente, questo può affermarsi anche con riguardo a un eccessivo contenimento dei limiti medesimi).

2. Dalla premessa appena svolta discende che non solo non si possono negare, ma anzi devono essere espressamente valorizzate le “evoluzioni” del principio.

Anzi, la migliore dottrina cerca accuratamente di cogliere, nelle pieghe della giurisprudenza, non solo le tracce delle evoluzioni già conclamate, ma anche di quelle in fieri (in questa direzione, si vedano Bobek M., The effects of EU law in the national legal systems, in Peers S. – Barnard C., European Union Law, 4th ed., Oxford, Oxford University Press, 2023, 151 ss. e, da ultimo, Gallo D., Direct effect in EU Law, cit., 37 ss.).

Al tempo stesso, occorre avere la consapevolezza che i processi dei quali si colgono le prime avvisaglie sono esposti alle modifiche del “contesto” di riferimento il quale, come dicevamo, è un fattore decisivo per individuare la massima quantità di “incidenza” dell’ordinamento eurounitario tollerabile da una pluralità di ordinamenti nazionali (e, quindi, da una pluralità di assetti politico-istituzionali) senza che ciò sia avvertito come una compromissione della loro reciproca “separatezza”.

Comunque sia, è pacifico che il principio si è modificato nel tempo.

Se, infatti, deve ritenersi certo che l’effetto diretto non può essere derivato dalla sola primauté – giacché, se così fosse, verrebbe meno, in definitiva, la possibilità finanche di argomentare la persistenza della “separatezza” dei sistemi – appare anche certo che vi è stata una trasformazione di alcuni degli elementi specifici caratterizzanti l’effetto diretto.

Ad esempio, è ormai pressoché unanimemente riconosciuto che la triade di elementi che dovrebbero condizionare l’esistenza di una norma munita di effetto diretto (consistente nell’avere natura incondizionata, chiara e precisa) si risolve, in definitiva, nel solo carattere della non condizionalità (al riguardo è sufficiente rinviare a Gallo D., Direct effect in EU Law, cit., 88 ss. e all’esaustiva bibliografia ivi specificamente richiamata).

Ancora più importante è notare come la dottrina più sensibile sia pervenuta a ritenere che l’effetto diretto possa essere invocato non solo nelle ipotesi in cui sulla norma eurounitaria (incondizionata e, se si vuole, chiara e precisa) viene fondata l’attribuzione di un diritto soggettivo per i cittadini dei singoli Stati (il c.d. subjective substitutive effect), ma anche nelle ipotesi in cui la norma eurounitaria funge da mera preclusione all’operare di talune norme interne, la cui disapplicazione determina, conseguentemente, la “(ri)espansione” di altre norme il cui ambito operativo sarebbe risultato altrimenti limitato (il c.d. objective exclusionary effect). Questa duplice declinazione dell’effetto diretto deve ritenersi ormai confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (cfr. sent. 6 novembre 2018, Pfeiffer, C-397–403/01) e dalla dottrina (si vedano le sintetiche indicazioni di Bobek M., The effects of EU law in the national legal systems, cit., 163 e l’ampia discussione in Gallo D., Direct effect in EU Law, cit., 104 ss.).

La definizione della nozione di effetto diretto come comprensiva dell’effetto soggettivo e di quello oggettivo è un chiaro segno della ricordata “evoluzione” che implica una considerazione più “elastica” – e di chiara impronta hohfeldiana (il rinvio implicito è a Hohfeld W.N., Some Fundamental Legal Conceptions as Applied to Judicial Reasoning, in Yale Law Journal, 1913, 5, 16 ss.; per la letteratura italiana, si veda Pino G., Diritti soggettivi. Lineamenti per un’analisi teorica, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2009, 2, 487 ss.) delle posizioni giuridiche soggettive di vantaggio il cui riconoscimento costituisce il presupposto dell’effetto medesimo.

Questo condivisibile approdo non può, a sua volta, non comportare una relativizzazione della stessa riferibilità immediata e diretta della posizione giuridica di vantaggio alle parti del giudizio. Detto altrimenti, sembra emergere e consolidarsi un orientamento – che, a nostro avviso, è la diretta conseguenza di quanto abbiamo rilevato circa la relativizzazione della nozione stessa di “vantaggio” – secondo il quale la disapplicazione, per essere in bonam partem, deve bensì ristabilire una condizione di vantaggio per una parte privata, ma non per una parte privata specificamente individuata (mi sembra deporre in questo senso l’affermazione Gallo D., Direct effect in EU Law, cit., 125 ss. secondo il quale «The minimum requirement (and condicio sine qua non) for the emergence of direct effect is the existence of and advantage/interes, which occurs as a result of the application of EU law and the subsequent disapplication of domestic law. Or, alternatively, lacking such an advantage/interest, in order to for a direct effect to be asserted, the application of EU law should, at least, not worsen for all private parties the condition that they were in before EU law was enforced» [enfasi aggiunta]).

La latitudine di quest’ultimo concetto, a sua volta, dipende dalla nozione di parte che si assume rilevante. Ove la nozione di “parte” sia individuata, come è naturale fare in prima battuta, con riferimento alla specifica controversia giudiziale in cui opera la disapplicazione, la predetta “relativizzazione” assume rilevanza solo nei giudizi con pluralità di parti (e con posizioni non coincidenti). Ma, una volta imboccata questa strada, non appare in assoluto precluso, almeno dal punto di vista logico, pervenire a una nozione di disapplicazione in bonam partem che prenda in considerazione anche i risultati mediati dell’applicazione diretta della norma eurounitaria.

Infine, sebbene l’osservazione che segue non trovi riscontri in dottrina, dobbiamo ancora rilevare che non sono del tutto scevri, a nostro sommesso avviso, da una colorazione di tipo “retorico” gli argomenti normalmente impiegati dalla Corte di Giustizia per negare l’effetto diretto verticale inverso.

Invero, non appaiono munite di una forza irrefutabile le tesi giurisprudenziali tradizionali secondo le quali l’effetto diretto verticale inverso troverebbe ostacolo tanto nel principio secondo il quale il legislatore non potrebbe trarre vantaggio da un proprio inadempimento (il c.d. estoppel principle), quanto in quello della certezza del diritto e dell’affidamento.

Il primo impedimento, infatti, risiederebbe in un “principio di responsabilità” fondato su un’idea di “personalistica” dell’azione normativa e di quella amministrativa che non sembra concettualmente insuperabile (in questo senso, espressamente, Bobek M., The effects of EU law in the national legal systems, cit., 163 per il quale «In other words, direct effect may be seen as a certain type of ‘sanction’ against a defaulting Member State. If the Member State had implemented the directive on time and/or correctly, it could have exercised its choice as to how it wished to do so, how far it wanted to go, and by what means. However, because it had failed to do so, it had forfeited that choice»). Si potrebbe facilmente obiettare, infatti, che mentre l’inadempimento dovrebbe essere riferito alle istituzioni, viceversa, i vantaggi conseguenti alla disapplicazione non possono che essere riferiti allo Stato-comunità. Cosicchè, potrebbe dubitarsi della pertinenza di giudicare quest’ultimo immeritevole (dei vantaggi) in conseguenza della “responsabilità” delle prime.

Il secondo ostacolo – ossia quello consistente nel principio di certezza e di legittimo affidamento – è solo apparentemente più forte. Basterebbe ricordare, infatti, l’insegnamento della nostra Corte Costituzionale secondo cui non esistono valori “tiranni” – ossia destinati a prevalere sempre e comunque su qualsiasi altro valore – per negare la possibilità di considerare i valori della certezza e del legittimo affidamento come costantemente prevalenti rispetto a qualsiasi valore potenzialmente “tutelato” dalla disapplicazione In definitiva, questo è proprio quanto implicitamente ci sembra implicare la dottrina che esclude che si sia realizzata una deroga al divieto di effetto inverso nel caso delle sentenze N Luxembourg, X Denmark, C Denmark, Z Denamrk (casi C-115/16, C-118-119/16 e C-299/16) nel momento in cui afferma che «there isn’t, therefore, an issue of legitimate expectations for the companies as the latter have engaged in fraudolent and abusive conduct» (così Gallo D., Direct effect in EU Law, cit., 82): con tale affermazione non si fa altro che riconoscere, se non andiamo errati, che, nel bilanciamento fra la certezza del diritto e il divieto di abuso del diritto, il valore tutelato dal secondo divieto è prevalente rispetto a quello espresso dalla prima regola.

3. (Segue). È muovendo da questi presupposti di ordine generale – ovviamente, tratteggiati in termini che sarebbe del tutto eufemistico considerare “massimamente sintetici” – che si possono prendere in considerazione alcuni recenti arresti della Corte di Giustizia.

In particolare, i punti sui quali è necessario richiamare l’attenzione sono due.

Il primo è dato dall’affermazione secondo cui in presenza di una disposizione eurounitaria avente effetto diretto, il giudice nazionale non è soggetto a un obbligo di disapplicazione nei rapporti orizzontali sulla base del diritto eurounitario, ma è titolare comunque della facoltà di a tale disapplicazione se ciò fosse previsto dal suo diritto interno. Soluzione, questa, che ha subìto un processo di messa a fuoco graduale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (cfr. sent. 24 giugno 2019, Poplawsky, C-537/17. sent. 18 gennaio 2022, Thelen Technopark, C-261/20 e sent. 11 aprile 2024, Gabel Industria Tessile, C-316/22)1

Il secondo punto rilevante riguarda la riconosciuta ammissibilità di un effetto verticale inverso nelle ipotesi in cui l’azione di una pubblica autorità realizzi una situazione di vantaggio non per sé stessa, ma per terzi “privati” (in questo senso, la sentenza 21 dicembre 2023, Infraestructuras de Portugal SA, C-66/22. Sul tema, Sanchez-Graelles A., Op-ed: Transposing Directives no longer so discretionary! The Court of Justice forces the transposition of discretionary exclsion grounds and hints at “intra-State” vertical effects, in EU Law Live, 27 febbraio 2024).

Si tratta di affermazioni che, sia pure presentate come scarsamente impegnative e quasi tautologiche (cfr., Lindeboom J., Op-ed: “Another Episode of Horizontal Direct Effect of Directives, Or: Who Should Clean Up the Mess? Case C-316/22 Gabel Industria Tessile”, in EU Law Live, 30 aprile 2024), sembrerebbero idonee, ove si guardi al di là delle apparenze, a segnare una nuova tappa nell’evoluzione del principio dell’effetto diretto.

La statuizione della possibilità di una disapplicazione nei rapporti orizzontali, ove ammessa nell’ordinamento interno, se svolta in tutte le sue necessarie implicazioni, conduce a constatare che la “separazione” fra i (plurimi) sistemi nazionali e il sistema eurounitario non è un dato strutturale e oggettivo, bensì una scelta contingente e disponibile. Una sorta di autolimitazione reciproca, suscettibile di rivelarsi recessiva ad iniziativa di uno solo degli ordinamenti considerati.

Per avvedersi del cambiamento ordinamentale che questa impostazione potrebbe implicare, è sufficiente considerare che, mentre la nozione di “separazione” intesa nel senso tradizionale (ossia come dato strutturale e oggettivo) implica un assetto omogeneo dei rapporti fra i sistemi normativi in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, viceversa la diversa nozione implicata dalla statuizione di cui si discute in questa sede condurrebbe (potenzialmente) a un assetto a geometria variabile dei rapporti ordinamentali rispetto a ciascuno dei 27 sistemi nazionali (si veda, in questo senso, Lindeboom J., Op-ed: “Another Episode of Horizontal Direct Effect of Directives, Or: Who Should Clean Up the Mess? Case C-316/22 Gabel Industria Tessile”, cit., 7).

A sua volta, l’introduzione di un certo grado di elasticità nell’applicazione del divieto di effetto diretto verticale inverso potrebbe apparire (e, in parte, effettivamente è) un naturale sviluppo delle tesi già da tempo maturate circa la considerazione “oggettiva” degli effetti diretti nonché di quella riguardante la “relativizzazione” della riferibilità del vantaggio conseguente alla disapplicazione.

Nondimeno, ci pare indubbio che l’espressa enunciazione del predetto carattere dell’effetto diretto impone di prendere atto che, proprio in questa prospettiva, tanto la disapplicazione quanto i principi di certezza del diritto e di affidamento sono regole che si risolvono, comunque, in una diversa allocazione di posizioni di vantaggio e di svantaggio fra i soggetti dell’ordinamento.

Il che, naturalmente, determina un maggior grado di indeterminatezza circa i presupposti di applicazione dell’effetto diretto, potenziandone tuttavia la flessibilità e le potenzialità d’impiego nella prospettiva del bilanciamento dei valori.

4. Le riflessioni che precedono sono funzionali allo svolgimento di alcune considerazioni relative alla applicazione del principio dell’effetto diretto nel diritto tributario e, in particolare, nell’IVA.

Il primo interrogativo che occorre porsi è se, rispetto ad altri rami dell’ordinamento, quello tributario possa esprimere, proprio nella prospettiva indicata nella sentenza Gabel Industrie Tessili, una maggiore tendenza al superamento della separazione fra sistemi (e, quindi, al riconoscimento di una maggiore incidenza delle norme di diritto eurounitario).

In linea teorica, la risposta dovrebbe essere negativa.

Nei loro reciproci rapporti diritto interno e diritto eurounitario non possono che assumere una configurazione unitaria.

Eppure, se si pensa a quale ruolo ha giocato, ad esempio, la giurisprudenza della Corte di Giustizia nell’affermazione di taluni principi quali quello dell’abuso del diritto o della prevalenza della sostanza sulla forma (al di là delle riserve che si possono formulare circa la consistenza dei medesimi), è difficile non ritrarne l’impressione di una maggiore permeabilità del diritto tributario agli influssi del diritto eurounitario. In dottrina vi è, infatti, chi ritiene (Sarmiento D. – Iglesias Sanchez S., Is Direct Effect Morphing into Something Different?, in EU Law Live, 4 febbraio 2024, 59) che i già citati casi C-115/16, C-117/16, C-118/16 e C-119/16, nella misura in cui la Corte ha riconosciuto a uno Stato membro la possibilità di far valere il divieto di abuso del diritto contenuto in una direttiva (ma non trasposto nell’ordinamento nazionale) per negare i vantaggi derivanti dalla direttiva costituisca il primo caso di effetto diretto inverso.

Certo, si potrà obiettare che in quei casi non si è trattato di una manifestazione dell’effetto diretto, non essendovi alcuna disposizione interna che si opponesse formalmente ai principi suddetti.

Questa obiezione non risolve, tuttavia, il problema nella sua interezza. E ciò in quanto le vicende sopra ricordate evidenzierebbero, comunque, l’esistenza di momenti di “compenetrazione” dei sistemi che prescindono dall’esistenza di una norma incondizionata, precisa e certa.

Per meglio dire, ci si deve interrogare se, al di là dell’effetto diretto, la trasposizione nell’ordinamento interno di settori normativi di fonte eurounitaria non implichi anche la vigenza, a livello nazionale, dei principi generali sui quali, secondo la prospettiva eurounitaria, si fonda la stessa tenuta degli istituti elaborati in sede di Unione Europea.

E se, come sembra plausibile, la soluzione a questo interrogativo fosse affermativa, risulterebbe difficile negare, poi, analoga vigenza alle norme di più stretto diritto positivo che di quei principi costituiscono il riflesso diretto e immediato (la necessità di sottoporre a un medesimo trattamento tanto il principio, quanto la norma «portatrice del principio stesso, e dunque da esso “coperta” (o protetta), in quanto prodotta al fine di darvi diretta, immediata e necessaria specifica attuazione» è affermata, in termini di teoria generale, da Ruggeri A., Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino, 2009, 42).

Detto diversamente e in termini più espliciti, se si ritenesse (come sembra non inverosimile) che l’applicazione nell’ordinamento interno del complessivo sistema dell’imposta sul valore aggiunto comporti anche la vigenza (al pari del divieto di abuso del diritto) del principio di neutralità che, nella prospettiva eurounitaria, costituisce il perno dell’imposta, diventerebbe difficile negare, poi, che si debba riconoscere analoga vigenza, per esempio, al principio dell’interpretazione restrittiva dei regimi di esenzione (che è una puntuale declinazione del principio di neutralità) e, per questa via, riconoscere altresì alcune più specifiche delimitazioni di alcuni regimi di esenzione che, a loro volta, sono l’espressione di quell’interpretazione restrittiva.

Il tutto, si badi bene, a prescindere dalla applicazione verticale (pura o inversa) ovvero orizzontale di tali regole/principi.

In questa medesima prospettiva, occorrerebbe chiedersi, poi, qual è il ruolo attribuibile all’art. 1 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Letteralmente inteso, esso afferma che le disposizioni statutarie intendono dare attuazione al complesso dei principi propri della Costituzione, dell’Unione Europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Questa enunciazione, quand’anche la si volesse ricondurre alla categoria dei cc.dd. “rinvii narrativi” (cfr., Amoroso D., I rinvii al diritto comunitario ed internazionale nelle recenti codificazioni di settore, in Riv. dir. int. priv. proc., 2008, 4, 1029 ss.), sembra orientata a un criterio diverso da quello della separazione. Il complesso dei principi suddetti risulta, infatti, oggetto di apprezzamento in quanto unitariamente vigente nel nostro ordinamento e suscettibile di unitaria attuazione.

È chiaro, allora e per un verso, che, nella fase applicativa delle regole statutarie, non potrà non tenersi conto dei principi di cui esse dovrebbero costituire attuazione, eventualmente ordinati, nel caso di plurimi principi riguardanti la stessa materia, secondo la regola della “maggior tutela” (come proposto da autorevole dottrina).

Ma occorre, altresì e per altro verso, chiedersi se l’apertura ai principi dell’ordinamento unionale – nell’ambito di tutti i rapporti, ossia indipendentemente dalla loro caratterizzazione come orizzontali o verticali –possa coesistere con la delimitazione dell’effetto diretto ai soli rapporti verticali “ascendenti”.

E ciò proprio nel momento in cui, come abbiamo detto, la Corte di Giustizia afferma che l’ordinamento eurounitario non è, di per sé, insuscettibile di produrre effetti diretti in senso verticale inverso o in senso orizzontale, limitandosi solo a rimettere tale scelta – aggiuntiva rispetto alla produzione di effetti diretti in senso verticale “puro” – ai singoli ordinamenti nazionali.

Si deve prendere atto, infatti, che quest’ultima statuizione della Corte di Giustizia implica necessariamente che la “verticalità” non è una qualità della norma dotata di effetto diretto, bensì un limite aggiuntivo autoimposto, come abbiamo detto, dall’ordinamento eurounitario. Ci si può domandare, allora, se, premessa l’esistenza dell’effetto diretto, l’eliminazione del limite da parte dell’ordinamento in cui esso dovrebbe esplicarsi richieda formule particolari e se, ove si dia risposta negativa a tale domanda (sia pur dubitativamente, Lindeboom J., Op-ed: “Another Episode of Horizontal Direct Effect of Directives, Or: Who Should Clean Up the Mess? Case C-316/22 Gabel Industria Tessile”, cit., 7, secondo il quale, specialmente in forza del principio enunciato nella sentenza Thelen Technopark, «‘domestic law’ might as well be a very generic provision confirming the supremacy of EU or international law, which would make the lack of horizontal direct effect illusory in some Member States»), non possa assumersi che questa scelta sia stata fatta e risulti consacrata dall’ampia apertura ai principi affermata dall’art. 1 dello Statuto.

Infine, e avendo riguardo specificamente all’imposta sul valore aggiunto, sembrerebbe meritevole di attenzione il fatto che, in questa imposta più che in ogni altra, le posizioni di vantaggio e svantaggio non sono distribuite esclusivamente fra soggetto attivo e soggetto passivo del tributo.

Mettendo correttamente da parte l’angusto angolo visuale della Corte Suprema di Cassazione – la quale non riesce a liberarsi da un pregiudizio dogmatico-civilistico che la porta anacronisticamente a parlare ancora di tre rapporti distinti e non interferenti – è evidente che il regime fiscale di un’operazione comporta al tempo stesso vantaggi e svantaggi per le parti del rapporto (cedente-prestatore e cessionario-committente).

In qualche misura, anzi, alla luce del principio di neutralità, l’intervento dell’Agenzia delle Entrate non è strettamente e necessariamente funzionale all’acquisizione di maggior gettito.

Al di là delle pur rilevantissime ipotesi di repressione di fenomeni di frode ed evasione, il combinato disposto degli artt. 30-ter e 60 D.P.R. n. 633/1972 fa sì che le rettifiche dipendenti dall’attribuzione di un diverso regime (di imponibilità o di esenzione) alle operazioni non dovrebbero determinare un maggior gettito fiscale (almeno in linea di principio e fatto salvo l’effetto delle sanzioni).

Diversamente detto, è difficile considerare soddisfacente, nella prospettiva dell’effettività, un approccio che pretendesse di qualificare il rapporto su cui dovrebbe incidere l’effetto diretto (come “verticale puro”, “verticale inverso” o “orizzontale”) ponendo mente solo alla qualifica soggettiva (di privato o di Pubblica Amministrazione) di chi invoca tale effetto e, al tempo stesso, astraendo dalle implicazioni ulteriori del rapporto dedotto in giudizio.

La sentenza Gabel Industrie Tessili insegna che l’azione nei confronti del cedente può essere sostituita, al solo fine di far valere l’effetto diretto verticale al posto di quello orizzontale, dall’azione nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. Detto diversamente, la Corte di Giustizia, nel caso della sentenza Gabel Industrie Tessili, ha ritenuto possibile invertire i termini del problema e, in questo modo, anziché riconoscere la possibilità di invocare l’effetto diretto in ragione della struttura del rapporto e della conseguente azione, ha conformato, piuttosto, l’azione e il rapporto in funzione della possibilità di invocare la realizzazione dell’effetto diretto.

La logica conseguenza di tale affermazione è che – contrariamente alla inaccettabile “pregiudiziale civilistica” della nostra Cassazione – la “direzione” dell’azione risulta relegata in una posizione del tutto formale e accidentale, perché, in effetti e nella realtà sostanziale, i rapporti sono inscindibilmente connessi.

A sua volta, la considerazione della stretta connessione dei rapporti conduce a dubitare proprio della possibilità di individuare una (sola) “direzione” (verticale pura, verticale inversa o orizzontale) dell’effetto.

5. Quelli appena esposti sono, naturalmente, soltanto alcuni dubbi ai quali non è dato fornire una compiuta risposta.

E questa impossibilità dipende certamente dal fatto che la prospettazione di una soluzione richiederebbe, comunque, la sensibilità propria di un cultore del diritto eurounitario e non quella del tributarista.

Ma, forse, dipende ancor prima dal fatto che, come si è avvertito fin dall’inizio, tali soluzioni riguardano una disciplina che riflette in modo diretto e immediato il contesto politico e istituzionale di riferimento. Con la conseguenza che l’incertezza tipica dei tempi ordinari risulta, in questo caso, aggravata dalla straordinarietà della temperie istituzionale.

(*) Testo della relazione svolta dall’Autore al Convegno di Studi “La Direttiva IVA: fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”, tenutosi presso l’Università di Roma “Sapienza” il 28 novembre 2024 e organizzato dal Dipartimento di Diritto ed Economia dell’Impresa.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Amoroso D., I rinvii al diritto comunitario ed internazionale nelle recenti codificazioni di settore, in Riv. dir. int. priv. proc., 2008, 4, 1029 ss.

Bobek M., The effects of EU law in the national legal systems, in S. Peers S. – Barnard C., European Union Law, 4th ed., Oxford, Oxford University Press, 2023

Gallo D., Direct effect in EU Law, Oxford, Oxford University Press, 2025

Hohfeld W.N., Some Fundamental Legal Conceptions as Applied to Judicial Reasoning, in Yale Law Journal, 1913, 5, 16 ss.

Lindeboom J., Op-ed: “Another Episode of Horizontal Direct Effect of Directives, Or: Who Should Clean Up the Mess? Case C-316/22 Gabel Industria Tessile”, in EU Law Live, 30 aprile 2024

Pino G., Diritti soggettivi. Lineamenti per un’analisi teorica, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2009, 2, 487 ss.

Ruggeri A., Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino, 2009

Ruggeri A., Le fonti del diritto eurounitario e i loro rapporti con le fonti interne, in Costanzo P. – Mezzetti L. – Ruggeri A., Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione Europea, Torino, 2022

Sanchez-Graelles A., Op-ed: Transposing Directives no longer so discretionary! The Court of Justice forces the transposition of discretionary exclsion grounds and hints at “intra-State” vertical effects, in EU Law Live, 27 febbraio 2024

Sarmiento D. – Iglesias Sanchez S., Is Direct Effect Morphing into Something Different?, in EU Law Live, 4 febbraio 2024

1 Nella sentenza 24 giugno 2019, Poplawsky, C-537/17 la Corte si era limitata ad affermare (al punto 68) che un giudice nazionale non è obbligato, «sulla base del solo diritto dell’Unione» a disapplicare una norma di diritto interno contraria a una regola eurounitaria; nella sentenza 18 gennaio 2022, Thelen Technopark, C-261/20, la Corte, dopo aver posto, come premessa, l’affermazione contenuta in Poplawsky, ne precisava la portata affermando che sarebbe restata ferma «tuttavia la possibilità, per tale giudice, nonché per qualsiasi autorità amministrativa competente, di disapplicare, sulla base del diritto interno, qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione priva di tale efficacia» (punto 33); infine, nella sentenza 11 aprile 2024, Gabel Industria Tessile, C-316/22, ha completato il proprio ragionamento stabilendo che «il diritto dell’Unione non osta a che uno Stato membro eserciti la propria competenza riguardo alla forma e ai mezzi per raggiungere i risultati stabiliti dalla direttiva in questione prevedendo, nella propria normativa nazionale, che, scaduto il termine di trasposizione, le disposizioni chiare precise e incondizionate di una direttiva non trasposta o non correttamente trasposta entrino a far parte del suo ordinamento giuridico interno e che, di conseguenza, tali disposizioni possa essere fatte valere da un singolo nei confronti di un altro singolo. Infatti, in tale situazione, l’obbligo così imposto, non deriva dal diritto dell’Unione, bensì dal diritto nazionale» (punto 23).

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