Il nesso di derivazione del reddito fiscale dal bilancio di esercizio e il sindacato dell’Amministrazione finanziaria

Di Mauro Tortorelli -

Abstract (*)

Il bilancio di esercizio rappresenta la principale informativa sulla situazione economico-finanziaria dell’azienda e, pertanto, da esso muove la formazione dell’imponibile IRES. La principale fonte di conflittualità del bilancio di esercizio e, quindi, per derivazione, dell’imponibile fiscale rinviene nella inevitabile discrezionalità riconosciuta al redattore in tema di applicazione delle disposizioni civilistiche di rappresentazione chiara, veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica dell’azienda. Circostanza che, per ovvie ragioni, non sfugge sia al legislatore fiscale, in ragione delle esigenze di certezza e stabilità del rapporto tributario, sia all’Amministrazione finanziaria, nell’attività istituzionale di controllo e verifica, tesa ad evitare che la necessitata discrezionalità tecnico-civilistica del redattore del bilancio sia finalizzata ad un risparmio fiscale illecito. L’obiettivo che l’elaborato si propone è di verificare l’esistenza di limiti al sindacato amministrativo nel merito delle scelte attuabili in sede di redazione annuale del bilancio.

The derivation principle of tax income from the financial statement and the oversight of the Tax Administration – The financial statements represent the main source of information on a company’s economic and financial position and, as such, they serve as the basis for the calculation of the IRES tax base. The primary source of conflict arising from the financial statements and consequently from the tax base derived from them lies in the inevitable discretion granted to the drafter when applying civil law provisions aimed at ensuring a true, fair, and accurate representation of the company’s patrimonial, financial and economic position. A circumstance that, for obvious reasons, draws the attention of both the tax legislator, who seeks certainty and stability in the tax relationship, and the tax administration, whose institutional role includes control and oversight to prevent any abuse of this technical-civil discretion for purposes of unlawful tax savings. The aim of this paper is to assess whether there are limits to the tax administration’s oversight regarding the merits of the choices made during the annual preparation of financial statements.

Sommario: 1. Le ragioni del nesso di derivazione del reddito fiscale dal bilancio di esercizio. – 2. Il sindacato sulle scelte civilistiche di bilancio: i termini della questione. – 3. La posizione della dottrina. – 4. Le critiche ai diversi orientamenti. – 5. Conclusioni.

1. In tema di determinazione del reddito imponibile di impresa da attrarre a tassazione secondo l’applicazione dei principi e delle norme di legge tributarie, per i soggetti IRES l’istituto del principio di derivazione dal reddito civilistico rinviene dall’art. 83 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel prosieguo, TUIR).

La lettura del fenomeno tributario nell’ottica economico-aziendale muove dalla riforma tributaria, laddove il legislatore ha ritenuto che la disciplina del reddito imponibile derivante dall’esercizio di imprese commerciali dovesse informarsi: i) ai principi di competenza economica, tenuto conto delle esigenze di efficienza, rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo; ii) alla determinazione analitica dell’imponibile in base alle risultanze del bilancio o del rendiconto (cfr. art. 2, n. 16), e art. 3, n. 6), L. 9 ottobre 1971, n. 825).

La ragione della scelta rinviene dal vantaggio ottenuto, ai fini impositivi, dal muovere da una base economica attendibile perché frutto della comparazione analitica di costi e ricavi determinati secondo i criteri delle scienze aziendali (Zizzo G., La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2021, 329. In particolare dello stesso Autore cfr., Stato e prospettive dei rapporti tra bilancio e dichiarazione, in Corr. trib., 2007, 12, 931 ss.).

Tuttavia, sul piano dogmatico, la derivazione del reddito di impresa imponibile da quello economico-aziendale non ne prevede l’automatica identificazione, a causa del principio di imposizione secondo la capacità contributiva, previsto dall’art. 53, comma 1, Cost. Quest’ultimo, per unanime parere della dottrina, comporta la possibilità di prevedere ex lege variazioni del reddito economico tese ad impedire erosioni della base imponibile, fenomeni di elusione e/o di evasione di imposta che potrebbero annidarsi nel bilancio contabile.

Sotto un diverso profilo, l’incidenza nella materia tributaria del reddito economico-aziendale deriva dall’impossibilità di disciplinare all’interno del TUIR, in modo tassativo, il catalogo di tutti gli elementi reddituali potenzialmente partecipativi del reddito di impresa. L’assunto è confermato, per via implicita, dalla lettura dell’art. 83, citato, ove il legislatore dispone che il reddito da attrarre a tassazione debba essere pari a quello civilistico – comprensivo di tutti i costi e i ricavi sostenuti nell’attività di impresa – aumentato o diminuito per effetto di previsioni normative tributarie che riguardano (solo) alcune componenti appositamente individuate (Cass., 20 dicembre 2019, n. 34176).

Per la dottrina, in tal modo il legislatore tributario riconosce, facendole proprie, le norme di un’ordinaria contabilità che presiedono alla formazione del bilancio civilistico (Fantozzi A. – Alderighi M., Il bilancio e la normativa tributaria, in Rass. trib., 1984, 1, I, 117 ss.)

Proseguendo nell’analisi delle ragioni a base del nesso di dipendenza che ci occupa, e volgendo l’attenzione verso le norme dettate dal codice civile, altra dottrina osserva che la ratio della dipendenza riposa nella circostanza che, ai sensi dell’art. 2423 c.c., il bilancio civilistico deve conformarsi al principio di chiarezza nell’esposizione dei sui dati e, soprattutto, rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale della società e il reddito conseguito (Melis G., Il nuovo principio di derivazione rafforzato per i soggetti OIC adopter, in Luiss Law Review, 2018, 1).

Tale principio, corroborato da ulteriori norme sostanziali e procedimentali di base all’approvazione del bilancio e alle regole contabili che ne presiedono la redazione, costituisce un solido sostrato tecnico-giuridico idoneo a garantire la fondatezza dei dati contabili riportati nel bilancio stesso (Fantozzi A. – Paparella F., Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2014, 91 ss.), oltre a rappresentare un valido modello teorico di determinazione del reddito societario da attrarre a tassazione. Al punto da rivestire, in seno a quest’ultimo, non una semplice funzione probatoria, ma una funzione ad substantiam, ponendosi in un rapporto di pregiudizialità/dipendenza (Falsitta G., Concetti fondamentali e principi ricostruttivi in tema di rapporti tra bilancio civile e “bilancio fiscale”, in Rass. trib., 1984, I, 137 ss.). Non a caso, deve ritenersi, di recente il legislatore ha delegato il Governo alla razionalizzazione e semplificazione dei regimi di riallineamento dei valori fiscali e quelli contabili, al fine di prevedere una disciplina omogenea e un trattamento fiscale uniforme (legge delega n. 111/2023, art. 6, comma 1, lett. c).

Occorre ora volgere l’attenzione all’incidenza, nel nesso causale di derivazione, degli obblighi contabili le cui risultanze affluiscono nel bilancio di esercizio.

Il complesso delle norme di legge civilistiche (ma anche fiscali) che disciplina gli obblighi contabili attiene: i) alla istituzione e tenuta dei relativi libri e registri che ne assicurano l’attendibilità formale e sostanziale; ii) ai termini di registrazione dei fatti di gestione; iii) all’obbligo di conservazione e di esibizione, insieme ai documenti giustificativi, delle registrazioni contabili effettuate.

A tale ultimo proposito, la dottrina rileva che mentre le scritture contabili rappresentano una documentazione unilaterale dell’imprenditore contribuente e, pertanto, possiedono un’efficacia relativa, la documentazione giustificativa di supporto rilasciata da soggetti terzi (clienti, fornitori, banche) assume un’efficacia più persuasiva (Menti F., La documentazione di impresa, Profili tributari, Padova, 2011). Prova ne sia la giurisprudenza tributaria per cui il costo di esercizio non adeguatamente documentato ne comporta l’indeducibilità nella determinazione del reddito imponibile (Cass., 20 febbraio 2018, n. 15115).

Sul piano concreto, l’obbligo contabile si sostanzia, oltre che nella istituzione e nella tenuta di libri e registri, nell’elaborazione e nel riporto di scritture contabili secondo il criterio cronologico di avvenimento di ciascun fatto di gestione a rilevanza esterna dell’attività di impresa.

L’annotazione sul registro contabile del fatto di gestione avviene secondo il metodo della partita doppia, proprio della scienza contabile, che prevede una forma particolare di rilevazione tesa ad evidenziare, nel contempo e per ciascuna operazione, i profili: i) economico, ovverosia di sostenimento di un costo o di un ricavo; ii) patrimoniale, di incremento o diminuzione di un’attività o passività aziendale; iii) finanziario, ovverosia di un’entrata o di una uscita di cassa o di valori equivalenti del patrimonio aziendale.

La circostanza rileva perché lo scopo di tali annotazioni, insieme al sistema di ulteriori annotazioni contabili obbligatorie – di integrazione e di rettifica da effettuare al termine dell’esercizio per garantire la partecipazione dei costi e dei ricavi secondo il criterio c.d. di imputazione per competenza – è quello di determinare il reddito di esercizio e la conseguente variazione subita dal patrimonio netto dell’azienda a seguito della gestione dell’attività di impresa nel periodo di competenza.

In ambito tributario, l’insieme della garanzie proprie della regolare tenuta della contabilità e del bilancio di esercizio, che ne è l’espressione finale, comporta, altresì, che l’applicazione del principio di derivazione assicuri certezza e semplicità nel rapporto tra Fisco e contribuente (Tabet G., Il reddito d’impresa, vol. I, Padova, 1997; Zizzo G., La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, cit., 332).

In forza della sua indubbia affidabilità, anche la giurisprudenza fa discendere la necessità di allineare, ove possibile, i dettami fiscali ai criteri di redazione del bilancio civilistico. La determinazione civilistica del reddito di esercizio, infatti, è ritenuta quanto più approssimato all’effettiva capacità contributiva da attribuire al soggetto societario (Cass., 20 dicembre 2019, n. 34176).

Ne segue, in conclusione, da parte del legislatore tributario, la scelta positivizzata nell’art. 83 TUIR, di rinuncia ad un sistema autonomo di quantificazione del reddito imponibile a favore del diverso meccanismo che muove dal dato primigenio rappresentato dal conto economico del bilancio contabile di esercizio (per una sintesi dei principali vantaggi e svantaggi del sistema attuale del nesso di derivazione, cfr. Zizzo G., Il principio di derivazione a dieci anni dall’introduzione dell’Ires, in Rass. trib., 2014, 6, 1303).

In particolare, per quanto qui rileva, l’art. 83 citato, da un lato, prevede l’istituto della derivazione c.d. ”rafforzata” per i soggetti che predispongono il bilancio di esercizio sulla base dei principi contabili internazionali (IAS adopter) e per i soggetti che lo redigono sulla base delle regole dettate dal codice civile come declinate dai principi contabili italiani (OIC adopter), seppure, per questi ultimi, il primato rispetto alla disciplina tributaria è previsto solo con riferimento ai criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione delle voci di bilancio.

Dall’altro lato, lo stesso art. 83 prevede l’istituto della derivazione c.d. “semplice”, la quale, per motivi di tutela della ragione fiscale, impone che al risultato economico netto del bilancio di esercizio si debbano operare variazioni in aumento o in diminuzione in conformità, questa volta, a quanto espressamente previsto dalla normativa tributaria (per l’approfondimento, si rinvia a Beghin M., Il reddito di impresa, Pisa, 2024, 11 ss.). In ragione del fatto che i criteri di valutazione espressi dalla normativa fiscale sono più puntuali di quelli civilistico-contabile che presiedono alla formazione del risultato di esercizio, perché tesi a ridurre le scelte discrezionali dell’imprenditore, limitandole all’esercizio di opzioni possibili oppure ad un perimetro di ragionevolezza prefissati dal TUIR.

2. Sul piano concettuale deve porsi in premessa che il sindacato dell’Amministrazione finanziaria sul bilancio di esercizio codicistico, che qui interessa, coinvolge le operazioni di rilevanza c.d. “interna” alla formazione del bilancio, ovverosia le operazioni che non interessano i rapporti della società con terzi soggetti (clienti/fornitori), ma che si sostanziano in operazioni interne del redattore del bilancio, in ordine alla corretta applicazione della derivazione rafforzata ed alla valutazione di beni che impattano con il conto economico di bilancio di esercizio.

In via di definizione, in sede di redazione del bilancio di esercizio, sotto il profilo contabile l’operazione di qualificazione si sostanzia nella individuazione degli effetti di ciascuna operazione aziendale. La classificazione della voce rappresenta il passo successivo. Individuato, invero, il modello giuridico negoziale di riferimento e chiarito se l’operazione presenti unicamente profili patrimoniali o si manifesti, in tutto o in parte, come fenomeno reddituale, se ne definisce l’appostazione in bilancio, tra i relativi elementi reddituali e/o patrimoniali (circ. 28 febbraio 2011, n. 7/E). Sul piano logico, ciò implica che una diversa classificazione in bilancio può generare una diversa imputazione temporale dei relativi componenti di reddito (Risposta ad interpello 4 marzo 2025, n. 63).

Ciò posto in premessa, deve osservarsi che nell’ottica giuridica ed aziendalistica la definizione di bilancio di esercizio è unitaria, e si sostanzia in un sistema di valori che, nel rispetto delle norme di legge e della migliore prassi contabile, ha la funzione di informare gli interessati del risultato economico dell’esercizio e della situazione patrimoniale e finanziaria che deriva dall’accertamento prudenziale del reddito prodotto (Bocchini E., Diritto della contabilità delle imprese. Il Bilancio di esercizio, Torino, 2016, capitoli da I a IV).

La qualificazione giuridica del bilancio di esercizio e dei documenti che lo compongono è di dichiarazione di scienza della situazione patrimoniale e finanziaria della società (stato patrimoniale) e del risultato economico raggiunto nel periodo di esercizio (conto economico) finalizzata alla loro rappresentazione chiara, corretta e veritiera.

Del pari, anche la delibera di approvazione da parte dei soci costituisce una dichiarazione di scienza e non di volontà.

Posti quindi in premessa la natura giuridica di dichiarazione di scienza del bilancio di esercizio ed il nesso di derivazione da esso del reddito fiscale, occorre indagare il profilo relativo alla possibilità, prevista a favore dell’Amministrazione finanziaria, di sindacare le scelte di bilancio effettuate dall’organo societario preposto.

A tale proposito, si ritiene che se una classificazione, imputazione temporale o valutazione di bilancio comporti riflessi fiscali in tema di determinazione del reddito imponibile tassabile, sul piano dell’attività di controllo e di accertamento, da parte dell’Amministrazione finanziaria, segua l’interesse alla tutela delle ragioni erariali; da attuare attraverso l’esercizio del potere di sindacare, ed eventualmente rettificare in ambito tributario, le scelte operate dal redattore del bilancio (cfr. circ. n. 7/E/2011, e Guardia di Finanza, circ. n. 1/2018, vol. III, parte V, cap. 3).

Sotto tale profilo, per la giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui il bilancio contabile risulti non rispettoso delle regole civilistiche di redazione, il reddito imponibile determinato risulterebbe, a sua volta, viziato da errori ed inesattezze; motivo per cui se ne imporrebbe la correzione in ambito tributario (per la soluzione di casi concreti, cfr. Cass., 11 giugno 2018, n. 15115; Cass., 13 luglio 2020, n. 14872).

In particolare, l’orientamento della Suprema Corte è di riconoscere a favore dell’Amministrazione finanziaria il potere di sindacare l’operato degli amministratori laddove la soluzione adottata in bilancio risulti: i) aver arrecato un danno all’Erario in termini di gettito; ii) sostanzialmente incompatibile con la normativa civilistica ed il principio contabile di riferimento; iii) palesemente irragionevole (sempre con riferimento a casi concreti, cfr. Cass., 17 ottobre 2014, n. 22016; Cass., 14 ottobre 2015, n. 20680).

Dall’orientamento del giudice di legittimità discende la condivisibile opinione espressa dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti secondo cui è da ritenere verosimile un’attività dell’Amministrazione finanziaria tesa al controllo (anche) della corretta applicazione dei principi contabili nazionali ed internazionali, e quindi del bilancio di esercizio, rappresentando, quest’ultimo, l’espressione finale della declinazione della migliore prassi contabile dettata dai principi contabili di riferimento (cfr., sul punto, La fiscalità delle imprese OIC adopter, IV ed., 2019, 54).

3. La conclusione secondo cui, nei termini sopra indicati, dovrebbe ritenersi legittimo il sindacato dell’Amministrazione finanziaria sul bilancio di esercizio redatto secondo le regole dettate dal codice civile, tuttavia, non è pacifica in dottrina (per una completa ricognizione dei contrapposti orientamenti, cfr. Grandinetti M., Il principio di derivazione nell’IRES, Padova, 2016, 199 ss.).

Sul tema, in estrema sintesi, la dottrina individua due opposte soluzioni.

La prima, adesiva all’orientamento della giurisprudenza e della prassi amministrativa prima indicate, ritiene legittimo ammettere il sindacato dell’Amministrazione finanziaria sul bilancio di esercizio per verificare il rispetto delle prescrizioni civilistiche. Ne segue che in caso di non corretta applicazione (a monte) dei principi civilistici di base alla redazione del conto economico del bilancio di esercizio o di un’errata applicazione dei principi contabili di riferimento, per conseguenza si avrebbe (a valle) l’errata misurazione (anche) del reddito imponibile e, quindi, la legittima rettifica fiscale di quest’ultimo (Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del Fisco strategie del difensore, Milano, 2022, 677).

Il potere di sindacato, in tal caso riconosciuto all’Amministrazione finanziaria, rappresenterebbe l’implicita, ma logica conseguenza della scelta operata dal legislatore tributario di positivizzare il nesso di derivazione del reddito fiscale da quello civilistico.

A tale conclusione si oppone un diverso orientamento.

Per quest’ultimo, il legislatore tributario, dopo aver previsto nell’art. 83 TUIR, il principio di derivazione, nulla dispone in tema di accertamento tributario del reddito civilistico. Ne seguirebbe l’inibizione per l’Amministrazione finanziaria del sindacato sulle valutazioni operate dalla società che impattano con il conto economico di bilancio. Tale inibizione troverebbe la sua giustificazione nell’esigenza di garantire l’applicazione dei principi di imparzialità dell’azione amministrativa e di legalità dell’imposizione tributaria, i quali, in caso di riconoscimento di un potere di sindacato erariale sul bilancio di esercizio, potrebbero ritenersi violati, sussistendo, altresì, l’elevato rischio di sconfinamento del potere di controllo e accertamento in decisioni arbitrarie a causa dell’assenza, nelle norme del codice civile, di parametri univoci di valutazione (Viotto A., L’accertamento sulle valutazioni di bilancio: i poteri dell’amministrazione anche alla luce della recente soppressione delle deduzioni extracontabili e delle modifiche concernenti i soggetti che adottano gli IAS, in Riv. dir. trib., 2009, 2, I, 205. In tal senso si era espresso il Ministero delle Finanze con circ. 27 maggio1994, n. 93).

Ed ancora, una diversa dottrina, pur giustificando le necessità di tutela degli interessi erariali, non ha mancato di precisare la presenza di previsioni normative che pongono rigidi limiti fiscali alle deduzioni attraverso l’uso di coefficienti di deducibilità predeterminate (i.e la derivazione semplice). Tali previsioni normative, quindi, potrebbero ritenersi le giuste predisposizioni di difesa dell’interesse erariale a fronte di comportamenti di bilancio disinvolti o frutto di eccessive e prudenziali politiche di bilancio (Stevanato D., Dal “principio di derivazione” alla diretta rilevanza dei principi contabili internazionali nella determinazione del reddito fiscale, in Dialoghi tributari, 2008, 1, 73).

4. Seppure autorevoli, entrambi gli orientamenti non paiono esenti da critiche.

Riguardo al potere di sindacare le scelte di bilancio operate dagli amministratori, potrebbe obiettarsi che l’esercizio dello stesso potrebbe costituire l’ingerenza dell’Amministrazione finanziaria in decisioni di tipo economico-aziendale e societario che non le competerebbe per difetto di attribuzione nonché di piena consapevolezza dei fatti di gestione e delle scelte imprenditoriali di base alle valutazioni di bilancio.

Tuttavia, deve segnalarsi che le disposizioni civilistiche dettate in tema di bilancio di esercizio prevedono criteri di valutazione elastici. All’interno di essi non esiste un valore che possa ritenersi corretto in assoluto, ma un fascio di soluzioni (tutte) astrattamente possibili e legittime, tra cui il redattore individua quella che ritiene meglio rappresentativa del caso concreto in funzione della rappresentazione contabile veritiera e corretta del risultato economico dell’esercizio (Contrino A., Rapporti “bilancio/dichiarazione” e poteri di accertamento dell’amministrazione finanziaria, in Corr. trib., 2015, 2, 91 ss.).

Ne segue che deve ritenersi escluso il potere dell’Amministrazione finanziaria di sostituirsi al redattore del bilancio nella scelta dei criteri di classificazione e di valutazione delle voci di bilancio se i valori finali risultano oggettivamente congrui.

Tale conclusione, tuttavia, sul piano concettuale sconterebbe un problema di ordine pratico.

Per affermare ex post che il conto economico di bilancio rappresenta in modo veritiero e corretto il risultato economico della gestione perché i valori attribuiti risultano essere congrui, l’Amministrazione finanziaria dovrebbe necessariamente operare i controlli sulla qualificazione, imputazione temporale, classificazione e valorizzazione quantitativa dei beni riportati in bilancio.

Per altro verso, non può ignorarsi che il reiterato esercizio di tale potere potrebbe comportare uno stato di soggezione continua delle società commerciali nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che comprometterebbe la certezza del rapporto tributario e che nuocerebbe al regolare svolgimento dell’attività economica in danno alle società stesse e agli stakeholders (Lupi R., Sostituzione dei principi contabili alle regole fiscali e possibile reinterpretazione degli organi verificatori, in Dialoghi dir. trib., 2008, 5, 33).

Non solo, l’esercizio del potere di sindacato sul bilancio – se continuo e illimitato –potrebbe essere oggetto di abuso da parte dell’Amministrazione finanziaria, al fine di imporre una diversa soluzione contabile, rispetto a quella adottata in bilancio, tesa solo ad ottenere un maggiore imponibile fiscale.

Volgendo l’attenzione verso l’orientamento della dottrina che, tout court, vieterebbe l’ingerenza dell’Amministrazione finanziaria tesa a verificare le scelte di bilancio operate dal redattore, occorre comprendere la ragione per cui l’art. 83 TUIR, dopo aver dettato la disciplina del principio di derivazione, nulla prevede in tema di accertamento del reddito civilistico. Considerato che, per detta dottrina, il silenzio del legislatore tributario deve ricondursi alla implicita volontà di negare all’Amministrazione finanziaria il sindacato sulle scelte di bilancio. Pur nella consapevolezza della elasticità dei principi e dei criteri civilistici di base alla formazione del bilancio.

Sul piano interpretativo, tuttavia, si potrebbe obiettare che il silenzio serbato dal legislatore deriverebbe, più semplicemente, dalla volontà di intendere operative le norme preesistenti in tema di ordinaria attività di accertamento del reddito di impresa (in tal senso, Guardia di Finanza, circ. n. 1/2018, parte III).

In caso contrario, invero, il legislatore stesso non avrebbe taciuto, ma avrebbe previsto una deroga al sistema di accertamento del reddito di impresa attraverso l’espressa previsione normativa dell’inibizione del controllo sul reddito civilistico dichiarato. A giustificazione dell’asserzione si consideri, ad esempio, l’art. 5, comma 5, D.Lgs. n. 446/1997 dove, in tema di IRAP, il legislatore ha espressamente previsto che i componenti positivi e negativi di reddito assumono rilevanza «in ragione della loro corretta classificazione» in bilancio (anche se, a ben vedere, anche qui si porrebbe il problema, prima rilevato, del necessario controllo della “corretta classificazione” in bilancio delle voci che impattano sul conto economico).

A conforto di quanto appena sopra riportato, occorre rilevare che altra dottrina ritiene che nonostante il silenzio del legislatore , sul punto, dell’art. 83, citato, in forza di una interpretazione sistematica dell’istituto non sarebbe ragionevole sostenere che il principio di derivazione postuli l’assoluta impossibilità dell’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte assunte in ambito civilistico (Viotto A., Le classificazioni di bilancio tra determinazione del reddito d’impresa e applicabilità delle norme antielusive, in Riv. dir. trib., 2006, 2, I, 76).

Proseguendo nell’analisi, deve ora osservarsi che il rapporto sostanziale tributario tra lo Stato ed il contribuente vede contrapposti l’interesse al reperimento dei mezzi finanziari per lo svolgimento dell’attività della parte pubblica e l’interesse, garantito dall’art. 53 Cost., della parte privata a non subire un prelievo che ecceda la propria capacità contributiva.

Ciò premesso, con riferimento all’interesse della parte pubblica rileva la circostanza per cui il bilancio di esercizio discusso ed approvato dai soci, e non impugnato da soggetti terzi legittimati, comunque non fornirebbe la certezza giuridica della sua veridicità.

Si ponga mente, ad esempio, alla figura della società di capitali a ristretta base sociale e/o familiare.

In tale ipotesi, si potrebbe immaginare la commistione di ruoli, in capo al singolo componente la compagine sociale, della funzione di amministratore che redige il bilancio e di socio chiamato ad approvarlo. Se si considera l’elevato tasso di incisione della fiscalità diretta sul reddito prodotto, si potrebbe dubitare del fatto che le imputazioni contabili e le valutazioni di bilancio siano realmente mirate all’applicazione dei criteri previsti dalla legge e non – nella realtà – tese solo ad ottenere un risparmio fiscale illecito.

In tal caso, considerata l’ampia presenza nel territorio nazionale di società a ristretta base sociale, al diniego assoluto di sindacato dell’Amministrazione finanziaria sul bilancio di esercizio seguirebbe il rischio potenziale, per la collettività, di subire la perdita di parte del gettito erariale.

Per altro verso – in disparte la considerazione che il redattore del bilancio non si qualifica pubblico ufficiale e, quindi, il bilancio non fa piena prova sino a querela di falso ex art. 2700 c.c. (Cass., 24 agosto 2018, n. 21106) – deve evidenziarsi il rischio generale, riferito a tutte le compagini sociali, che la discrezionalità degli amministratori insita nella scelta del comportamento valutativo e contabile da adottare sfoci volontariamente nell’irrazionalità o, peggio, nell’arbitrio nella determinazione del risultato di esercizio.

Per altro verso ancora, a conforto di un legittimo sindacato dell’Amministrazione finanziaria sul bilancio di esercizio, in disparte le operazioni volutamente non corrette, potrebbe deporre il caso, addirittura banale, della presenza di un errore materiale che incida in senso negativo nella determinazione del reddito civilistico e, di riflesso, fiscale. In danno, quindi, sia al “creditore Erario”, che avrebbe il legittimo interesse a vedersi riconoscere il valore del proprio credito sul maggiore reddito di impresa, e sia ai soci, che avrebbero titolo ed interesse a percepire un dividendo maggiore di quello riconosciuto dalla società.

Ampliando lo spettro dell’indagine alla derivazione rafforzata, deve osservarsi che a mente dell’art. 83 TUIR, la prevalenza delle scelte operate dagli amministratori è limitata ai criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione di bilancio. Ne segue, alla lettera, che sotto il diverso profilo della quantificazione e/o valutazione di un componente che impatta con il conto economico, non vi sarebbe alcuna prevalenza della norma civilistica su quella tributaria.

In tal caso, il diritto dell’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte di bilancio parrebbe difficilmente opinabile.

5. Ferma l’autorevolezza degli orientamenti della dottrina prima riportati, ampiamente ragionevoli e condivisibili seppure non esenti da critiche, all’esito dell’analisi sin qui svolta, se da un lato pare fondato dedurre la legittima esistenza del potere di sindacato sul bilancio da parte dell’Amministrazione finanziaria, dall’altro lato resterebbero da indagare, perché incerti, il perimetro e l’intensità di applicazione del potere stesso.

L’indugio su questi ultimi elementi è opportuno per giungere alla soluzione di contrapposti interessi meritevoli di tutela: quello delle società, di non subire un potenziale abuso di ingerenza del Fisco nello svolgimento dell’attività di impresa, e quello dell’Erario di acquisire i tributi secondo corretti principi costituzionali.

La questione non è teorica se, in premessa, si considera l’insegnamento della dottrina tributaria per cui «il reddito calcolato annualmente è un mero espediente, che vien messo in atto per la necessità pratica di rilevare, periodicamente, l’andamento della gestione» (Fichera F. – Fregni M.C. – Sartori N., a cura di, Francesco Tesauro, Scritti scelti di diritto tributario, Princìpi e regole, vol. 1, Torino, 2022, 332).

Ed ancora, sia perché la misura del reddito prodotto che ci occupa è «un concetto ibrido che non ha né la nitidezza di contorni né la coerenza dei concetti di reddito definiti dagli economisti» e sia perché, in ambito tributario, il nesso di derivazione dal bilancio di esercizio deve «rispondere anche a “esigenze di semplicità, comodità, snellimento e persino di artificiale gonfiamento del prelievo» (Falsitta G., Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 2022, 387-391).

Riportato in sintesi: il bilancio di esercizio non rappresenta l’espressione numerica di un risultato certo ed effettivo, essendo il frutto di valutazioni inevitabilmente soggettive.

Sul piano esemplificativo, vale quanto dire che il bilancio di esercizio di una società predisposto da redattori diversi può comportare risultati diversi, senza che, con ciò, si possa parlare di bilanci civilistici non veritieri e suscettibili di rettifica in ambito tributario. Come annota la dottrina, invero, l’oggettiva impossibilità di determinare la ricchezza prodotta in un determinato periodo potrebbe non dipendere dalla cattiva fede o dalla volontà di produrre false aspettative in chi legge il bilancio quanto, piuttosto, dalla banale considerazione dell’inattuabilità tecnica di un simile obiettivo (Avi M.S., Veridicità o trib-veridicità del bilancio d’esercizio? Un’analisi storica. Il bilancio di esercizio e il fisco dall’Unità d’Italia alla riforma Vanoni, vVol. I, : Milano-Torino, 2020, 30).

Questa ci appare, in conclusione, la ragione per cui il legislatore civilistico ha (necessariamente) riconosciuto al redattore del bilancio la possibilità di accedere a criteri alternativi e la ragione per cui il potere di sindacato erariale non può ritenersi illimitato e privo di garanzie per il soggetto sottoposto al relativo giudizio.

Sul versante tributario, quanto precede traduce che l’Amministrazione finanziaria non può sindacare, ad esempio, le scelte di bilancio operate dal redattore se queste risultano essere rispettose del principio di chiarezza, veridicità e correttezza previsto dall’art. 2423 c.c., e quindi razionali e non arbitrarie.

In caso, quindi, di scelte di bilancio – se si vuole opinabili, ma razionali – il sindacato dell’Amministrazione finanziaria eluderebbe il chiaro dato normativo che, come visto, si fonda nel condivisibile convincimento che non esiste il bilancio di esercizio che possa ritenersi vero in assoluto e non in senso tecnico.

Non solo, proprio per la sua natura incerta – in termini sia economico-aziendale sia giuridici – non può non rilevarsi il rischio dell’uso partigiano del potere di sindacato perché, al limite, operato al solo fine di ottenere un maggiore gettito erariale.

Proseguendo l’indagine sotto un diverso profilo, ci pare di poter concludere che non potrebbe essere sindacata la scelta del redattore del bilancio che abbia l’unico fine di trarre un vantaggio fiscale.

Per la ragione che né l’art. 2423 c.c. né i principi contabili di riferimento onerano il redattore di praticare l’opzione fiscalmente più onerosa. Annota la dottrina che «nel momento in cui rinvia alla normativa contabile, quella tributaria inevitabilmente assume come propria la possibilità di scegliere tra le diverse impostazioni che la prima offre. In altre parole, l’opzione contabile diventa opzione fiscale, e l’opzione fiscale, per definizione, può connettersi anche soltanto (anzi, tipicamente si connette unicamente) a logiche di risparmio d’imposta» (Zizzo G., La fiscalità delle società Ias/Ifrs, Padova, 2018, 27).

Sotto tale profilo, è il caso di precisare che riconoscere all’Amministrazione finanziaria la possibilità di sindacare le scelte contabili effettuate dal redattore del bilancio ogni qualvolta esse possano provocare l’effetto di una riduzione del gravame fiscale, significherebbe svilire, tra l’altro, l’obiettivo di semplificazione amministrativa e di attribuzione di certezza al dato contabile, e quindi del sottostante rapporto tributario, perseguito dal legislatore con l’introduzione del principio di derivazione rafforzata.

Un ulteriore limite all’ingerenza dell’Amministrazione finanziaria sulle scelte di bilancio ha un evidente carattere temporale.

La normativa civilistica impone al redattore del bilancio la formulazione veritiera del bilancio di esercizio in base ai dati e alle informazioni a disposizione alla data della relativa predisposizione. Da parte dell’Amministrazione finanziaria, quindi, non dovrebbero ammettersi sindacati sul bilancio di esercizio resi ex post sulla base di elementi sopravvenuti, prima non conosciuti né conoscibili dal redattore (v. art. 97 Cost.).

Infine, una chiosa in tema di valutazione dei beni.

In tal caso, non ci pare esserci un limite al sindacato del Fisco.

In seno a tale ambito, invero, deve distinguersi la valutazione del fatto di gestione che incide sulla rappresentazione di una voce di bilancio dalla valutazione economica del bene iscritto in bilancio.

Entrambe pertengono al redattore, ma mentre la seconda è dettata dalla legge, la valutazione delle circostanze che hanno determinato il fatto di gestione si sostanzia nella ricognizione di eventi oggettivi. Per sua natura, quest’ultima può essere sindacata dall’Amministrazione finanziaria e contestata alla società in presenza di un giudizio difforme, non essendo previsti dalla legge margini di apprezzamento a favore del redattore del bilancio.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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